A come ARTEMISIA. A Milano, Palazzo Reale racconta la storia di una passione.

A come Amletica

A come Ancestrale.

A come Audace

A come Abusata

A come Artista.

A come Artemisia.

 

Artemisia Lomi Gentileschi.

Figlia del pittore caravaggista Orazio Gentileschi.

Primogenita di sei figli, tutti maschi.

Rimasta orfana di madre all’età di soli 12 anni, ha vissuto spalla a spalla con suo padre, in un rapporto morboso quanto conflittuale, e  con lui ha iniziato a dipingere, scoprendo in sé un talento innato, tecnicamente affinato dal lavoro quotidiano.

Sin da adolescente, ha lavorato in qualità di apprendista e aiutante, persino sui cantieri delle varie ville romane, per le quali venivano commissionati ad Orazio  e aiuti, affreschi a tema mitologico, celebrativo o anche religioso.

Erano gli anni in cui a Roma andava diffondendosi  il genere pittorico del Quadraturismo (con cui abili pittori e conoscitori delle regole prospettiche  “sfondavano” soffitti e pareti, moltiplicando illusionisticamente gli spazi); erano gli anni dei celebri affreschi di Annibale  Carracci presso Palazzo Farnese, e delle grandi tele che il tenebroso naturalista Michelangelo Caravaggio aveva realizzato per le Chiese di Santa Maria del Popolo e San Luigi dei Francesi.

Era una Roma Urbs Aeterna, divisa tra verismo e teatralità, tra nuove scoperte scientifiche, che decentravano l’uomo rinascimentale, e rigide regole iconografiche , applicate dalla chiesa post-tridentina.

Effetti scenografici con arditissimi scorci prospettici facevano capolino in monumentali e tenebrosi ritratti, in cui  poveri scalzi e prostitute vestivano i panni di Santi e Madonne.

Ma tra lo stile di Carracci e quello di Caravaggio, in casa Gentileschi fu il secondo a prevalere.

E così Artemisia prese a dipingere alla maniera caravaggesca.

 

Bella e virile. Carnale e volitiva. Audace e sensuale.

Artemisia fu una donna intraprendente, dal temperamento sanguigno e dalla grande forza di volontà.

Intrepida e femminile. Sfrontata e colta.

Amava leggere le Sacre Scritture, come anche il Petrarca, l’Ariosto e il Tasso.

E nel breve periodo trascorso a Venezia, grazie all’amicizia con il compositore Bellerofonte Castaldi, scoprì anche di avere  una particolare propensione per la musica.  Divenne, infatti,   un’abilissima suonatrice di liuto.

Fu una donna assai coraggiosa,  che seppe difendere a spada tratta – e bene impugnata, quasi come una delle sue Giuditte –, il diritto al lavoro e allo svolgimento di una professione prettamente maschile (quella dell’artista) , persino per il cosiddetto  sesso “debole” .

Fu lei, la prima donna ad iscriversi all’Accademia del Disegno, nella Firenze del 1616.

E sul suo conto, sin da subito si narrò di tutto.

Nella Roma di inizio Seicento, venne etichettata come “puttana… prostituita dal suo stesso padre…”. Qualcuno raccontava di come l’avvenente e prosperosa adolescente posasse per i nudi a figura intera delle opere paterne, e di come il genitore invitasse amici e altra gente a godere di tale spettacolo.

Calunnie… o verità?

Fu forse dovuta a queste “cattive” abitudini paterne la facilità con cui la giovane artista, all’età di soli 17 anni fu ripetutamente stuprata dal suo stesso insegnante di prospettiva, il pittore quadraturista Agostino Tassi, amico e collega di suo padre?

Una violenza inaudita, che indelebilmente segnò l’anima di Artemisia, determinando alcuni aspetti del suo stile pittorico.

Fu lo stesso Orazio ad affidarla  a quell’uomo. Desiderava che  apprendesse la tecnica di dipingere prospettive da un vero maestro.  Eppure quel maestro, presto valicò il confine, spingendosi oltre, molto più in là di quanto potesse essergli consentito…

 Era  un giorno di pioggia del 1611, quando Agostino decise di recarsi da lei. Entrò nella sua casa in via della Croce a Roma,  mentre  Artemisia  stava dipingendo.

Mandò via la donna che era lì con lei. Poi le tolse di mano la tavolozza, e la invitò a lasciare lo sgabello per sgranchirsi le gambe.

Artemisia  capì subito che i suoi modi erano piuttosto strani. Finse di sentirsi male, di avere la febbre, ma lui non le diede ascolto, non se ne curò anzi, e ad un certo punto …la trascinò  in camera… la spinse sul letto… le infilò un ginocchio tra le gambe…. le mise addirittura un fazzoletto sulla bocca  perché non urlasse…

Poi… le sollevò furentemente gli abiti,  le si gettò addosso… e la penetrò.

La penetrò ripetutamente, furiosamente. Trafiggendola. Sverginandola.

 Artemisia  cercò invano di opporre resistenza, ma non riuscì difendersi.

Non appena riuscì a divincolarsi, corse disperata in cucina, afferrò un coltello e guardando negli occhi Agostino, gridò: “Voglio ammazzarti!”.

Ma non lo fece.

Lo raccontò invece a suo padre, il quale la convinse a denunciarlo.

Ancora oggi gli atti di quel processo agghiacciano per la crudezza con cui Artemisia riuscì a descrivere lo stupro subito.

Ma oltre allo stupro dovette subire ignobili  torture, impostegli da un  tribunale che aveva come scopo quello di farle ritirare la denuncia. Tra le più truci, lo schiacciamento dei pollici.

Pare che mentre le venivano legate alcune cordicelle alle dita, lei abbia gridato al Tassi:

“Ecco… ecco… è questo l’anello che mi dai? Sono queste le tue promesse?

Un anello. Delle promesse. Sì, perché dopo la violenza Agostino tento di acquietarla, garantendole   un matrimonio riparatore. Ma la promessa non fu mantenuta, poiché l’uomo era già sposato, e pare avesse addirittura una relazione incestuosa con la sorella minorenne della moglie.

Artemisia subì dunque  l’abuso, l’abbandono e la tortura.

Era il  27 novembre 1612, quando  fu emessa la sentenza a giudizio.

Inizialmente il Tassi fu condannato  a 5 anni  di esilio, ma grazie all’intervento di alcuni suoi mecenati, particolarmente nobili e potenti, ottenne la riduzione. La condanna iniziale non fu applicata e l’oppressore se la cavò con una pena minima, che non andò ad inficiare la sua fama di artista.

Una vera ingiustizia, sulla quale Artemisia  coverà per sempre un desiderio di rivalsa.

 

Quella vendetta mai assaporata, quella vendetta mai attuata, avverrà su tutte le tele a soggetto biblico riguardanti sgozzamenti e  uccisioni,  che la donna andrà  a dipingere nel corso degli anni. Quel coltello preso in cucina gridando “voglio ammazzarti!”, e mai utilizzato davvero contro lo stupratore, diventerà il pennello con cui dipingerà tutte le spade, i picchetti,  e gli  altri strumenti con cui valorose eroine  giustiziano  i loro oppressori.

Come in “Giuditta e Oloferne” – con cui si apre la mostra monografica milanese  –  dipinto nel 1612, appena dopo la conclusione del processo, a Firenze.

In questo suo primo capolavoro caravaggesco, il dolore e la rabbia vengono  sublimati dal gesto creativo. L’opera, letta e interpretata in chiave psicanalitica,  è infatti considerata una  vera e propria trasposizione pittorica della violenza subita dal Tassi e del dolore che questo ha generato in lei.

La rappresentazione di Giuditta che taglia la testa ad Oleferne diventa allora emblematica del desiderio che Artemisia cova di vendicarsi e agire sul suo oppressore-abusatore.

A  proposito di quest’opera , Roberto  Longhi, grande studioso ed estimatore di Artemisia,  scrisse:

“Chi penserebbe …che sopra un lenzuolo studiato di candori ed ombre diacce degne d’un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un macello così brutale ed efferato, da parer dipinto per mano del boja Lang? Ma – vien la voglia di dire –, ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?”

Si. Una donna ha dipinto tutto questo.

Perché una donna ha subito tutto questo, e molto di più.

Un abuso sessuale che non ebbe mai giustizia. E che divenne, anzi,  una colpa da espiare.

E allora una donna, cos’altro può fare se non sprofondare… o decidere altrimenti, di trovare in se stessa la salvezza?

Fu  così che Artemisia trovò nell’arte l’assoluzione -  e la soluzione – al proprio destino.

Dipinse ancora quel desiderio di rivalsa, su altre tele narranti la vicenda di Giuditta e Oloferne, ma anche su quella raffigurante la storia di “Giaele e Sisara”, dipinta nel 1620, e in cui l’audace Giaele  sferra con massima forza e raziocinio, il colpo  di picchetto a Sisara, in una composizione drammatica ed essenziale, dove la teatralità è data dal fondo buio e dall’improvvisa accensione dei blu di lapislazzulo e dei gialli .Giaele è in ginocchio, saldamente piantata a terra. Con il viso calmo e il braccio alzato per sferrare il colpo. Come se si accingesse a compiere una azione consueta.

Attraverso l’arte, Artemisia seppe ricostruire la propria dignità di donna.

Subito dopo il processo sposò il pittore toscano Pier Antonio Stiattesi, sotto spinta del padre,  e si trasferì a Firenze, dove ebbe immediatamente successo, lavorando su committenza granducale.

Divenne madre per quattro volte, ma negli anni patì il lutto per la perdita di due figli. La morte di Cristofano, di soli 5 anni, ad esempio, la fece sprofondare in una buia depressione.

Solo Prudenzia, la terzogenita, raggiunse la maggiore età, e riuscì dunque a seguirla a Roma e a Napoli.

A Firenze, Artemisia visse anche la più grande passione della sua vita: si innamorò di Francesco Maria Meringhi,  un giovane di nobile famiglia.

Pare che il marito sapesse di questa relazione, ma scelse di accettarla e non ostacolarla. Era anzi, in ottimi rapporti con Francesco Maria.

Quello tra Artemisia e il Meringhi fu un  amore travolgente, poetico e passionale, nato intorno al 1617 e continuato, malgrado la distanza, negli anni che la videro a Roma, e poi a Napoli, e ancora a Londra. Il legame con Francesco Maria si fece sempre più forte, indissolubile.

Tanto da allontanarla definitivamente dal marito, nel 1623.

In mostra a Palazzo Reale è possibile ammirare alcune lettere scritte da Artemisia a Francesco, e appartenenti all’archivio storico Frescobaldi-Albizi di Firenze.

 

Artemisia fu donna capace di  legittimarsi al proprio destino di artista.

Seppe preservare  la propria indipendenza, in ogni circostanza.

Impugnò pennelli, come fossero coltelli, per raccontare la rabbia, il dolore, l’umiliazione, l’oltraggio, la fragilità, il desiderio di rivalsa.

Donna ferita. Donna stuprata. Donna calunniata. Donna torturata.

Ma anche donna vincente. E rinata, attraverso il suo talento, ad una nuova artistica onorabilità. Donna  salvata dalla sua stessa creatività.

E per questo divenuta, negli anni ’70, vera e propria icona del movimento femminista.

Acclamata presso le corti del Granduca di Toscana, del Viceré di Napoli, di Re Carlo I di Inghilterra, Artemisia fu colei che il Longhi, in un celebre e introvabile saggio del 1916 dedicato ai Gentileschi –  e titolato “Padre e Figlia” –, definì come “…l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità; da non confondere adunque con la serie sbiadita delle celebri pittrici italiane…”

 

Artemisia.

 Una donna.

Una storia difficile.

Una passione.

Un talento formidabile.

Un coraggio straordinario.

 

Palazzo Reale dedica ad Artemisia Gentileschi,  una mostra monografica ricca di opere inedite,  organizzata da Roberto Contini, noto curatore della Gemalde Gallery di Berlino, nonché studioso di Artemisia, e Francesco Solinas.

La mostra ripercorre le 4 fasi significative della sua vita:

Roma: apprendistato dal padre, esordio come pittrice, stupro e processo.

Firenze: il matrimonio, la committenza granducale, l’amore clandestino per il Merighi.

Roma: il ritorno nella capitale negli anni ’20.

Napoli: un quarto di secolo trascorso nella città partenopea, sino alla morte, giunta nel 1653.

Ma prima di scoprire le opere, farete un viaggio a ritroso nel tempo, scivolando repentinamente nel 1611. Entrerete nella semioscurità della sua camera da letto, dove ancora giacciono, stropicciate, stracciate e insanguinate, le lenzuola sulle quali il suo corpo fu gettato, spalancato e abusato.

E dalla voce dell’attrice  Emma Dante,  ascolterete le crude parole degli atti del processo….

Quasi come se fosse Artemisia stessa a raccontarvi la sua atroce verità.

 

 

Artemisia Gentileschi. Storia di una Passione.

Dal 22 settembre 2011 al 29 gennaio 2012.

Palazzo Reale  -Milano.

Orari
lunedì 14.30 - 19.30
martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 - 19.30
giovedì e sabato 9.30 - 22.30

 

Info:  http://www.mostrartemisia.it/

Informazioni su 'Gio Lacedra'