Lazzaro risorge, per l'esattezza quello di Michelangelo Merisi detto Caravaggio (1609). E ritorna, nella propria terra, al Museo Maria Accascina di Messina, dopo essere stato esposto a Palazzo Braschi (Roma), a seguito di un restauro firmato ISCR della durata di sette mesi. Classica "occasione" filologica: ma, vien da dire, anche estetica, per ridestare l'anima di un "inquieto capolavoro" (Calvesi). Come a dire: oltre alla storia dell'arte, ci sarebbe ancora la critica.
Eppure dalla storia non si può prescindere. Il quadro fu commissionato dal mercante genovese Giovanni Battista De Lazzari per la Chiesa dei Padri Crociferi di Messina. Si trattava dell'ordine di San Camillo de Lellis, dedito alle cure spirituali di infermi e moribondi. Conta sopratutto, per misurare la temperatura psicologica – e insieme, creativa – del dipinto, ricordare come il lombardo fosse appena evaso dalle carceri di Malta, dove la sua, di resurrezione, non era stata portata a buon fine: dalle onoreficenze (divenne cavaliere) ad un nuovo, ambiguo disonore, probabilmente dovuto ad un litigio con uno dei membri dell'Ordine, o all'ufficialità della condanna romana per l'omicidio di Ranuccio Tomassoni.
Tant'è, dalla guva di Forte Sant'Angelo a Malta – una fossa scavata nella roccia, profonda tre metri – Caravaggio raggiunge la Sicilia, prima Siracusa, poi Messina. Lascio ad altri le notazioni sulla pulitura – in soldoni, questo è il miracoloso intervento dell'Istituto – con cui si è cercato di fare "piazza pulita" delle verniciature conservative con cui in passato, con lo stesso movente di oggi, si era cercato di mantenere l'opera in buono stato. Anche perchè spesso si blatera senza nemmeno aver visto l'opera, copincollando con accorte modifiche qualche comunicato stampa degli stessi responsabili del restauro. Noi, che siamo più berensoniani che tecnici, ci limitiamo a qualche considerazione sull'opera, arricchita dal consueto corto circuito nel contemporaneo.
Il punto di partenza è l'occhio dello spettatore, sempre. Più lacrime e meno vernici. Lo dico a costo di sembrare stranamente oscurantista. Perchè ormai è chiaro che i tecnici li abbiamo e che i restauri – si spera – li sappiamo fare. Quello che manca è un collegamento diretto tra l'arte e la gente: di quei collegamenti per cui, ad esempio, nel 1311, non appena Duccio di Boninsegna ebbe terminato la Maestà per il Duomo di Siena, questa venne trasportata solennemente per la città dallo studio dell'artista alla propria destinazione. In altre parole, se il patrimonio artistico fosse percepito come bene comune, avremmo inevitabilmente una propulsione conservativa ben diversa da quella che deriva dalle iniziative elitarie di Istituti e sporadicamente propagandistiche di Ministeri e Soprintendenze.
Non ci posso fare niente. Per me la didattica conta sempre più della chimica, o meglio: la precede culturalmente. Mi divertirei un mondo, se lavorassi per l'ufficio didattico di un museo, a presentare l'opera ad una scolaresca partendo dall'aneddoto del Sussino (1724), che narra come Caravaggio avesse fatto disseppellire un cadavere constringendo alcuni facchini a tenerlo in braccio per molto tempo, fino a venire quasi soffocati dal fetore. Tanto potè l'impassibile vocazione del naturale. Ma se la natura è il presupposto della tecnica del Caravaggio, con l'eventuale apparato degli specchi, anche qui la testa ed il cuore – l'humanitas – stravincono sull'escamotage formale.
Perchè la resurrezione di Lazzaro è un dramma notturno, col pallore lunare del defunto che fende l'oscurità fino a contraddirla nell'afflato risentito di quel braccio cadente come l'alga molle, che accenna, pure, alla prima liberatoria contrazione, nel colmo di luce che parte dall'ascella e fiammeggia in un'ostinata sottrazione al fiume di tenebra.
Perchè la resurrezione di Lazzaro era già "sonno men duro" nell'intenso patetismo delle sorelle Maria e Marta, l'una ancora velata, inconsapevole, in un cheek to cheek accorato, al di qua della rivelazione del Cristo nell'ombra, l'altra, accarezzata dall'inesorabilità di una scaglia di luce sul bellissimo petto bianco, eretta, attenta, come lambita dal primo barlume di un'audace speranza, tutta giovanile, sul punto di diventare il fatto visto.
Perchè la resurrezione di Lazzaro è nella mobilità della carne che si svincola dalla stasi della bruma, per diventare passionale cinetica dei bagliori: che, soli, rivelano il movimento, sulla fronte corrugata dell'operaio abbronzato promosso a testimone, lungo il braccio scorciato del popolano, che da trasportatore diventa primo latore della Fama, cercando la complicità dello stupore altrui come in un Vangelo di borgata. E il Cristo, motore immobile della luce, ristà nella pozza della caligine, atemporale nell'imperio del gesto taumaturgico; distante dal chiasso già incline al pettegolezzo, nella profondità appena accennata dalla partitura luministica da fregio.
Quell'abisso nero della parte superiore è forse l'azzardo creativo più avanzato dell'ultimo Caravaggio, uno sconfinamento nell'estetica della reticenza. Eppure già Leon Battista Alberti aveva prescritto, nella stagione più felice del Quattrocento, la necessità per i pittori d'imparare a gestire i vuoti: suggestione immediatamente raccolta da Piero della Francesca, cosa che si capisce tanto meglio quando si studiano i confusi tentativi di alcuni successori (Giovanni Santi, padre di Raffaello, Bartolomeo della Gatta) di porsi sulla scia dell'urbinate, finendo inevitabilmente per ricadere in costipazioni formali di santi che conversano in spazi più rumorosi di quelli di Sansepolcro. Col Lazzaro, Caravaggio riscopre quella lezione, ma la converte dall'unificazione prospettico-luminosa alla voluta dissonanza ombra-luce, per farne tensione dialettica in grado di obliterare lo spazio e poi riaffermarne brandelli lancinanti come fuochi fatui.
Ecco, mi piacerebbe leggere cose così: ma non ne trovo, ed allora le scrivo. Mi piacerebbe rileggere le agnizioni di Roberto Longhi. Mi piacerebbe che la gente leggesse, anche al di sotto delle patine, dove la retina può arrivar prima delle spennellature. Se il tempo della pittura retinica è finito, quello della critica d'arte retinica sembra sussistere ancora: ed allora c'è bisogno di un restauro per toglierci i prosciutti davanti agli occhi su di un'opera già nota, e già sconosciuta. Ora, mentre ancora gli storici dell'arte si sforzano di vedere nel braccio di Cristo quello della Vocazione di San Matteo (1599-1600), e nel braccio di Lazzaro quello del Cristo della Deposizione della Pinacoteca Vaticana prima (1602-04?) e del Marat assassinato di David poi (1793: semmai, si noti lo spazio vuoto della parte superiore...), chissà che il vero insegnamento di Caravaggio non sia stato raccolto da Hermann Nitsch. Se, d'altronde, le "realtà del Caravaggio" di cui parlava Calvesi sono più complesse di quella puramente fenomenica, similmente, ma per simmetria conversa, quelle di Nitsch avranno pur avuto, di là degli happening scioccanti a mo' di rito misterico, un grado zero fenomenico che preceda il simbolismo di sangue, viscere ed animali squartati.
E così, la foto dell'azione dell'Orgies-Mysteries Theatre degli anni ottanta al Castello di Prizendorf è di un'assonanza visiva suggestiva: trombe della Fama in basso, il corpo come fendente in diagonale, frotte di portantini, sangue al posto della luce. Solo che il Novecento non ha il suo Redentore. Se si pensa che nell'opera di Nitsch l'azione doveva avere un effetto catartico, e lo si accosta al senso di colpa del Caravaggio post-fuga, nonchè al carattere rituale del miracolo di Cristo; se si aggiunge la teatralità dell'artista contemporaneo, e la si confronta con la strutturazione drammatica come fatto scenico, con tanto di luci, del lombardo; se si pensa alla pozza di sangue della Decollazione del Battista di Malta in cui Caravaggio, come a volersi sporcare e purificare, si firma; se si tien conto, infine, del sottofondo cristiano, sia pure ibridato al paganesimo, dell'artista viennese: ebbene, si avvertirà che di là dell'enorme distanza storica per cui accostamenti di questo tipo vengono giudicate pure "stramberie", dal punto di vista metodologico, o anche solo critico in senso lato, questi incroci di traiettorie poetiche, o semplici sgocciolamenti del tempo, non fanno altro che dimostrare l'essenza dell'opera d'arte come "fatto più profondo e in apparenza meno motivabile dell'uomo" (Roberto Longhi). Così poco motivabile, che ci si accontenta di dare spiegazioni su tavole di frassino e medium oleosi.
Messina // fino al 25 novembre 2012
Caravaggio – La Resurrezione di Lazzaro
a cura di Giovanna Maria Bacci e Caterina Di Giacomo
MUSEO INTERDISCIPLINARE MARIA ACCASCINA
Viale della Libertà 465
090 361292