Moglie e buoi dei paesi tuoi.
La scorsa settimana un mio amico è andato a convivere con la sua compagna. I due sono separati geograficamente da un centinaio di chilometri. Nulla di insuperabile, se non fosse per gli ovvi problemi logistici. Lui, giornalista di un settimane locale, è stato redarguito in tal modo dal suo direttore: “Certo che potevi trovartene una più vicina. Una più comoda.”
Già, più comoda: lo stesso giudizio che si può dare di un divano o di una sedia. Peccato che parliamo di una persona.
Ma la cosa sconcertante è un’altra, vale a dire il concetto di territorialità estrema, dello “stagno sociale”, in tempi in cui certe categorie di lavoratori (tra cui i giornalisti, come il mio amico Andrea) potrebbero farsi assumere dal The Advertiser di Adelaide, scrivendo gran parte degli articoli dal suo bilocale di Cesano Boscone.
Il problema è legato alla nostra mentalità.
No, non sto di nuovo iniziando a lamentarmi dell’Italia. Non mi piacciono i discorsi del tipo “certe cose non funzionano soltanto qui”. È semplicistico e un poco demagogico.
Tuttavia è innegabile che il carattere dell’italiano sia improntato al campanilismo, al radicamento sul territorio.
Molti miei coetanei non si sono mai mossi dalle posizioni ideologiche inculcate dalle famiglie: fidanzati con una (o con uno) del paese, sposala, trovati un lavoro a una quindicina di chilometri da casa, entra nella squadra di calcio del tuo quartiere, non perdere di vista gli amici dei tempi di scuola.
Un vecchio e apprezzato albo di Dylan Dog avrebbe definito tutto ciò con un solo, azzeccato termine: l’orrore.
No, ok, forse esagero.
Io sono legato alla mia terra e alla mia famiglia. Conservo dei buoni ricordi della mia giovinezza, dei compagni di classe e delle prime fidanzatine.
Però ho iniziato a fare il nomade fin da giovanissimo.
Nomade digitale, almeno per ora, ma vale lo stesso. Era il 1997 ed ero uno dei primi in paese ad avere un modem e una connessione a Internet. Grazie ai forum e a ICQ conobbi un sacco di persone coi miei medesimi interessi. La più vicina abita a venti chilometri da casa mia, ma c’erano anche ragazzi svizzeri, napoletani, abruzzesi. Negli anni seguenti si aggiunse anche un giapponese, Toshiro, ingegnere di Kobe, che venne in Italia. Ci incontrammo a L’Aquila nel 1999, in occasione di un concerto. Comunicavamo a gesti, visto che lui parlava poco inglese.
Fu divertente e istruttivo.
Gli anni sono passati. Le passioni si sono trasformate. Il nomadismo digitale si è trasformato da veicolo di intrattenimento a opportunità di lavoro.
Oggi scrivo – non è la mia professione principale, ma ci arriveremo presto – e collaboro con persone di Bolzano, Taranto, Asti, Parma, Catania. Attraverso di loro passa molto del lavoro “occulto”, quello che contribuisce al risultato finale, il solo che risulta evidente agli occhi del lettore.
Anche altre mie attività, per esempio il marketing e le collaborazioni con webzine che trattano di argomenti non strettamente affini alla letteratura, passano attraverso luoghi molto, molto lontani da casa mia.
Ah, non dimentichiamo che la mia compagna la conobbi in quegli anni lontani pre-2000, e che non è affatto “dei paesi tuoi”, abitando infatti a una quarantina di chilometri da me. Non sono tanti, ma per la mentalità di molti questi 40 km fanno (farebbero) di noi due forestieri.
Ha dunque davvero senso parlare di campanilismo, di strenue difesa di un microcosmo legato a un tot di ettari di terra, a un cerchio rosso su una cartina geografica?
A dire del direttore di Andrea, sì. I suoi articoli, che potrebbero essere scritti tranquillamente da qualunque parte del globo, a quanto pare sono più validi se vengono elaborati a Cesano Boscone.
Il perché è tutto da scoprire.
(A.G. – Follow me on Twitter)
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