Di Ivan Quaroni
Laggiù tutto è ordine e bellezza
Lusso,calma e voluttà
(Charles Baudelaire) [1]
L’opera di Salvo è chiaramente, fin dal principio, il risultato di due importantissime scelte, di due gesti precisi, che tracciano i confini del suo modus operandi. Il primo gesto riguarda la provvidenziale affermazione del valore dell’individuo in un clima culturale dominato dall’ossessione collettivista. Nella Torino dei primi anni Settanta, in pieno rigore poverista, Salvo introduce, in assoluta controtendenza, il recupero della soggettività come orizzonte entro cui sviluppare l’azione artistica. Prima della famosa svolta pittorica, infatti, esordiva nella galleria di Gian Enzo Sperone con dodici fotomontaggi, in cui appariva nelle molteplici vesti di operaio, di ballerino, di guerrigliero, di ufficiale nazista, di aviatore. L’Autoritratto (come Raffaello) del 1970 dimostra che il recupero della dimensione individuale e soggettiva è solo un atto preliminare, che porterà Salvo ad introdurre subito dopo il tema del potere generativo e demiurgico dell’artista. Una serie di autoritratti fotografici eseguiti tra il 1970 e il 1975 ritraggono Salvo nell’atto di benedire la città di Lucerna. La santità è semplicemente un altro modo di ribadire l’aura mitica dell’artista, sottolineata a più riprese sia nelle Lapidi che nei Tricolori con la scritta “Salvo”, realizzati tra il ’71 e il ’72. L’ego creativo è dunque il primo dominio operativo di Salvo, un territorio circoscritto, ma potenzialmente infinito, perché gli permetterà, in seguito, di intendere la pittura non solo come campo d’indagine formale, ma anche come strumento di proiezione del proprio vissuto culturale ed esperienziale. I capricci e i d’après che costellano la sua produzione ne sono un esempio. Si tratta di generi pittorici in cui è esaltata la personalità dell’interprete, la sua maniera di “vedere” e “sentire”, di modulare un tema assecondando la propria sensibilità. Nata nell’Ottocento, la pratica del d’après si differenziava dalla copia fedele eseguita nei musei e nelle accademie, per confrontarsi piuttosto con l’esperienza della variazione musicale. Di fatto, il d’après era una variante dell’originale, un modo con cui l’allievo pittore, affrancandosi dalla pratica della copia, dimostrava la sua maturità. Ora, si dà il caso che le prime opere pittoriche di Salvo siano oltre che degli autoritratti, anche dei d’après, cioè delle “modificazioni” da originali di artisti di varie epoche. Ciò ci introduce direttamente alla seconda, determinante, scelta compiuta da Salvo, ovvero quella di avere come interlocutori i grandi maestri del passato. Esemplare, in tal senso, è la sua partecipazione alla mostra “Project ‘74” a Colonia, dove chiede, a sorpresa, di essere collocato non nella Kunsthalle, insieme agli altri partecipanti, ma nel Wallraf-Richartz-Museum, tra le opere di Cezanne, Rembrandt, Watteau, Cranach e Simone Martini. Il suo lavoro, che doveva rappresentare il Novecento, era una variazione su un’opera di El Greco, San Martino e il povero. Le conseguenze di quell’azione saranno molteplici. Per prima cosa, quella che Cristiana Perrella ha chiamato “la discesa nella storia dell’arte, ma anche, e soprattutto, il processo di identificazione, di incarnazione, tra sé e le proprie opere”.[2] Quella speciale relazione, che l’artista intrattiene con i suoi illustri predecessori nel San Martino, come nei successivi San Giorgio – ripresi da Raffaello, da Cosmè Tura e da Carpaccio -, è sia un escamotage per inserirsi di diritto nella sequenza temporale dei Maestri (del colore), sia una maniera per segnare i confini del proprio operare. Il confronto avviene, verrebbe da dire, fuori dalle urgenze del presente (quello in cui dominava l’arte Povera e Concettuale), ma dentro i meandri di una storia sconfinata, in cui il nostro si muove con curiosità e sapienza eclettiche.
La grande novità in quel fatidico 1973 in cui la pittura, per suo merito, rientra, seppure un po’ in sordina, nell’arena del contemporaneo, consiste anche nell’aver riaperto quel dialogo con il passato che era stato interrotto dall’Arte Povera. In un articolo su Flash Art del 1967, Germano Celant definiva l’attitudine poverista come “un esserci […] che predilige l’essenzialità informazionale, che non dialoga né col sistema sociale, né con quello culturale, che aspira a presentarsi improvviso, inatteso, rispetto alle aspettative convenzionali, un vivere asistematico in un mondo in cui il sistema è tutto”.[3] All’opposto, come ha scritto Alberto Fiz, “il ritorno alla pittura [di Salvo] coincide con una presa di posizione nei confronti della storia dell’arte che viene tolta dalla naftalina per entrare prepotentemente nel circuito attraverso un ipertesto destinato a modificare il modello lasciando, tuttavia, intatto l’impianto narrativo”.[4] È, ancora, la logica del d’après, che Salvo applica nei confronti di tutta la storia, ricavando il proprio stile proprio dalla stilizzazione e semplificazione del segno dei maestri. D’altra parte, già nello scritto teorico, intitolato Della pittura. Imitazione di Wittgenstein, l’artista si poneva il seguente quesito: “Evoluzione della storia dell’arte come disfacimento progressivo della forma, come progressiva cecità, oppure come continuo accrescimento del vedere?”[5]. La risposta non è affatto immediata, perché la stilizzazione pittorica operata da Salvo può essere letta come sintomo del disfacimento formale a cui la storia dell’arte và incontro, ma anche come ritorno ad una semplicità originaria, ad un punto di ripartenza, come nel caso dei pittori Nazareni o in quello più illustre di Cezanne. Il succitato “accrescimento del vedere” coincide allora con la capacità di rileggere e riscrivere la pittura, rinunciando a quel tipo di spirito avanguardista, che pretende di scavalcare la storia. Salvo è artista che abbraccia la storia, ma anche il presente, il mondo e il contesto in cui vive. La sua idealità non è quella dell’ingenuo, ma quella dell’erudito che trova nella stratificazione e nei depositi culturali del passato una materia vivificante, pur senza cadere nella prigione stilistica degli anacronismi. Per dirla con Jean Clair, in Salvo “il passato feconda il presente, il presente risveglia il passato, sotto il sole strano e inquietante della coscienza”.[6] La pittura di Salvo è, in un certo senso, come certi racconti di Borges, soprattutto quelli di Aleph e Finzioni, in cui l’autore narra di luoghi immaginari e di personaggi storici, che però sono totalmente reinventati a beneficio del lettore. La storia come menzogna o come reinvenzione è il nucleo della ricerca di Salvo.
Salvo ha dipinto quasi tutti i generi pittorici, ma il paesaggio, tra tutti, ha assunto quasi subito un ruolo dominante. Sono paesaggi molti dei suoi d’après, i capricci, le ottomanie, i notturni, le periferie, le autostrade, i cantieri navali e le fabbriche. Il paesaggio di Salvo è il luogo in cui si fissa la semantica dell’artista, il bacino di raccolta del suo alfabeto, della sua grammatica. Il paesaggio di Salvo è, a tutti gli effetti, una sorta di linguaggio dotato di una solida sintassi, che si declina, sovente, in nuove inflessioni fonetiche. È un refrain, un leit motiv, un ritornello insomma, su cui si incardina la variazione con le sue evoluzioni e i suoi assolo. Ci sono forme ricorrenti di alberi, di colonne, di nuvole, forme di case e soli perfetti, che proiettano ombre blu. Soprattutto c’è la luce, quella purpurea dei vespri e quella adamantina dell’alba, che ricorre, inossidabile, in tutti i luoghi dipinti da Salvo, anche perché, come dice lui, “il paesaggio può cambiare, ma la luce no, la luce è sempre la stessa”. Quella luce che, in fin dei conti, è l’elemento più vivamente realistico dei suoi paesaggi, quello più aderente alla sensazione percettiva del colore. La questione, più volte dibattuta, infatti, è quanto ci sia di irreale e quanto di vissuto nei dipinti di Salvo. Per risolvere il dubbio, Salvo chiede ai suoi interlocutori quale sia, secondo loro, il significato dell’opera La trahison des images di Magritte, quella con la scritta “Ceci n’est pas une pipe”. La risposta dell’artista siciliano è tanto semplice quanto disarmante: “quella non è una pipa perché non si può fumare”. Come dire che un quadro è semplicemente un quadro, una cosa completamente diversa dalla realtà, soprattutto quando pretende di rappresentarla.
I paesaggi di Salvo non sono mai una riproposizione fedele della realtà e nemmeno una versione stilizzata della realtà, anche se contengono riferimenti precisi, come la chiesa di San Giovanni degli Eremiti di Palermo o l’Etna. Le chiese, i minareti, le rovine classiche sono elementi ricorrenti del suo linguaggio formale, come le nuvole e le chiome degli alberi. In Salvo, realtà e astrazione, passato e presente s’intrecciano sempre, fino a diventare indistinguibili. D’altra parte, come ha scritto Borges “l’opera che perdura è sempre capace di un’infinita e plastica ambiguità”. E l’opera di Salvo è senza dubbio ambigua. Non è un caso, perciò, che presentando i suoi nuovi lavori, una quindicina di paesaggi in gran parte realizzati tra il 2007 e il 2008, l’artista abbia scelto il proditorio titolo di “Estasi ordinaria”, un ossimoro in linea con la sostanza inafferrabile ed enigmatica della sua pittura. Già, perché la combinazione contrastante dei due termini, uno riferito ad un’esperienza sovrasensibile, l’altro ad una più prosaica, ha il pregio di rimarcare, invece, quell’ambiguità tra realtà e finzione in cui, secondo Gianni Pozzi, “tutto rimanda a qualcos’altro e tutto si nasconde”.[7] Come nei tre d’après inclusi in questa mostra, due dei quali sono ispirati ai paesaggi ideali di Claude Lorrain, mentre il terzo è una variazione di una veduta di Paulus Brill, pittore fiammingo attivo a Roma tra il Cinque e il Seicento. Anche in questo caso i modelli originali sono irriconoscibili. Bisognerebbe averli davanti agli occhi per poter riconoscere ciò che Salvo, nelle sue tavole, riduce ai minimi termini, conservando al massimo l’impianto strutturale.
Lo stesso meccanismo di depistaggio riservato ai d’après è riscontrabile anche nei paesaggi naturalistici, per quel loro sottrarsi ad una corrispondenza con la verità geografica, morfologica e persino percettiva dei luoghi. Per questi ultimi, poi, vale anche un’altra considerazione, la comparsa, cioè, di elementi desueti, tanto nella composizione quanto nella resa cromatica. La massa boschiva, ad esempio, risulta notevolmente infoltita grazie alla successione dei piani prospettici, mentre in passato la presenza degli alberi era più rarefatta. Le fronde morbide ora s’intrecciano e si sovrappongono, creando nuovi cortocircuiti spaziali e soprattutto la luce sembra splendere con maggiore intensità, quasi per effetto di un improvviso potenziamento ottico, tanto che i mattini sono più algidi e più tersi sotto i raggi argentei e le sere ardono con maggior vigore nell’oro dell’imbrunire. Se è vero che, come ha scritto Gilles Deleuze, “la tela non è una superficie bianca, ma interamente ingombra di cliché” e che “il lavoro del pittore consiste nel distruggerli”, passando “attraverso un momento in cui non vede più nulla, attraverso uno sprofondamento delle coordinate visuali”[8], allora è altrettanto vero che Salvo ha da oltre trent’anni recuperato la capacità di vedere. Lo dimostrano queste ultime opere, in cui la vista sembra anzi essersi acuita.