Nata nei bassifondi e dai movimenti underground delle città, continuamente in bilico fra ribellismo e ricerca di autenticazione culturale, la street-art ha già trovato spazio in questi ultimi anni nel circuito di consacrazione dei musei d’arte contemporanea internazionale, come la Tate Modern di Londra (nel 2008), al Grand Palais di Parigi (2009). E non sarà un caso se quest’anno la Fondazione Beyeler di Basilea diretta dall’abile Keller abbia inaugurato durante i giorni della fiera una mostra dedicata al maestro storico dei graffiti degli anni Ottanta: Jean – Michel Basquiat.
Per chi nutrisse ancora qualche dubbio, dunque, la street-art, arte clandestina, traccia slabbrata del tribalismo metropolitano, è destinata a trasformarsi in un’arte culta, inserita nei circuiti delle gallerie di arte, delle rassegne internazionali e delle aste. E vi spiego il perchè.
Alcuni dei motivi che sono alla base del successo della street-art.
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La forte immediatezza visiva. L’arte che viene dalla strada attinge i suoi mezzi espressivi da un patrimonio visivo rigorosamente conosciuto, noto, divulgato: come con gli standards nel jazz, la sua base è un lessico di immediatezza popolare. Il suo vocabolario visivo preleva elementi dal mondo dei fumetti, dalle foto delle riviste di moda, dalle più celebri immagini di reportage; e perfino dalla pop art più conosciuta e dalle icone dell’arte medievale. Chi non ricorderà durante la campagna presidenziale americana del 2009 la testa rosso-blu di Obama realizzata da Obey?
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Un medium potentissimo: la strada. Gli artisti di strada occupano illegalmente gli spazi che farebbero gola ai più accorti pubblicitari. E non hanno solo la strada dalla loro parte: le loro opere invadono il web, terreno in cui la gente con altrettanta velocità riproduce, diffonde, tagga le opere più riuscite.
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La capacità, come nel caso delle migliori opere di installazione, di dialogare con lo spazio. La street-art ha qualche carta in più rispetto alla pittura tradizionale: perfino quando è in cattività, ossia racchiusa fra le pareti di una galleria, riesce a violare i vincoli della bidimensionalità e a dialogare con l’ambiente circostante.
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La riproducibilità. Keith Haring nel 1986 apre nel cuore di Soho il Pop Shop, un negozio in cui vende riproduzioni dei suoi graffiti più famosi impressi su borse, penne e magliette. Grazie alla diffusione capillare del suo merchandising, la sua arte nel giro di un ventennio diventa famosissima al punto da diventare la più autentica incarnazione della street contemporanea. Quasi tutti gli artisti del movimento hanno tentato di eguagliare questa sapiente operazione operazione commerciale, ma i risultati non sempre sono pari a quelli di Haring o di un Murakami contemporaneo.
Qual è il segreto del successo? Fra elitismo e spirito popolare, fra ribellismo e mercato.
Se avrete la fortuna di incontrare qualcuno di questi artisti, non credete alla favola che racconteranno dell’amore incondizionato per il lavoro clandestino, notturno, condotto in bilico fra performance collettiva e arredo dello spazio urbano dismesso. Lo spregio nei confronti dei circuiti del mercato è la migliore strategia per uscire dalla strada imboccando la porta principale, ed entrare nei circuiti dell’arte colta surrettiziamente, dalla entrata secondaria.
Del resto, la storia della cultura è ricolma di casi simili. Il jazz, una musica nata nei ghetti come libera espressione delle classi nere, era sin dalle origini un genere sospeso fra espressione popolare e intellettualismo colto da èlite. Molti ignorano che i musicisti neri facevano della loro ricerca musicale il mezzo di discriminazione e ghettizzazione degli artisti bianchi. Quella musica che agli albori del secolo la faceva da padrone nelle sale da ballo e che negli anni Venti passa al circuito delle grandi orchestre, in meno di mezzo secolo si trasforma in un genere destinato più ai circuiti delle raffinate concert halls che ai club notturni.
Bansky e gli altri.
Bansky (Bristol, 1974) ne è l’esponente più celebre. Ha avuto una rapidissima ascesa, dalle primissime apparizioni nelle strade di Londra del 2001 fino alle stellari quotazioni alle aste internazionali. Le sue opere, tecnicamente semplici spruzzi di stencil su tela, rigorosamente caratterizzata da uno spirito politically uncorrect, entrano per la prima volta nel mercato nel 2003. Nel febbraio 2008 un'opera intitolata Keep it Spotless, riferimento a Damien Hirst, raggiunge in asta a New York i 1,7 milioni di dollari. Mentre la stampa favoleggia di collezionisti influenti letteralmente innamorati dei suoi lavori - da Christina Aguileira ad Angelina Jolie - i più informati sussurrano che dietro di lui si nasconda lo zampino di mr. art marketing in persona, ovvero Damien Hirst.
Il panorama della street-art europea è molto variegato, e comprende diverse scuole nazionali. Il nome più noto a livello internazionale, oltre a Bansky, è quello di Obey, affidato alle provvide mani di Jeffrey Deitch. In Francia la scuola nazionale è stata codificata da diverse mostre collettive nelle principali istituzioni, ma l’esponente più interessante resta l’affichiste JR. In Italia gli artisti di maggior spicco e notorietà sono Blu, 108, e Erica Il Cane. Fra questi il primo è noto per la partecipazione alla mostra Street Art alla Tate Modern nel 2008; il secondo è l’unico rappresentante italiano incluso in una rassegna sul tema inserita nella Biennale di Venezia del 2007. A questi aggiungiamo poi Ozmo e Abbominevole che se all’esordio in coppia avevano transitato nel circuito delle buone gallerie milanesi, oggi lavorano separatamente, muovendosi fra cultura undeground e marketing: di Ozmo ricordiamo una bella operazione realizzata per il Diesel Wall dello scorso anno.