Die Mauer. Di Emanuele Beluffi - (Kritikaria n.00)

 

 

 

DIE MAUER

di Emanuele Beluffi

 

 

 

 

 

Il muro è un concetto universale. E, come tutti i concetti, raccoglie sotto di sé una pletora di enti particolari. Il muro non denota solo, nella fattispecie, la barriera di separazione fra due stati.

 

Lo sanno tutti, ma proprio tutti, che nella sua valenza simbolica il concetto di muro indica anche l'opposizione all'accertamento della verità e l'impedimento - senza il bisogno di edificare alcunché - dell'esercizio della libertà.

 

Il muro è un concetto difficile: non rappresenta sempre una cosa cattiva. E riguarda anche quelle brutture che la vulgata delle anime belle stempera nel «sì, però».

 

Quest'anno, per esempio, ricorre – nella pleiade delle ricorrenze connesse a quel 9 finale nei decenni del secolo scorso  – il cinquantesimo anniversario della rivoluzione cubana. L'annichilimento della dittatura di Batista con l'instaurazione di un'altra dittatura: l'autocrazia castrista della scuola e della sanità per tutti, accompagnate però da carcerazione e assassinio per i dissidenti. Ricordate il poeta Herberto Padilla e lo scrittore Reinaldo Arenas? (anche i froci erano considerati antirivoluzionari. Oggi invece i maricones sfilano per le strade di Cuba in una sorta di chiassosa gay pride grazie agli auspici progressisti della figlia di Raúl Castro).

 

E ricordate i boat people cubani diretti alle coste della Florida che, come gli affamati di libertà di Berlino Est, volevano sfuggire alla violenza e per farlo dovevano scavalcare anch'essi un muro, sia pure simbolico?

 

Ma chissenefrega dei diritti civili, l'importante è che i treni arrivino in orario, come quando in Italia Mascella d'Acciaio sfidava le nazioni dal balcone.

 

Il muro è un concetto ampio. Polisemico. Non denota solo negatività: il birignao occidentale neutralmente compice dei bombaroli di Al Fatah salutò con il bru bru degli indignati speciali l'edificazione della barriera di separazione fra Israele e Cisgiordania paragonandola al Muro di Berlino: Ariel Sharon come il sanguinario Erich Honecker, anzi peggio. Ma Israele ha anche il Muro del Pianto, che rappresenta un'ulteriore variante del suddetto concetto.

 

Il muro ti cambia la vita. Come accadde a Rita Kuczynski, musicista, giornalista, scrittrice nonché moglie del ghostwriter di Erich Honecker, segretario della SED – il Partito Comunista della DDR - e Presidente del Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca, asceso alla gloria per aver pianificato e realizzato dall'agosto 1961 e per 28 anni di fila l'operazione Muro di Berlino: più di duecento persone uccise dai cecchini della Volkspolizei nel tentativo di “scavalcarlo”. Il Muro sconvolse per sempre la vita di Rita Kuczynski, adolescente disorientata dai continui cambiamenti nel modo do vivere ai quali si sottoponeva in occasione dei frequenti spostamenti da Berlino Ovest, dove viveva, a Berlino Est, quando il transito era ancora consentito dalle autorità orientali e la ragazzina poteva dividersi fra la madre, membro dell'apparatchik comunista a Berlino Est, e la nonna, che stava dall'altra parte della città. Fino alla mattina del 13 Agosto 1961, quando ai cittadini di Berlino Est venne proibito per sempre di uscirne. E Rita Kuczynski lì dovette stare, bloccata dal Muro e vittima di una crisi esistenziale dalla quale sarebbe uscita molti anni dopo, consegnando alla memoria collettiva un libro titolato I fiori del muro.

 

«Ich bin ein Berliner», «Sono un berlinese», fu la sfida gettata da John F. Kennedy a ridosso del Muro durante la sua storica visita a Berlino il 26 giugno 1963. Così che chi avesse orecchi per intendere intendesse. Il regime della DDR coprì la Porta di Brandeburgo di teli neri perché  i cittadini di Berlino Est non assistessero al discorso, ma la sua eco risuona ancora oggi e si trasfigura nella solidarietà a tutti i martiri della libertà.

 

Come il rivoltoso sconosciuto che nel giugno 1989 in Piazza Tiananmen si fece muro egli stesso davanti ai carri armati della dittatura cinese.

 

Come le vittime dei pasdaran della Rivoluzione di Khomeini: 1979, vent'anni esatti che si rinnovano oggi con i desaparecidos dei mozzorecchi di Teheran.

 

Muri umani, materiale resistente contro il muro di gomma dell'informazione che ottenebra la verità.

 

Il muro di gomma fu il titolo scelto per il film di Marco Risi che documentava la lunga teoria di silenzi e omertà che segnarono – e segnano tuttora – l'accertamento dei fatti in merito alla strage di Ustica del 1980.

 

Mutismo omertoso che diede l'impronta di sé alla strage di Bologna, stesso anno e stessa oscurità sui mandanti, alla strage dell'Italicus e a quella in Piazza della Loggia.

 

E a tutti gli eccidii senza nome, brani di storia accomunati dalla persistenza del muro di gomma contro cui l'informazione rimbalza e torna indietro, vuota come prima.

 

Epifenomeno del muro di gomma è la ricorrenza che insieme ad altri avvenimenti di afflato epocale gemella cabalisticamente questo 2009 con il 1969, anno della strage di Piazza Fontana a Milano.

 

E proprio questo luogo, chora di lacrime e sangue e parole deviate – oltre ai Servizi, of course - sembra il proscenio drammaticamente ideale in cui far parlare l'eloquente silenzio dell'arte.

 

L'opera d'arte tace ma è gravida di valore simbolico: parla un linguaggio universale che chiunque può – e, se usa il dono dell'intelletto, deve – comprendere. Non è vero che l'arte sia come un libro di Nietzsche, per tutti e per nessuno.

 

E proprio in quanto forma simbolica, come lo stile secondo Alois Riegl, è sempre all'altezza della propria epoca.

 

In questo caso particolare, in questa occasione quasi solenne in cui viene ribadita l'irriducibilità dell'arte al linguaggio ordinario intrinsecamente nemico della verità, della libertà e della critica, l'arte stessa occasiona non una protesta ma una proposta: sviscerare il concetto di muro nella sua proteiforme e magmatica varietà polisemica per abbattere i muri edificati a scorno della verità. L'arte, lo sappiamo tutti no?, è conoscenza.

 

Come disse Ronald Reagan davanti al Muro di Berlino il 12 giugno 1987 a un Michail Gorbaciov destinato a reinvestire gli utili dell'imminente perestroika (lo renderà un agiato conferenziere internazionale): «Signor Gorbaciov, tiri giù questo muro!».

 

E il linguaggio universale dell'arte tira giù il resto dei muri: l'incomunicabilità fra culture diverse, l'autocrazia liberticida, l'insabbiamento della verità, la mordacchia al dissenso in tutte le sue forme.

E ne erge simbolicamente uno solo, ideale e inespugnabile fortezza a difesa della sacralità e inviolabilità della coscienza.

 

Che secondo il celeberrimo giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński rappresenta un genere speciale di sensibilità, una grazia da preservare sempre. Perché la libertà, come la Fede, è una scelta continua.

 

Il progetto Plaza, serie di sculture e installazioni sito specifiche collocate in punti strategici di Piazza Fontana a Milano, testimonia questa scelta: foss'anche la libertà di dire che il re è nudo – e non è una piccola libertà – la libera coscienza dell'artista è una coscienza critica fedele alla contemporaneità e veste di sé lo zeitgeist.

 

Nonostante le magnifiche sorti e progressive della civiltà democratica, altri muri sono ancora da abbattere.

 

Del resto, il passato non si può esorcizzare: se i pezzi del Muro di Berlino sono stati venduti tutti come souvenir, altri ne restano ancora disseminati qua e là.

 

Si veda ad esempio l'installazione Blacklight#2 realizzata dal serbo Mihailo Beli Karanovic. 150 piccioni/sculture di spazzatura mista, corda e fil di ferro, distribuiti sul perimetro di Piazza Fontana e accompagnati alle relative scatole di imballaggio: mattoni di un muro abbattuto dalla stessa razza umana che l'ha edificato, vestigia inoccultabili e inamovibili che simbolizzano l'indebita euforia derivante dal crollo di un muro le cui macerie restano tuttavia sempre lì a testimoniare la cretineria degli esseri umani che si fanno male da soli ed esultano per un paio di rattoppi e qualche lezione di retorica imparaticcia.

 

 

 

 

E' il passato che non passa.

 

Come quando il Socialismo Reale veniva giù e salivano al cielo le note dell'Inno alla gioia.

 

Come quando i macellai di Stato passavano al cospetto della storia, a volte chiudendo il ciclo drammaticamente (il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu processato e fucilato con la moglie dal tribunale rivoluzionario il 25 dicembre di quel fatidico anno 1989), altre assumendo i toni da commedia degli equivoci (gli uomini della vecchia nomenklatura riciclatisi in socialdemocratici).

 

Mentre ora, con il luogocomunismo delle frasi fatte, si biascica del “crollo delle ideologie” che le macerie del Muro hanno portato con sé. Insieme al liberalismo alle vongole dell'ex Cortina di Ferro.

 

E il silenzio degl'impuniti autori delle Strategie della Tensione, d'ogni risma e d'ogni razza, sembra farsi scroscio silente di risa beffarde nei confronti della Strategia dell'Attenzione invocata dalla pubblica opinione della Piazza.

 

L'installazione sonora di Carlo Dulla ne è esempio preclaro: dai lettori audio posizionati sotto le finestre dell'Arcivescovado che danno su Piazza Fontana risuonano le voci delle Piazze del mondo, i desaparecidos argentini, le madri di Piazza Tiananmen, i cittadini all'interno della Banca dell'Agricoltura di Piazza Fontana e i berlinesi del settore occidentale che gridavano i nomi di amici e parenti di là dal Muro.

 

 

 

 

Perché nulla, come testimonia la vicenda di Rita Kuczynski, distingue le persone tra loro.

 

Ricordiamoci delle parole di  Ryszard Kapuściński:«La vita di ognuno di noi poggia sulla presenza degli altri. Solo la vita condivisa conferma la nostra identità. Gli altri sono uno specchio vivente, grazie al quale ci accorgiamo di esistere. Il fatto che al mondo ci siano gli altri dinamizza il nostro esserci, testimonia la nostra esistenza. Senza di loro ci muoveremmo in un deserto dove il nostro esistere risulterebbe irreale, opinabile ai nostri stessi occhi»(1).

 

 

Piace leggere in quest'ottica Intrecci, il  lavoro realizzato da Angelo Caruso che consiste in un grande palo su cui si attorcigliano centinaia di bandiere di tutto il mondo in un vincolo di solidarietà (e interessi meno elevati). Il cui referente illustrissimo è rappresentato da quelle installazioni dei coniugi  Lucy e Jorge Orta, coppia artistica nota per l'impegno in un’attività estetica - e non estetizzante - della politica. Ma soprattutto si vede la lezione del filosofo francese Emmanuel Lévinas sul passaggio dalla ricettività dell'esistenza alla conoscenza, il superamento necessario del muro – il confine geografico e geopolitico - affinché l'estraneo diventi l'altro.

 

 

 

 

L'altro-da-sé di cui parla il progetto di Pino Lia, MemoRINGsquare: serie di memorie iconografiche che percorrono il perimetro ellittico del suolo su cui è collocata la fontana che dà il nome alla piazza, lunga teoria di alter ego dei piccioni/sculture del Karanovic e contraltare visivo all'installazione sonora di Carlo Dulla.

 

 

 

 

Intrecci di preghiere (ricordate l'equiparazione della coscienza con la grazia?) che dialogano col Trittico di Beppe Carrino, formato da un grande pannello centrale e due laterali ricoperti da una fitta trama d'intrecci di stracci, stoffe e corde: una lunghissima preghiera di legami, potenzialmente senza fine.

Legami non di sangue ma di solidarietà, che ingaggiano una lotta impari contro un nemico inafferrabile: la resistenza opposta ai muri di gomma di chi invoca senza requie la verità.

 

Muri di gomma come il lavoro del sodalizio artistico Anomala, che ha realizzato un monolite in gommapiuma  provvisto di bersaglio in direzione del quale è posizionata una grande fionda: il muro di gomma, forse più resistente del cemento armato e più pesante delle tonnellate di ideologia e omertà che hanno gravato e gravano sul mondo.

 

 

 

 

 

Si diceva del passato che non passa: a vent'anni dal crollo del Muro e con buona pace delle politiche no global non è subentrato alcun nuovo ordine mondiale. I governi delle nazioni più o meno evolute cercano, con poca destrezza, di far fronte alla cosiddetta “crisi” (settant'anni esatti dalla crisi finanziaria del '29!), di cui essi stessi sono almeno la concausa. Mentre i governicchi da Strapaese come l'Italietta  democristiana (i democristiani ci sono sempre e sempre ci saranno, sono come il bambolotto che salta fuori con una molla appena apri lo scatolone che lo contiene) si prodigano nella gestione dell'esistente.

 

«Povera patria», cantava Franco Battiato. L'unico paese al mondo a dover ordinare una commissione d'inchiesta sulle stragi – la Commissione Stragi.

 

E l'installazione di Federico De Leonardis posizionata di fronte alla lapide commemorativa dell'eccidio di Piazza Fontana sembra proprio un memento, l'esortazione a non dimenticare le 17 persone uccise e le 88 persone ferite da quell'ordigno esploso il 12 dicembre 1969 che proiettò sulla Repubblica un cono d'ombra lunghissimo e profondissimo come la notte senza fine.

La notte della Repubblica, titolava icasticamente il documentario realizzato da Sergio Zavoli tredici anni fa sui misteri infausti che hanno segnato la vita civile e politica del Belpaese.

 

 

 

 

Un cono di detriti: i cocci della verità, vite umane disintegrate dalla deflagrazione della – velleitaria –svolta autoritaria.

 

Ciò che resta del muro. La ruggine del tempo sbiadisce l'antica istantanea ma non il ricordo dei fatti ad essa connessa. L'ansia di verità affonda anzi nel passato per incidere sul presente: Tubular wall di Andrea Zanotti è un'installazione di 30 tubi di ferro alti 4 metri in erosione progressiva che affondano per 30 centimetri nel terreno e svettano lungo la via che collega Piazza Fontana e Corso Vittorio Emanuele. Un muro “ad aggiramento controllato”, potremmo dire: lo si può oltrepassare girandovi attorno o sfruttando il passaggio fra un tubo e l'altro, come i varchi del Muro di Berlino usati dai cittadini del settore Est in fuga per la libertà.

Tubular wall è il quadro plastico della possibilità di un muro. E' il farsi forma del suo stesso concetto, l'assorbimento di quell'estrema generalizzazione che è Il Muro.

 

 

 

 

 

Il muro di gomma, il film di Marco Risi poc'anzi citato, prende l'avvio con l'elenco straziante dei nomi delle vittime della Strage di Ustica: ogni persona ha un volto, ogni persona ha una storia. Nello stesso luogo in cui è posta l'opera MemoRINGsquare di Pino Lia è collocato il lavoro di Fernanda Fedi e Gino Gini, che ha per oggetto il poeticissimo valore simbolico dell'albero come narratore di storie e custode degli esseri umani: L'alfabeto degli alberi è l'avvolgimento dei 21 alberi di Piazza Fontana per mezzo di altrettante tele contrassegnate ciascuna da una lettera dell'alfabeto. L'albero ci parla e noi lo dovremmo abbracciare. Dialogando con le immagini di 70 ritratti fotografici del Lia, gli alberi di Fernanda Fedi e Gino Gini enfatizzano l'unicità e l'eccezionalità di ogni essere umano. E naturalmente rappresentano per allegoria quei volti sconosciuti, pedine inconsapevoli della strategia della tensione e le vittime dell'odio, così importanti nella loro singola e individuata eccezionalità e senza nome pubblico.

 

 

 

 

 

La libertà è fragile e si preserva con una sorta di presidio democratico permanente, non per forza composto di tavoli, sedie e megafono: basta l'eloquenza dell'installazione sonora di Domenico Olmedi (A proposito di libertà: si può toccare...va trattata con cura (!)), scultura che una volta percossa produce suoni armonici, a completarne il concetto occasionando nell'osservatore la suggestione dell'eco della libertà.

 

 

 

 

Sensazione del memento cui il lavoro di Enrico Cazzaniga (Wall Street) dà l'impronta di sé attraverso la realizzazione di un muro di strada costituito di mattoni in asfalto.

 

 

 

 

Rovesciamento dell'orizzontalità della strada che ha il suo contraltare nel rovesciamento operato dal gruppo artistico Perypezye Urbane, che con l'installazione (mat#one) capovolge la verticalità del muro giocando sullo slittamento semantico del termine italiano “mattone” nell'espressione inglese “tappeto numero 1”.

Mentre Mme Duplok, con il surreale Ricordo del mulo di Bellino coniuga il divertissement linguistico con la verità dada, accompagnandosi alla decontestualizzazione inquietante di Doppio singolo di Ruggero Maggi, che installa un letto matrimoniale i cui materassi sono separati (ma vah?) da un muro.

 

 

 

 

 

Dalle macerie dei muri risorge, se non un nuovo ordine, un faticoso riassetto civile, forse non più orientato al sol dell'avvenire come pretendeva il dogma autoritario, ma verso lidi liberali e democratici, come sembra suggerire l'installazione di 10 vele di Stefano Sevegnani (Rinascita).

A volte l'insurrezione morale dell'opinione pubblica prende la forma del qualunquismo e   degenera nel canaio forcaiolo della piazza, specialmente quando ci sono di mezzo i processi ai “politici”. 

 

Ma spesso, molto più spesso, lo sdegno della piazza è il pianto immortalato nella foto che ritrae il volto della Madonna palestinese vittima della guerra. Nell'immagine dell'anziana signora in lacrime che accende un lume in una chiesa di Belgrado, ai tempi della guerra per la cosiddetta liberazione del Kosovo. Nelle Madri di Piazza Tiananmen e Plaza de Majo. Nei berlinesi di Potsdamer Platz, tagliata in due dal confine fra Belino Est e Belino Ovest.

 

Il Muro, die Mauer.

 

Ogni installazione di ogni artista coinvolto nel progetto Imagining Plaza rappresenta il grano di un rosario rispetto al quale questa rassegna di arte pubblica, realizzata su un suolo sacro e simbolico, è la preghiera laica recitata nello stato di grazia della coscienza. La coscienza civile dell'arte. Che non fa la storia autoreferenziale di sé stessa – la storia dell'arte – ma entra direttamente nella storia e nelle storie.

 

 

 

 

1)Ryszard Kapuściński, Lapidarium. In viaggio tra i frammenti della storia, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 104. Poi in Opere, Mondadori, Milano, 2009,

 

 

[Kritikaria, la Rubrica di Emanuele Beluffi, n.00 Die Mauer, pubblicato su Lobodilattice il 18-10-2010]

 

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