di Ivan Quaroni
“L’acqua parla senza sosta ma non si ripete mai.”
(Octavio Paz)
Dire oggi che un artista lavora sulla memoria significa fare un’affermazione quantomeno generica. In tanti (forse troppi) si sono occupati di questo tema nell’arte contemporanea, tanto che elencarli tutti, sarebbe pletorico. Nel caso di Manuel Felisi, più interessante è cercare di capire perché egli associ la dimensione dei ricordi a un elemento naturale come l’acqua.
Cominciamo con un chiarimento: in arte il “come” conta più del “cosa”. Il tema di un’opera d’arte, infatti, non può garantirne automaticamente la qualità. Il modo (cioè il “come” dell’arte) di Manuel Felisi si è precisato nel corso del tempo attraverso una serie d’interventi installativi in cui l’acqua è una presenza ricorrente, quasi ossessivamente reiterata. Un altro fattore periodico nell’indagine plastica dell’artista è la costruzione di uno spazio o meglio di un environment, che fa da teatro a una serie di accadimenti minimali. Uso precisamente la parola “teatro” per via della tendenza di Felisi ad allestire i luoghi con attenzione quasi scenografica, plasmando lo spazio con dovizia di particolari. Le coordinate della memoria sono propriamente il tempo e il luogo che, insieme all’azione, costituiscono le unità aristoteliche della drammaturgia classica e, dunque, gli elementi essenziali di qualsiasi narrazione.
Tutte le installazioni di Manuel Felisi hanno una qualità narrativa, nel senso che raccontano un avvenimento reale o presunto, un fatto concreto o immaginato o, più probabilmente, entrambi. “Ogni memoria”, sosteneva il designer canadese Bruce Mau, “è un’immagine degradata o composita di un precedente avvenimento”[1]ed è, dunque, un costrutto differente dalla sua sorgente. Le memorie cui attinge Felisi non sono fedeli ricostruzioni del passato ma eventi che si producono nel presente, a partire da ricordi tutto sommato pretestuosi. Quel che conta nei suoi environmentè la possibilità di reinventare il passato nel presente, di evocare qualcosa che, per effetto della nostra naturale tendenza a dimenticare e a compensare le lacune mnestiche con l’immaginazione, diventa un fatto nuovo, inedito.
Nelle installazioni realizzate dal 2010 a oggi, l’acqua assume un ruolo dinamico in uno spazio essenzialmente statico. La prima opera esposta allo Spazio Oberdan di Milano, intitolata 06/10/2010 (2010), era, di fatto, la perfetta ricostruzione di una stanza soggetta all’azione dilavante della pioggia. Sinfonia(2015), invece, sottoponeva alla lenta (e sonora) corrosione pluviale un vecchio pianoforte fino al suo completo disfacimento. In La memoria dell’acqua(2016), infine, lo sgocciolamento in uno spoglio studio d’artista passava attraverso barattoli di colore marcando le pareti di liquide tracce pigmentate.
Col passare del tempo gli ambienti di Felisi si sono fatti più rarefatti, essenziali. In Una sola (2017) il precipitare di una singola goccia d’acqua e la sua amplificazione sonora attraverso un microfono e un altoparlante rappresentano i soli elementi dell’installazione. Questa scarnificazione scenografica si ritrova anche in opere come Meno Venti (2013), Tempio (2015) e Tempo immobile (2017), tutte caratterizzate dall’impiego di celle frigorifere, dove l’acqua è presente come composto solido (il gelo).
Se l’acqua, nelle sue varianti liquide e solide, è l’ubi consistamdell’indagine di Manuel Felisi, allora è lecito domandarsi perché l’artista abbia eletto questo elemento per rappresentare le inafferrabili proprietà della memoria.
Una delle possibili spiegazioni è che l’acqua, come la memoria, è fluida, mobile e soggetta a modificazioni. L’altra ragione, purtroppo non avvalorata dalla scienza ufficiale, è che l’acqua avrebbe una memoria. Lo scrittore e scienziato giapponese Masaru Emoto sostiene che essa reagisce alle sollecitazioni esterne (ad esempio musica, preghiere, sentimenti) fungendo da trasmettitore d’informazioni. In sostanza, Emoto ha osservato che le particelle d’acqua reagiscono a pensieri, parole e suoni, formando cristalli ordinati o caotici secondo le qualità armoniche o disarmoniche delle vibrazioni circostanti. Sottoposte a congelamento, le particelle acquee forniscono la fotografia dello stato vibrazionale di un ambiente in un determinato momento.
A conclusioni analoghe è giunto anche Manuel Felisi. L’opera del 2016 intitolata Spartito, è, infatti, una tavola di tre metri per due in cui sono allineate centinaia di bustine contenenti l’acqua utilizzata per l’installazione Sinfonia. L’intento di creare un archivio “organico” dell’evento precedente, insomma una sorta d’ipertesto visivo, dimostra che l’artista intende l’acqua proprio come elemento simbolico collegato alla memoria. D’altra parte, in molte culture tradizionali e religiose l’acqua assume significati legati alla purificazione e alla rigenerazione dell’uomo attraverso aspersioni e immersioni che gli permettono di mondare i peccati precedenti per iniziare una nuova vita. Nella simbologia dantesca l’esempio più illustre è connesso al passaggio dal Purgatorio al Paradiso. Il fiume Lete (già presente nell’Eneide virgiliana) consente alle anime del purgatorio di dimenticare le proprie colpe terrene, mentre un altro corso d’acqua, l’Enuoé, permette alle stesse di ricordare le opere buone compiute in vita.
Ricordo e dimenticanza sono, quindi, concetti storicamente ricorrenti nella simbologia acquatica, che assumono una valenza psicologica anche nella moderna psicanalisi. “L’acqua in tutte le sue forme – in quanto mare, lago, fiume, fonte ecc. – è una delle tipizzazioni più ricorrenti dell’inconscio”, scrive, infatti, Carl Gustav Jung[2].
Si può affermare che anche l’inconscio, con la sua congerie di memorie rimosse, è in qualche modo un oggetto secondario dell’indagine di Felisi, le cui installazioni hanno talvolta a che vedere con immagini e percezioni che rimandano all’infanzia e alla giovinezza dell’artista.Tana, ad esempio, opera inevitabilmente allusiva alla Narniadi C.S. Lewis (The Lion, the Witch and the Wardrobe, 1950), evoca il senso di mistero e inquietudine, ma anche di meraviglia e scoperta di giochi infantili come il nascondino.
Anche nell’ultima opera, In Absentia (2018), l’artista parte pretestuosamente da un ricordo. In realtà, si tratta di una rievocazione, che è, insieme, una reinvenzione, delle lezioni di disegno dal vero impartite al Liceo artistico. Felisi costruisce, di fatto, un set (quasi psicanalitico), un teatro interiore questa volta ancora più conciso e minimale, in cui si riconoscono pochi oggetti: gli sgabelli degli studenti, gli appendiabiti per i grembiuli e, nel punto apicale di questa ideale aula, il luogo di posa della modella, uno spazio vuoto, alluvionale, dove la pioggia diventa, ancora, la traccia di un vissuto probabile ma incerto.
L’ambiente spoglio, “disabitato” è la quinta di un evento trascorso di cui restano, come sole testimonianze, poche foto. Nelle immagini la classe è di nuovo popolata e il luogo di posa della modella è occupato da Susa, donna che a suo tempo posava per gli studenti del Liceo e che oggi ritorna, nell’età declinante, a occupare momentaneamente quel ruolo.
Le foto di Manuel Felisi non assomigliano alle foto-ricordo. L’evento immortalato è presente, nuovo, ma è anche un impietoso documento di trasformazione fisica, emotiva, spirituale, il segno di un’evoluzione che non ha necessariamente il sapore di un rimpianto. La sequenza d’immagini è il racconto di una sparizione, di un’assenza, quella di Susa appunto, che è allegoria dei meccanismi di rimozione e, insieme, citazione di una precisa metodologia d’insegnamento. Il disegno a memoria, eseguito con il solo ausilio dell’impressione lasciata dall’oggetto (o dal corpo in questo caso), è una disciplina di perfezionamento della percezione visiva che permette al discente di trasferire l’immagine dall’esterno (imitazione) all’interno (creazione). Chi impara a disegnare a memoria affina le proprie qualità cognitive. L’assenza, come la dimenticanza, è un fattore necessario allo sviluppo degli individui.
Se le fotografie sono un antefatto, l’installazione In Absentiaè un post factum, il residuo di un accadimento precedente, con la sola eccezione della pioggia, che con il suo scrosciare intermittente indica il luogo dell’oblivione, il posto vacante della modella. L’acqua diventa, così, l’indicatore tattile, acustico e visivo di una dissolvenza dolorosamente necessaria, ma anche il simbolo di una conclusiva ricapitolazione del passato che può lasciare finalmente spazio a una rinascita. Come l’allievo che disegna a memoria si emancipa dalla dittatura della mimesi, così l’adulto che ha ricapitolato il passato, si libera dalla tirannia del rimpianto. “L’oblio ci riconduce al presente”, scrive, infatti, Milan Kundera, “pur coniugandosi in tutti i tempi: al futuro, per vivere il cominciamento; al presente, per vivere l’istante; al passato, per vivere il ritorno; in ogni caso, per non ripetere”[3].
Note
[1]Bruce Mau, Manifesto (incompleto) per la crescita, documento in 43 punti, indirizzato ad architetti e progettisti, largamente disponibile in traduzione sul web.
[2]Carl Gustav Jung, Mysterium coniunctionis, in OPERE, vol. XIV, t. 2, Torino, Boringhieri, 1990, p. 285.
[3]Milan Kundera, La lentezza, Adelphi, Milano, 1995, p. 124.
Info:
Manuel Felisi. In absentia a cura di Ivan Quaroni Opening: giovedì 22 novembre, h. 18.30 Fabbrica Eos Piazzale A. Baiamonti 2 20154 Milano Tel. 02.6596532 www.fabbricaeos.it / info@fabbricaeos.it