Paola Turci a Sanremo 2017
Guardando Sanremo e al contempo commentandolo sui social, sono incappato su una discussione interessante, che esula dalle solite battute facili (le faccio anch’io) su cantanti e presentatori.
In pratica uno dei miei contatti Facebook faceva notare che il pubblico da casa può anche seguire il Festival, ma poi acquista e ascolta altra musica. Si citava per esempio il rap, più una serie di cantanti che mi sono per lo più sconosciuti, ma che mi hanno assicurato essere seguiti da un crescente numero di fan.
Infine – si diceva in questo status – cantanti come Albano, Ron, la Mannoia, la Turci o Ron possono anche conoscere il mestiere, ma sono dei fossili viventi, praticamente senza mercato.
Questa considerazione mi ha convinto solo in parte, tanto che ho deciso di scrivere questo post, anche se è sabato, e di sabato di solito non pubblico più nulla.
Allora, qualche premessa:
- Io il Festival lo seguo e mi piace. Posso comprendere chi lo odia, un po’ meno chi si permette di giudicare “lobotomizzati” chi lo guarda. Anche perché lo stesso discorso sarebbe applicabile a molte situazioni. Esempio: leggi i fumetti? Ma che perdita di tempo! Pensa ai problemi reali, alla disoccupazione, alla corruzione in politica etc.
Idiozie. Populismi da social. - Alcuni dei cantanti citati come “fossili” sono effettivamente privi di mercato, quantomeno in Italia. In più sono assenti totalmente sugli store digitali (ci sono, ma non riesco a immaginare un diciottenne che compra il disco di Albano su iTunes). Altri invece hanno molto più pubblico di quanto si creda dall’esterno. La Mannoia fa tour di successo. La Turci è sempre in giro per qualche live. Masini idem.
- Da questo si deduce che i cantanti guadagnano soprattutto cantando dal vivo, in tour e concerti, e non con le royalties dei dischi. Salvo pochi nomi, ovviamente, ovvero quelli che vendono benissimo (una dozzina? Parlo di italiani, ovviamente). Per gli altri il live è la fonte primaria di guadagno.
- Piaccia o meno, le vecchie leve, anche quelle che propongono stili e canzoni assolutamente sorpassati, hanno comunque dalla loro una preparazione tecnica ineccepibile. Hanno studiato. Hanno fatto la gavetta. Non sono nati da un talent show, grazie ai televoti dei ragazzini da casa o ai like sulla loro pagina Facebook.
Finite le premesse, mi si potrebbe comunque ribadire la stessa cosa: ma questa gente, i cantanti sanremesi, non vendono. I ragazzini non scaricano i loro mp3. Non riempiono i locali di tendenza, dove si aggregano i teenager e i venti-venticinquenni.
In altre parole torniamo al solito discorso: il successo lo determina il mercato.
Cosa che vale anche per i film, per i libri, per i prodotti d’intrattenimento in generale.
Ma il mercato ha sempre ragione?
Prendiamo i libri.
Anche i sassi sanno che il settore editoriale si regge al 70% sul genere romance (il “rosa”), in tutte le sue sfaccettature. Dal romance erotico al fantasy romance, passando ovviamente per il paranormal romance.
Il mio amico Davide Mana fa notare che è sempre stato così, e probabilmente è vero. La differenza è che una volta il parco dei lettori paganti era talmente vasto che il rimanente 30% se la passava comunque abbastanza bene.
Ora che i lettori si sono ridotti in numero, gli editori corteggiano soprattutto quelli disposti a spendere. Che, in una logica imprenditoriale, ha perfettamente senso.
Quindi sì: il mercato determina il successo degli autori che vendono.
Ma non è detto che il mercato faccia un discorso qualitativo. Anzi. Il mercato generalmente se ne frega della qualità. L’ha sempre fatto, ora questa percezione è decuplicata.
Permettetemi di semplificare: se la merda vende, il produttore discografico, l’editore, e perfino l’autore/musicista indie produrrà merda.
Non sempre e magari non coscientemente, ma spesso sì.
Se solo aveste idea di quanti autori di altri generi (anche molto in gamba) sopravvivono scrivendo romance sotto pseudonimo, mi dareste ragione.
Non sto per proporvi una soluzione geniale a questa situazione, né voglio fare un discorso snob sulla preparazione culturale di chi ascolta musica, di chi guarda i film, di chi legge i libri.
A proposito di film, volete vedere chi domina il box office in questi giorni?
Ecco, magari augurarsi una maggiore consapevolezza del pubblico, una capacità di distinguere prodotti qualitativamente validi dalla robaccia, sarebbe cosa buona e giusta.
Eppure mi pare improbabile ipotizzare uno scenario del genere.
Allora no: i cantanti in gara a Sanremo non venderanno, se non nelle prime settimane dopo il festival. I giovani continueranno a seguire le dinamiche del mercato social, che pure ogni tanto sforna qualche artista meritevole.
Idem per i lettori: gli autori presenti ai vari saloni del libro (soprattutto quelli di genere) non venderanno che qualche copia extra. Il mercato vero se lo spartiranno le autrici romance e pochi grandi nomi di tendenza.
Quindi è corretto dire che certi eventi sono sempre più distanti dal mercato reale.
Eppure continuo a sostenere che questa voglia di voler delegare tutto alle dimostrazioni muscolari del mercato non è affatto salubre.
Lo dico da sostenitore del nazional-popolare. Io non disdegno pregiudizialmente ciò che piace al grande pubblico. Ne faccio piuttosto un discorso di opportunità: secondo me il buon prodotto deve nascere dal nazional-popolare e far valere la sua qualità senza farne un vanto snob.
Compito sempre più arduo, lo ammetto.
Poi, chissà. Magari sbaglio.
(Articolo di Alex Girola – Seguimi su Twitter)
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