Perché scrivere cose difficili da vendere?

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Nel famigerato “Blocco C” si fa un gran chiacchierare, in queste settimane, sulla complicata vendibilità di buona parte dei racconti/romanzi che scriviamo.
Oramai anche i sassi sanno quali sono i filoni del fantastico che – in Italia – hanno un pubblico di fedeli lettori: storie di zombie, paranormal romance, qualcosa di erotico (possibilmente con le copertine zozze, in stile Delos), urban fantasy, young adult, fantasy in stile “predestinato contro Oscuro Signore”, distopie alla Hunger Games.
Non scopro nulla di straordinario: basta dare un’occhiata alle classifiche di Amazon per verificare ciò che affermo.
Da qui la domanda provocatoria di uno dei miei amici e colleghi autori: se questa è la roba che vende, perché non dedicarsi a essa? Perché impegnare tutto il tempo a scrivere cose molto più complicate da piazzare sul mercato?
Provocazione o meno che sia, questa domanda ha un senso.

Tempo fa ho valutato l’idea di scrivere una serie di novelle in tema zombie apocalypse, robe molto più brevi e più classiche rispetto a Zona Z e a Evento Z. L’idea era di produrre una serie di racconti con tutti gli elementi che piacciono – per dire – ai fan di The Walking Dead. Storie di sopravvissuti, qualche menata finto-psicologica, azione, il villain di turno, e via.
Robe che un autore esperto può scrivere in sonnambula, a ciclo continuo.
Avrei potuto pubblicarli sotto pseudonimo e contare su vendite facili.
Poi però ho deciso di non farlo, e ho continuato a occuparmi dei miei progetti narrativi, da 2MM a Maciste, passando per l’horror di Italia Doppelganger.

Non farò facile moralismo: se avessi più tempo da dedicare alla scrittura – se fosse il mio unico lavoro – probabilmente tenterei un esperimento come quello appena descritto. Visto che non è così, preferisco complicarmi la vita e cercare di crearmi un pubblico, piuttosto che andare incontro a quello che già esiste.
Non è snobismo, è un metodo di lavoro.
I bravi editori e i bravi autori hanno educato i loro lettori, mediando in parte quella che era una tacita richiesta dei medesimi.
H.P. Lovecraft, tanto per citare un mostro sacro, ha creato il suo ciclo dal nulla, anche se – come è logico e naturale – anche il Solitario di Providence aveva delle fonti d’ispirazione (Dunsany e Machen su tutti).
Lovecraft ha creato una ierofania vera e propria, un universo popolato da personaggi, mostri, oggetti ricorrenti.
Ora HPL è considerato un autore imprescindibile, ma in vita – si sa- non fu esattamente baciato dalla fortuna. Molto prolifico e apprezzato dai colleghi, ha però impiegato anni (dopo la sua morte) per essere riconosciuto come un innovatore e un maestro.

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Senza spingersi a cotante ambizioni, che a dire il vero non mi interessano granché (non credo nei maestri, nei guru, in nessuna figura di riferimento intesa come assoluta o mistica), l’esempio di HPL serve per far capire quanto sia importante cercare di creare e di formare un pubblico.
Importante e difficile, ma non impossibile.
La peggior colpa degli editori italiani dagli anni 2000 a oggi è di non aver tentato un percorso del genere, adagiandosi su quelle mode importate dall’estero, che parevano vendere più di altre. Hanno però dimenticato – o finto di farlo – che all’estero non è mai venuta meno una varietà d’offerta che di fatto non lascia nessuno all’asciutto.

Io sono un piccolo autore indie. Non conto assolutamente nulla nell’ambito della narrativa di genere italiana, però mi piace vedere che, di tanto in tanto, qualche lettore mi ringrazia per aver proposto storie di generi quasi del tutto trascurati nel nostro paese.
Sono soddisfazioni, al di là del mero rendiconto vendite (che – inutile fare gli ipocriti – è comunque molto importante).

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