Per essere un blog con preponderanza di articoli e recensioni dedicate all’horror, Plutonia Experiment si è occupato relativamente poco di Stephen King, da molti ritenuto il Re assoluto del genere in questione. E dire che io di King ho letto quasi tutto, al punto che non potrei mai ripudiarlo, anche se probabilmente non rimetterei mano ai suoi vecchi e più celebrati romanzi nemmeno sotto minaccia armata. Non perché li ritenga brutti (anzi), bensì perché col tempo sono diventato un acerrimo nemico della prolissità. Il nuovo King, al contrario, mi piace, anche se non ho letto i suoi due libri più recenti.
Ci sono però due romanzi che ho ripassato volentieri nel corso del 2015: Shining e Pet Sematary. Quest’ultimo, in particolare, è forse il King che più mi ha spaventato.
In una limpida giornata di fine estate, la famiglia Creed si trasferisce in un tranquillo sobborgo residenziale di una cittadina del Maine. Non lontano dalla loro casa, al centro di una radura, sorge Pet Semetary, il cimitero dei cuccioli, un luogo dove i ragazzi del circondario, secondo un’antica consuetudine, usano seppellire i propri animaletti. Ma ben presto la serena esistenza dei Creed viene sconvolta da una serie d’episodi inquietanti e dall’improvviso ridestarsi di forze oscure e malefiche.
Di Pet Sematary io possiedo l’edizione Sperling Paperback del 1985, con una copertina un po’ pacchiana (ehi, erano i ruggenti anni ’80!), ma a cui sono affezionato.
Stiamo parlando di una storia che evoca e fa uso dell’orrore più puro, profondo e spaventoso, vale a dire quello che colpisce i nostri cari. La nostra compagna. Nostro figlio. I nostri cuccioli.
Tutto il resto, le forze oscure e misteriose (che per una volta rimangono tali, senza ricorso a lunghi spiegoni) che resuscitano i morti, sono meri orpelli per amplificare il terrore atavico della morte e della perdita.
La prima volta che lessi Pet Sematary avevo forse undici, dodici anni. Età in cui, salvo sfortunate eccezioni, i concetti di morte, distacco e elaborazione del dolore sono vaghi, sfumati. Eppure ricordo che provai una certa angoscia in certi passaggi del romanzo, specialmente quelli in cui il protagonista ricorda l’infanzia e la terribile malattia della sorella,
Ora, a quasi trent’anni di distanza, Pet Sematary mi ha colpito ancora di più.
Sarà perché quei concetti elencati poc’anzi non sono poi più tanto bizantini, quanto piuttosto concreti e spaventosi. Con buona pace dei mostri in qualche modo “rassicuranti” di cui si occupa l’industria dell’horror.
La prospettiva di non riuscire ad accettare la perdita di un proprio caro sta alla base del romanzo di King.
La possibilità di riportarlo indietro, pur con la quasi certezza che non sarà più quello di prima, è la classica tentazione in cui ciascuno di noi potrebbe facilmente cadere.
Voi l’avreste seppellito un vostro genitore defunto, in quel cimitero maledetto del Maine? L’avreste fatto col vostro amatissimo cane? O magari con vostra moglie (o marito) morta prematuramente di cancro?
Li riportereste indietro, anche sapendo che potrebbero essere cose maledette, empie e aggressive?
Non è forse questa una metafora (sicuramente involontaria ed estranea al volere di King) di chi vuole obbligarci a vivere anche quando la dignità minima indispensabile è venuta meno?
Sì, sto parlando di eutanasia.
L’elaborazione del dolore e quella del lutto sono forse tra le esperienze peggiori dell’esistenza umana. Ancor peggiori del lutto medesimo, che a volte può essere perfino momentaneamente liberatorio (pensate a una persona che spira dopo una lunga e massacrante malattia).
In Pet Sematary King mette il lettore davanti a tutto questo e anche davanti a un’alternativa, che però ha il sapore putrido e acre della dannazione.
Un gran romanzo, forse non per tutti, né da classificare come mero intrattenimento. Uno dei migliori King di sempre, a mio parere.
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