Dallo specchio all'Aleph


"Specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi" è forse l'opera più ambiziosa dell'intera carriera di Gino De Dominicis, artista eccentrico e fuori da correnti, schemi e scuole. Ma proprio l'installazione presentata da Lia Rumma a Napoli nel 1988 (concepita a partire dal 1969) sfida apertamente la storia dell'arte, seguendo e sventrando un solco che ha per temi lo specchio, il riflesso ed il ruolo dello spettatore. Van Eyck con i coniugi Arnolfini e Velazquez con "Las Meninas" prima di lui hanno sperimentato la vertigine e l'abisso, mostrando l'identità di opera e mondo, di interno ed esterno nello spazio contradditorio di uno specchio dipinto quindi virtuale. Lo specchio in effetti ha una vita brevissima: appena percepito viene dissolto, ci accorgiamo dell'artificio mimetico e lo riduciamo a macchie di colore su una tela. Dalla simulazione della percezione ("Bar aux Folies Bergeres" di Manet) allo straniamento ("Le faux miroir" di Magritte) fino all'inclusione dei valori formali del riflesso (Pistoletto), nessuno ha mai inteso la questione dello specchio nel suo valore nullificante, nel suo non-essere la realtà.


Così De Dominicis si limita ad affermare che l'opera ed il mondo hanno valore proprio nella distanza che assumono dall'Uomo. Sia egli spettatore o creatore, mai sarà come l'opera o come il mondo: autonomo, universale, immortale.
Dato conto della dimensione tragica di De Dominicis (solo ora che è morto egli è immortale) e della sua tensione trascendentale (è possibile conoscere la verità solo in assenza di un soggetto, banalmente e definitivamente: la verità è oggettiva) bisogna notare come l'artista si accomodi troppo facilmente nella culla della simmetria e della tautologia. Già "Mozzarella in carrozza" (1968-70) ammiccava e smascherava il ruolo a cui ambiva il marchigiano: essere il negativo simmetrico della storia. Mentre imperversa il concettuale, lui lo smonta irridente e passa oltre. E, davanti allo specchio, annulla il mito di Leon Battista Alberti. Non "abbracciare e pigliare con l'arte la superficie del fonte" di Narciso, ma lasciare che la fonte semplicemente esista.


Il tentativo di annullare la prospettiva umana e di eludere l'antropologia corrisponde allo scoglio su cui si è arginata a suo tempo la filosofia di Foucault, che non a caso si occupò di Velazquez e Las Meninas. Un limite invalicabile, d'altra parte è impossibile pensare il mondo senza il pensiero. Eppure l'arte, nelle sue manifestazioni più elevate, parla esattamente di ciò che non si può dire, come il centro del racconto "L'Aleph" di Borges:


"Ogni cosa era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell'universo. Vidi il popoloso mare, vidi l'alba e la sera, vidi le moltitudini d'America, vidi un'argentea ragnatela al centro di una nera piramide, vidi un labirinto spezzato, vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté"


Pur parlando in prima persona Borges deve dissolvere l'Io per approssimarsi al tutto. Deve moltiplicare lo sguardo in "infiniti occhi". Deve giungere, per cogliere o solo prefigurare la fine e l'inizio, al campo de-umanizzato tracciato da De Dominicis. Lo specchio, che da fuori riflette la realtà, che da fuori indica il centro in cui si trova un'assenza originaria.
Eppure Borges, quando vede "contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina" non può che evocare una fantasia d'infanzia ("bambino, solevo meravigliarmi del fatto che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte"). Riportare l'assoluto all'individuale tramite la forma implica sempre un sacrificio personale, un'esperienza, una memoria. Gli egizi e Pitagora, Buddha, Platone e la conoscenza come ricordo e risveglio: l'anamnesi. Lo specchio non può fare a meno del suo riflesso perché nella memoria e nella profezia è il tutto. Compresa la morte. Compreso l'immortale.

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