Apertis Verbis. Epilogo delle mie copertine | Emanuele Beluffi

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APERTIS VERBIS. EPILOGO
di Emanuele Beluffi

Nel corso di queste dodici settimane mi sono soffermato sulla produzione di alcuni degli artisti con i quali non ho mai - o non ancora - sviluppato una collaborazione, nel senso dell'elaborazione di un progetto espositivo, dell'ordinamento di una mostra o della redazione del testo critico in occasione della medesima. Naturalmente gli artisti non "rodati" personalmente in contesti espositivi supera di gran lunga il numero di dodici e, come spesso capita in circostanze affini, l'opera di selezione - perchè, piaccia o meno, di questo si è trattato - è stata un po' sofferta. Vuoi perchè non è stato possibile, per ragioni le più varie, parlare di colui/colei cui avrei invece voluto dedicare questo "tributo". Vuoi perchè, in a simple way, gli artisti sono tanti.

A seconda delle personali passioni dell'anima, cose leggere e vaganti, sempre contingenti, mi sono limitato talvolta ad asserzioni dalla sintesi ungarettiana, concedendomi invece in altre occasioni esposizioni di più ampio respiro. Ma sempre in maniera schietta e connaturata alle “stimolazioni” occasionate dall’opera in questione.

La decisione di contenere il bacino d'utenza degli artisti si è basata su due ragioni, connesse a motivazioni per dir così d'ordine etico.
La prima: evitar le contumelie rappresentate dall'accusa di partigianeria.
La seconda: è più sensato soffermarsi su un lavoro meritevole di essere conosciuto e apprezzato  - o disprezzato -, piuttosto che illustrare produzioni già conosciute dai più. Molti degli artisti trattati non hanno infatti alle spalle un percorso espositivo già consolidato.

Naturalmente questa è la mia opinione, in quanto tale altamente opinabile. Ma credo che il ruolo di una rivista specializzata e dei cosiddetti operatori di settore consista nell'adottare un atteggiamento di fedeltà al presente. E il presente passa - anche, ma non solo - attraverso il lavoro di chi non sia ancora asceso, non dico all'Olimpo degli dèi (in cui c'è posto per pochi, pochissimi), ma quantomeno alle vette più modeste dell'esibizione del proprio talento - o della propria mediocrità.

Sennò, a che sarebbe servita la rubrica delle copertine? E, in generale, a che servirebbe fare arte e parlar d'arte?
Rientra in questo discorso anche il ruolo della critica, un'attività intellettuale che inizia dalla teoria e talvolta confluisce nella pratica - la messa in pratica delle assunzioni teoriche  attraverso la loro "traduzione" nel linguaggio espositivo di una mostra. In fin del conto, il terreno d'elezione della critica è e resta la teoria - sebbene attiva e pratica! Anche perchè quello del curatore, in talune circostanze, diventa proprio un altro mestiere: uno può essere in grado di elaborare teorie dal forte impatto speculativo e del tutto incapace di mettere assieme opere d'arte in maniera decente.
Ma la critica è anche sempre un'attività di carattere militante. Questo non è un sacrificio dell'obiettività (‘chè, semplicemente, l'obiettività non esiste), ma piuttosto fare esercizio di outing, esponendo insieme alla propria faccia i propri pensieri.

 

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