di Ivan Quaroni
“Ignoro dove l’artificiale finisca e cominci il reale.”
(Andy Warhol)
“La realtà è una semplice illusione, sebbene molto persistente.”
(Albert Einstein)
L’arte astratta è sovente il prodotto di un processo di stilizzazione o geometrizzazione di elementi visivi, percepiti sensibilmente o mentalmente. Altrimenti, può essere la conseguenza di una traslazione gestuale d’impulsi fisici ed emotivi. Raramente, però, contempliamo la possibilità che l’immagine di un oggetto reale possa generare una visione fondamentalmente astratta. Non mi riferisco necessariamente a quella tappa del processo fenomenologico, chiamata epoché, che ci consente artificiosamente di sospendere il giudizio sulla natura e sul significato di una cosa – ad esempio la sua forma, la sua funzione d’uso o il materiale di cui è fatta. Penso piuttosto alla struttura stessa di un oggetto che, una volta tolto dal suo contesto ambientale, cioè dalla fitta rete di rapporti che intrattiene con altri oggetti e con lo spazio, può diventare un’entità astratta. Le trame di una tavola di legno o le venature di un blocco marmoreo non sono poi così diverse dalle composizioni di certi quadri aniconici. La realtà offre un così ampio e variegato campionario di pattern e texture negli oggetti organici e in quelli inorganici che, in effetti, non ci sarebbe bisogno d’inventare nulla di nuovo. Segni, forme e geometrie astratte sono, insomma, disponibili ovunque in natura. Basta imparare a osservare le cose in maniera diversa e prestare maggiore attenzione alle forme. In fondo, tutto il senso dell’arte Metafisica consiste nel saper guardare le cose non per quello che sono, ma per quello che potrebbero essere. In altri termini, esistono oggetti la cui qualità consiste nella capacità di alludere ad altro da sé. Astrarre, di fatto, significa “estrapolare”, “allontanare”, “staccare” una cosa dal suo ambito per farla diventare qualcos’altro. Ora, un’idea del genere può comprenderla solo chi ha avuto un rapporto intenso con la mimesis, chi si è abituato a riprodurre le cose in dettaglio fin quasi a identificarsi con esse.
Un’artista come Marica Fasoli, che per lunghi anni ha calcato le orme dell’iperrealismo, contaminandolo di tanto in tanto con elementi della cultura pop, non poteva pervenire all’arte astratta se non per questa via impervia e spuria, cioè non attraverso un procedimento di sintesi, come quello, per intenderci, dei pionieri dell’astrattismo, né tramite una riduzione delle forme alle sole figure iperuranie della geometria, ma piuttosto per mezzo di un diverso approccio alla realtà fenomenica. Un approccio che destituisce, almeno parzialmente, il contenuto narrativo e privilegia, invece, l’aspetto formale e puramente ottico delle immagini. Si può dire, infatti, che l’arte di Marica Fasoli non sia meno iperrealista oggi di quanto lo fosse ieri, sebbene alcuni elementi grammaticali del suo linguaggio suggeriscano che è in atto una transizione, una sofferta metamorfosi dalle vecchie abitudini mimetiche alle nuove aspirazioni aniconiche. Dico “sofferta” perché, come tutti gli autodidatti, l’artista veronese fatica ad abbandonare il virtuosismo tecnico per abbracciare pienamente quello espressivo. Eppure, la sua maniera di compiere questa transizione è quanto mai affascinante, soprattutto coinvolge l’assunzione di una disciplina estranea alla pittura, anche se considerata anch’essa una forma d’arte: la pratica dell’origami.
Affascinata forse dalla natura umile e prosaica del materiale, Marica Fasoli si è imbattuta negli origami quasi per caso, rimanendo colpita dalla toccante vicenda di Sadako Sasaki, una bambina esposta alle radiazioni nucleari di Hiroshima che si ammalò di leucemia e che per sconfiggere la morte decise di piegare mille gru. Nella cultura giapponese la gru è un simbolo d’immortalità e realizzare mille origami con questa figura è un atto beneaugurante, per certi versi simile a un ex-voto. Purtroppo Sadako riuscì a piegarne solo 644, prima che la malattia la consumasse del tutto. Oggi una statua nel Parco della Pace di Hiroshima la raffigura nell’atto di far spiccare il volo a un origami a forma di gru. La commuovente storia di Sadako, ben nota in tutto il Sol Levante, rispecchia in realtà il vero significato dell’arte dell’origami, profondamente connessa con la concezione shintoista del ciclo vitale e dell’accettazione della morte.
In un momento di stallo creativo generato dall’insoddisfazione verso le procedure di rappresentazione mimetica e verso i contenuti narrativi della sua pittura, Marica Fasoli ha iniziato a piegare degli origami quasi per gioco, come un passatempo imparato guardando i tutorial su internet. Quasi subito, si è accorta che disfacendo un origami, la memoria delle diverse pieghe sul foglio disegna un’affascinate trama di segni, un intricato reticolo di luci e ombre. Questa struttura, creata sulla superficie di un oggetto reale come una pagina di carta è diventata l’oggetto della sua pittura. Non, dunque, l’origami nella sua forma compiuta, nella sua evidenza tridimensionale, ma la pagina segnata da una teoria di vettori perpendicolari, da un crocevia di linee e angoli che suggeriscono appena l’idea di uno spazio incipiente. “Questa ricerca”, ha affermato l’artista, “mi ha portato a distaccarmi da una rappresentazione figurativa e didascalica della realtà, attraverso un processo di creazione e distruzione incentrato sulla costruzione manuale, in molti casi laboriosa e complessa di origami, che dopo essere stati realizzati, vengono decostruiti”.
Gli origami dipinti da Marica Fasoli, ognuno recante il titolo della figura corrispondente – ad esempio orso, pavone, rana oppure conchiglia, riccio, unicorno – possono essere considerati alla stregua di dipinti astratti. D’altra parte, come scriveva Italo Calvino, “l’occhio non vede cose, ma figure di cose che significano cose”.[1] Inoltre, aldilà dell’allusione del titolo, il disegno lineare degli origami disfatti non evoca alcuna forma reale. Vero è, invece, che il modo in cui sono dipinti questi fogli solcati di linee è, almeno in parte, quello calligrafico e descrittivo dell’iperrealismo. Della trama lineare prodotta dalle pieghe sulla pagina, l’artista conserva, infatti, la natura traumatica e incidentale, il suo dispiegarsi come geometria imprecisa che registra la diversa pressione delle plissettature, la differente resistenza della carta, ma anche l’arbitraria incidenza della luce sulla superficie corrusca e spiegazzata del foglio, che a sua volta, proietta una morfologia d’ombre diseguali. Insomma, l’origami disfatto di Marica Fasoli non è un costrutto mentale, ma un oggetto che appartiene alla realtà fenomenica. Non ha nulla in comune con le neoplastiche astrazioni di Mondrian e Van Doesburg, né con quelle razionali di Max Bill e Joseph Albers e tantomeno con quelle ottiche di Bridjet Riley e Victor Vasarely. Semmai, possiede la stessa ambigua sensualità dei dipinti di Peter Schuyff, il quale traduce l’amore per la geometria ornamentale in svolazzanti scampoli di tartan e flessuose tovaglie a pois.
Simile a quello di Tauba Auerbach, artista californiana che riproduce sulla tela gli effetti di stropicciatura della carta, il linguaggio sospeso tra mimesi e astrazione di Marica Fasoli non rinuncia, però, alla possibilità di trascendere la dimensione puramente formale della pittura, per includere quella simbolica ed evocativa. “Nelle mia opere”, ammette, infatti, l’artista, “voglio rappresentare proprio il ciclo vitale partendo da un origami per arrivare a ciò che ne rimane dopo averlo dispiegato, spingendo così l’osservatore a una riflessione profonda sulla creazione e sulla distruzione, sulla nascita e sulla morte di tutte le cose”. Per questo motivo, sulla rappresentazione realistica del foglio pieghettato, dipinto a olio nelle diverse sfumature del grigio, Marica Fasoli ha introdotto una serie di elementi astratti, sequenze lineari dai colori puri che traducono visivamente gli intervalli ritmici della successione di Fibonacci.
Leonardo Pisano, detto il Fibonacci, era il matematico toscano che nel 1202, per risolvere un problema pratico legato al calcolo delle fertilità di una coppia di conigli, individuò una sequenza di numeri naturali in cui ogni numero, eccetto i primi due, era il risultato della somma dei due precedenti. Quanto questa successione fosse legata ai ritmi di crescita presenti in molti organismi naturali si sarebbe scoperto molto più tardi. Fu, infatti, Keplero nel 1611 a notare come il rapporto fra due numeri consecutivi della successione di Fibonacci si avvicina progressivamente al valore del numero aureo (1,6180) man mano che la sequenza cresce. Ora, il numero aureo o sezione aurea – chiamata anche proporzione divina o costante di Fidia – è un numero irrazionale le cui proprietà matematiche e geometriche ricorrenti tanto negli organismi naturali, quanto nelle produzioni umane. Gli esempi sono molteplici e gli studi sull’argomento alquanto prolifici, basti sapere che le proporzioni auree si ritrovano nella disposizione geometrica delle foglie e dei fiori (fillotassi) come nelle architetture dell’antichità, nelle forme frattali di alcuni vegetali come nei rapporti tra le diverse parti del corpo umano. Il numero aureo è stato usato da moltissimi artisti e architetti nel corso dei secoli – da Giotto a Mondrian, da Fidia a Le Corbusier – come parametro capace di garantire un naturale equilibrio compositivo a dipinti, sculture, edifici. Marica Fasoli usa la successione Fibonacci come elemento formale, tributo alle fredde composizioni dell’astrattismo geometrico. Tuttavia, è impossibile non pensare a una coincidenza tra il significato dell’origami, allusivo al ciclo di nascita e morte, e quello della proporzione aurea, legato ai ritmi di crescita degli organismi naturali.
Nella difficile evoluzione dalla mimesis iperrealistica a questo nuovo tipo di espressione aniconica, l’artista veronese ha trovato un nuovo equilibrio, un bilanciamento che le ha consentito da una parte di conservare alcuni elementi del vecchio stile, ad esempio l’osservazione minuziosa della realtà e l’interesse per il contenuto simbolico delle immagini, e dall’altra di prestare una maggiore attenzione verso gli aspetti squisitamente linguistici e formali della propria ricerca. Il risultato è una pittura ibrida, post-ideologica, incurante di ogni catalogazione, ma proprio per questo fertile e vitale nell’immaginare nuovi modelli espressivi in cui possono finalmente trovare posto concetti fin qui considerati antitetici come l’idealismo geometrico e il realismo mimetico, la concretezza formale e la tensione ideale.
NOTE
[1] Italo Calvino, Le città invisibili, Arnoldo Mondadori, Milano 1993.
Info:
Marica Fasoli – Aurea
A cura di Ivan Quaroni
Inaugurazione 26 Dicembre 2016 ore 17.30
dal 26 dicembre 2016 al 4 febbraio 2017
Ca’ la Ghironda Modern Art Museum
Via Leonardo Da Vinci 19, Zola Predosa (Bologna)
in collaborazione con Zanini Contemporary Gallery
Orari: Sabato e Domenica, dalle ore 10.00 alle ore 12.00; dalle ore 15.00alle ore 18.00; Festività: dalle ore 15.00 alle ore 18.00 Lunedì Chiuso Altri giorni: previo appuntamento
tel. + 39. 051.757419 http://www.ghironda.it