Il filosofo Deleuze scrive che i concetti diventano “agonistici”. Più in generale, vale una sorta di dinamismo ontologico. I singoli enti (materiali od astratti) si danno come tali solo in “riferimento” a tutti gli altri (restanti). Anche la nostra riflessione intellettuale non sfugge al dinamismo ontologico. I singoli concetti si darebbero come tali in quanto “allargati” a tutto il resto. In chiave più strettamente semiotica, ne deriva l’impossibilità che distinguiamo le parole (nella mente) dalle cose (nella materia). Conta solo il dinamismo universale (fra tutti gli enti). Parimenti, i segni non esistono mai in se stessi, bensì nel loro “allargarsi” alle figure (che li delimitano). La filosofia di Deleuze però ricusa sia il materialismo sia l’idealismo. Immaginare che il segno “s’allarghi” alla sua figura alla fine è percepirlo come “avente una vitalità”. Così, la filosofia di Deleuze s’avvicina a quella di Spinoza. Ogni segno esprimerebbe l’effetto che si dà “nell’azione d’un corpo verso ciò che lo delimita (configura)”. E’ il caratteristico affetto, secondo il filosofo Spinoza. Qui il segno si percepisce principalmente nella sua qualità vettoriale, avendo la precisione del verso e della direzione. Col termine affezione, invece, per Spinoza ci sarebbe la “variazione a livello sensoriale” dentro l’affetto d’un corpo verso ciò che lo delimita (configura). Qui la dimensione del segno sembra di tipo scalare, perché basata sulla propria gradazione. Deleuze riprende la terminologia di Spinoza. Il dinamismo ontologico impedisce che sia le forme (essenze) sia gli oggetti abbiano un valore di verità, se presi in se stessi. Piuttosto dobbiamo conoscere i loro strati (piani, allargamenti) “affettivi”. Da una prospettiva vitalistica, questi potranno piacere (come nella soddisfazione, nella felicità) oppure dispiacere (come nella tristezza, nella frustrazione). Probabilmente per Deleuze sarà più interessante la cosiddetta affezione, che si dà in via scalare, favorendo che la percepiamo nel suo “allargamento” oltre se stessa.
L’artista Salvatore Tulipano consegna al pubblico una serie di moduli geometrici, invitando a ricombinarli, per ottenere la loro possibile configurazione “ideale” (essenziale). Dalla Cina si conosce l’antichissimo gioco del tangram, che tuttavia si conclude diversamente. Quello prevede che, ricombinando sette “tavolette” sezionanti un quadrato, noi ci divertiamo a ricostruire nuove figure, neppure astrattamente geometriche. Salvatore Tulipano sembra “suggerire” che alla fine esista una sola “verità” (idea) per la sua “performance”. In particolare, il pubblico deve riconfigurare la miniatura architettonica d’una “palazzina”. Resta dunque il geometrismo, se le mura quasi sempre s’immaginano come squadrate? Secondo le leggi “psicologistiche” della Gestalt, il nostro sguardo è naturalmente indotto a stabilizzare le linee spezzate, riallacciandole fra di loro. Se il gioco del tangram parte dall’idealità del quadrato per “materializzarla” con le regole compositive dei corpi animati (ricostruendo il coniglio, l’uomo in corsa, il gatto ecc…), la performance di Salvatore Tulipano avviene al contrario. Il suo pubblico ha la “carica agonistica”, accettando la sfida d’arrivare a svelare il “segreto”… dell’unica configurazione idealmente ammissibile. Alla fine, l’artista non si distinguerebbe più dagli eventuali risolutori. In chiave quasi deleuziana, qui l’idea dell’unica configurazione ammissibile si dà prova dopo prova (per tentativi), dunque “nell’allargamento” di se stessa. D’altro canto le mani sono costrette a spostare i moduli geometrici, prima di trovare l’assetto più stabilizzante. Nella sua performance, l’artista “suggerisce” agli studenti come potrebbero vincere la sfida contro di lui, parlando a voce fuori campo. Così, loro avranno una percezione soltanto “astratta” del “vitalismo” che li muove. Sembra che il significato (il concetto ideale) derivi da “un allargamento” (un’estensione) del suo segno. La voce fuori campo resta molto più astratta da percepire.
Nel 1978, l’artista Gerard Titus-Carmel esibisce a Parigi 127 disegni, i quali riproducono una scatola di mogano (realmente esistente a casa sua). Quella s’apre sul lato frontale, permettendo di vederne l’interno. Il filosofo Derrida scrive che ciascuno dei 127 disegni assume le sembianze d’un “sarcofago”… per l’arte. Se la scatola “esemplare” (vera) presiede tutte le altre, la sua idealità (essenza) avrà il destino d’essere e nel contempo non essere se stessa, riproducendosi. Un sarcofago funziona sempre dialetticamente: quello deve “rivitalizzare” il defunto. Nella filosofia decostruzionistica di Derrida, tutte le idee concettuali (essenze) si portano dietro “un resto intellettuale”. Vale la stessa dialettica che s’espone nei 127 “sarcofaghi” dell’artista Titus-Carmel. Le idee concettuali (universalizzanti) si danno come tali rinviandosi a quelle cose che ce le rappresentano singolarmente: le seconde “fanno rivivere” le prime, ma con tutta la… “mortificazione” del resto (sempre scartante).
La performance di Salvatore Tulipano ha una vena prettamente decostruzionistica. E’ vero che il pubblico deve ricostruire l’unica configurazione idealmente ammissibile, e tuttavia alla fine si scopre che questa non “stabilizza” molto lo sguardo, contravvenendo alle nostre presupposizioni. Nei fatti, si ricompone… una scomposizione, con tutto il decostruzionismo architettonico che ne deriva. Conosciamo i quadri di Enzo Mari, dove gli elementi geometricamente mobili si riconfigurano a seconda di come prendiamo in mano le cornici. Ma nella performance di Salvatore Tulipano non vale una mera ricomposizione della scomposizione, bensì la ricomposizione che “si dà per resto” una scomposizione. Il pubblico avrebbe voluto “giocare” per conoscere l’idea dei moduli geometrici, ed alla fine il decostruzionismo andrebbe a “deluderlo”… Anche nel più tradizionale tangram, la realtà di riconfigurare il coniglio non annulla che resti ancora quella solo potenziale del gatto o dell’uomo in corsa.
Recuperata la filosofia di Spinoza, il pubblico di Salvatore Tulipano “riflette agonisticamente” provando affetto per i moduli geometrici? Ricordiamoci che questi vanno attaccati fra di loro, al fine di stabilizzarli (o di “squadrarli”, in via strettamente architettonica). Un dinamismo sempre di tipo vettoriale, richiedente la certezza d’una direzione e d’un verso. Parallelamente, la soluzione decostruzionistica rientrerebbe nella correlata affezione. Contro la “stabilizzazione” delle più “classiche” quattro mura, dovremmo percepire l’agonismo concettuale del loro “resto”, sulle cornici aggettanti ed i soffitti curvi… L’affezione caratteriale è come una “spigolatura” dell’animo, mentre lo “allarga” verso la situazione ambientale.
(Mia recensione per una "performance" dell'artista Salvatore Tulipano, in data Lunedì 7 Maggio, presso il "Teatro Espace" di Torino)