Vi sarà già giunta all'orecchio la notizia della retrospettiva allestita al Palazzo Reale di Milano fino al prossimo 4 Marzo sulla Transavanguardia: quando si tratta di battage pubblicitario, Achille Bonito Oliva difficilmente stecca. Al punto che, secondo taluni, lo stesso fenomeno in questione sarebbe più propriamente di carattere commerciale, che culturale: ammesso, poi, che oggi sia dato scindere i due fili dall'unico nodo dell'arte contemporanea. Certo, vedere il Profeta della Transavanguardia snocciolare in televisione la stessa solfa sul movimento, prima della pubblicità del detersivo e dopo quella dei surgelati, lascia dubitosi sul dove finisca il mago della critica artistica e dove inizi il mago della comunicazione. Ma, a ben vedere, nulla di nuovo di qui a tre quarti di secolo, se già sulla rivista "Life" nei primi anni '50 comparivano, in America, i reportage sull'opera di Jackson Pollock, accanto alla pubblicità del dopobarba e prima di un articolo "Clerici (Antonella) ante-litteram style" su come cucinare il Bacon (non l'artista).
Tralasciando revisionismi ed affini, ancora non saprei dire se fa parte dello stesso carrozzone di propaganda, o anch'(?)essa e mera comunicazione culturale, la mini-mostra che accompagna l'evento di Milano nel focolaio napoletano. Habitat naturale è il MADRE, ove una sala della collezione storica del museo è stata dedicata ai cinque protagonisti del gruppo con una serie di opere che provano ad esemplificare i rispettivi linguaggi, riconoscibili per quanto eclettici.
Non voglio sfoderare sciabole critiche o ermeneutiche verso Bonito Oliva e la Transavanguardia per il puro gusto di fare il poser dell'arte contemporanea. Ad ogni modo, auspico imparzialmente, mi piacerebbe spendere due notazioni sulla mostra "COSTELLAZIONE TRANSAVANGUARDIÆ" del MADRE, più esattamente, una sul testo che le accompagna e l'altra su di un dipinto ben preciso.
Sul website del museo napoletano, si leggono le parole - ubique - di Bonito Oliva, che prospetta così la svolta culturale - o presunta tale - del gruppo:
All'omologazione linguistica degli anni Sessanta e Settanta, l'arte degli anni Ottanta risponde con il recupero del procedimento della citazione, capace di adoperare la storia dell'arte come "ready-made" e gli stili del passato come "objet trouvé". Una sintesi dunque tra mentalità picassiana e duchampiana con una implicazione concettuale che accetta la definizione di Leonardo: "la pittura è cosa mentale". L’arte finalmente ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del suo operare, al suo luogo per eccellenza che è il labirinto inteso come “lavoro dentro” come scavo continuo dentro la sostanza della pittura.
Non si saprebbe da dove cominciare nell'esternare dubbi su queste proposizioni: beninteso, il loquace e valente critico campano saprebbe replicare ad ognuno di questi. Ma, intanto, in assenza del deus ex machina con cui confrontarsi dal vivo, non posso esimermi dal trovare singolare accusare l'arte degli anni sessanta e settanta di omologazione linguistica per poi avallare il recupero degli stili del passato come "objet trouvé". Certo, pare che il buon Achille voglia distinguere il problema linguistico da quello poetico, alias il linguaggio dai motivi. Peccato, però, che il tallone resti scoperto, poichè non ogni bricoleur riesce col buco: ché l'onnivoro Picasso è cosa altra dal riciclaggio degli anni Ottanta. Un riciclaggio che non si vuol contestare nelle sue, pur sempre dubbie, ragioni di poetica, a seguito di un effettivo isterilirsi della proposta artistica, ma che di certo non rifonda la pittura nè vive il tormento pioneristico delle avanguardie. Semmai, la tragedia dell'essere costretti a (ri)trovare: ma era davvero una costrizione? Lo era, mentre artisti con più ampi orizzonti andavano perlustrando con ben altro coraggio e maggiore incisività i crocevia dell'arte con la cultura? Dalla vicenda dell'arco inclinato di Richard Serra a Manhattan, alla new wave di artisti britannici, Koons ed Hirst su tutti; fino ai dolorosi e malfermi ponti col passato di Kiefer e Richter in Germania.
Scrivere, poi, di Leonardo come corifeo della "pittura mentale", sembra davvero convocare un nume a caso per invalidare un'operazione artistica qualsiasi, considerando che l'artista rinascimentale aveva in mente l'esatto contrario della Transavanguardia: lo studio della natura, anzichè quello della cultura. Nè suona onesta intellettualmente l'inequivocabilità della chiosa sulla pittura che finalmente tornerebbe "ai suoi motivi interni". Frase spendibile praticamente per qualsiasi movimento, con accorto gioco di parole: ricerche linguistiche? L'arte studia le proprie strutture interne, quindi è "scavo dentro". Eclettismo? L'arte si concentra sul proprio potere metamorfico nei confronti di temi e stili diversi, quindi è "scavo dentro". Cos'altro vogliamo provare? Body Art? L'arte si sofferma sulla performance come processo interno piuttosto che sull'alienazione dell'oggetto d'arte dalla sua stessa produzione, quindi è "scavo dentro". Cambia l'ordine degli addendi, ma non il risultato. Purtroppo è così, l'arte contemporanea è un pò il gioco delle tre carte. La Transavanguardia non era nè una novità integrale, nè una genialata, nè una rivoluzione dell'arte. I seventies non erano stati rami secchi; se si, certo la Transavanguardia non ne era il fertilizzante.
Tutto da buttare, allora? Niente affatto. Ho già scritto di voler tenere la sciabola al caldo nella fodera. E non amo discussioni "astratte". Tra le opere in mostra a Napoli, c'è un dipinto di Paladino del 1994 dal titolo Miracolo. L'autore sembra quasi voler rendere visivamente l'idea del bricolage, in una mistione di lacerti segnici e di oggetti iconici che compone l'immagine come un palinsesto sofferto, pingue, come un muro con le crepe della Storia in cui sboccia il fiore dell'ispirazione. Se provassimo a vedere solo il quadro - e solo i quadri degli artisti: un rispetto istintivo per il fondo sacrale della loro opera sorgerebbe spontanea. Come per l'epifania totalizzante e raccolta di un'altra opera dell'artista di Paduli, in esposizione permanente al MADRE perchè graffita sul muro: Senza Titolo, del 2005, con l'inattesa comparsa di quell'idolo niveo che scompagina il confine tra la cornice e l'ambiente nell'evocatività della fuligginosa scrittura pittorica. Il dipinto del '94 mi sembra emblematico di come la Transavaguardia oggi suoni sgradevole non tanto per i coristi stonati, quando per il direttore d'orchestra. Perchè eclettici e bricoleurs si può essere, fintantochè c'è l'ispirazione. Quando si straparla accozzando slogan critici come fossero pubblicità ectoplasmatiche, l'effetto è meno convincente. A volte l'Oliva è di troppo nel cocktail dell'arte.
Antonio Maiorino