Fotografia Europea 2011: L’identità dietro lo stereotipo

FOTOGRAFIA EUROPEA 2011: L’IDENTITA’ DIETRO LO STEREOTIPO

Sfilate di papi, fotomodelle, bottiglie di vino, tortellini ed insalate capresi. Belle donzelle con boa di piume di gallina bianche rosse e verdi. Pessime riproduzioni fotografiche di capolavori del Rinascimento. Paesaggi da guida turistica. Composizioni di design a tre colori.

Forse è la tematica d’obbligo di quest’anno ad essere infelice, ma la prima, superficialissima impressione che si ha a sfogliare il catalogo di Fotografia Europea 2011, è che il tricolore, in realtà, non significhi nulla, che serva solo a nascondere il vuoto. Che una cosa a cui dare il nome di identità nazionale italiana non esista.

Forse il contenzioso è nato agli inizi degli anni Zero, quando le bandiere tricolori sventolavano alle finestre di chi voleva dare un contradditorio alle bandiere della pace. O forse da quando la bandiera italiana è stata espropriata da una parte delle forze politiche.

In ogni caso, il primo compito di una rassegna corale e squisitamente contemporanea come Fotografia Europea è quello conoscitivo. Indagare il mondo visibile, completare le lacune della percezione. La domanda di quest’anno è impegnativa. Esiste un “noi”? O solo un io, a cui sollecitare i sensi?

La splendida struttura tardo-rinascimentale dei Chiostri di San Pietro è stata scelta come fulcro del Festival. Intorno alla corte il carosello bianco dei papi, in tutta la loro opacità vintage. Nemmeno l’ombra di Fellini.

Al primo piano della struttura, quasi in contrapposizione con la dinastia papesca,  la sezione della carne.

Da una parte Nino Migliori, con le geometrie ondulate ed astratte dei corpi degli animali macellati. La violenza si disperde nella ricerca formale, ma il suo spettro è sospeso sopra le teste dei visitatori: un pannello di teste scuoiate, virate in blu, perfettamente riconoscibili nei loro denti scoperti ed occhi spalancati.  Questa presenza rispecchia il titolo del progetto. Cruor è il sangue versato violentemente, che si condensa, si trasforma in crosta, diventa sporco e contaminato. Il sangue dei macelli, che sta dietro la facciata godereccia dei prodotti tipici. Migliori ne indaga la struttura di viscere ed ossa, la linearità.

Dopo le astrazioni  del gore, i corpi astratti delle top model ritratte da Paolo Roversi. La sua bravura ci dimostra come solitamente l’universo glamour insegua la bellezza ed il desiderio fino ad annullarli nella stereotipia. Nella vacuità espressiva invariabile da scatto a scatto. Nudi bianchissimi, Kate Moss, Milla Jovovich, sperimentazioni sui gradi compresi fra il bianco e il nero. Bistro da dive del muto, profili perlacei da cammeo. Esperimenti con volumetrie e sfocature, per le collezioni dei giapponesi.

Roversi riesce a insinuare nelle sue opere il tormento di questi corpi disincarnati, acerbi, tutti occhi e zigomi taglienti. E in mezzo alla conformità corporea del fashion system, un paio di bellezze abbaglianti. Che ci ricordano l’incanto e il mistero della bellezza, e la sua intrinseca rarità.

Nel cortile, in posizione relegata (o forse simbolica, in esterno, fuori dai musei), l’Italia reale, ritratta da ottanta fotografi per Sette, il supplemento del Corriere della Sera.  Ex mondine in un dormitorio in disuso della risaia di Vercelli. Il generatore dell’impianto eolico di Isernia. Il tricolore, tenuto in mano da Tiziano Scarpa _ vincitore del Premio Strega noto per il suo impegno contro il razzismo_  che vira di significato. Profughi somali clandestini in case prive di ogni cosa. La Pietà Rondanini restaurata con un gel contenente batteri, messo a punto dalla Facoltà di Agraria.  I cowboy della Maremma.  Il presidio al cancello 2 della Fiat Mirafiori.  I vigili del fuoco dell’Aquila. La veduta del parlamento, vuota. Giorgio Parisi, il fisico italiano padre della teoria del caos. I dj di Radio Sca, che trasmette da Scampia.  La Comencini con il suo gatto. Dario Fo, Nobel 1997, davanti al Terzo Stato di Pelizza da Volpedo. Il filo conduttore sembra essere il lavoro, in tutte le sue accezioni: la ricerca, la genialità, la fatica, l’epica.

 

Nel complesso di San Lazzaro, che diventerà presto Museo della Psichiatria, scatti dall’I-phone che rispecchiano il padiglione Lombroso, con i suoi interni abbandonati, restaurati di modo da lasciare le scrostature, le scritte fatte dai ricoverati nel reparto “pazienti criminali”. Cinque fotografi, un mezzo minore, poco tempo a disposizione: una specie di coercizione formale per fare da specchio all’ex istituzione totale.

Mario Dondero, partigiano sedicenne, fotoreporter postbellico, ha lavorato per giornali e riviste storiche, ha frequentato i maggiori intellettuali italiani, e ha raccontato  guerre ed avvenimenti epocali. A  Palazzo Casotti, con un bianco e nero che ricorda Ossessione di Luchino Visconti, Dondero ritrae la miseria della Pianura Padana del dopoguerra. Perché la memoria è parte essenziale dell’identità.

Paolo Simonazzi indaga gli scorci più divertenti e pittoreschi del paese. Il cartello per la comunicazione dei servizi del bagnino Caronte, i variopinti Gesù, Madonne e Padri Pii di un rivenditore di ceramiche per esterni a Potenza, il negozio “. chiuso per idiozia”.

Poi abbiamo gli scatti dedicati a quello che forse è l’intellettuale più emblematico del nostro paese, Pierpaolo Pasolini, alla Biblioteca Panizzi. Prima di diventare un martire laico, negli anni della sua giovinezza attraverso i luoghi che ha attraversato e che hanno formato la sua sensibilità.

Qual è insomma il contenuto nascosto della rassegna? La sua morale? Il responso dello specchio? Agli spettatori il compito di trovare le risposte.

 

Luiza Samanda Turrini

 

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