Sparky è l’inseparabile cane e miglior amico di Victor Frankenstein, un adolescente particolare, dall’apparenza inquietante, ma solo per l’aspetto serio e una grande vocazione per la scienza, e per la creatività in generale, che sfodera sin dalla prima scena in cui mostra ai genitori un film da lui realizzato. Ecco che Burton inserisce immediatamente lo spettatore nel suo mondo, ma non fittizio e magico, come d’abitudine nelle sue opere, ma in qualcosa di più personale, quasi autobiografico. Ecco che Victor è una piccola trasposizione di Burton da giovane: la voglia di realizzare pellicole; l’amore per quello che c’è oltre; il gusto per il gotico, un certo rigore nel dark e nell’oscurità; lo sperimentare giochi e cose nuove, fino ad arrivare all’estremo, completando il prodotto con gli effetti magici, un po’ paurosi, spesso surreali e “di un altro mondo”, proprio alla Burton: riportare in vita Sparky, travolto accidentalmente da una macchina. Ecco che Burton mescola le sue collaudate ed efficaci idee con il mondo di Frankestein, per far rivivere il cagnolino come in una bella favola, una favola però non frivola e colorata, ma in bianco e nero, con dei rattoppi qua e là, e sempre molto misteriosa. Sparky viene riportato in vita, ma non è perfetto: ha delle cuciture malfatte, dei bulloni, la coda vacillante, si stanca facilmente … come nel mondo “reale” (certo, dove i cani si possano rianimare grazie a un esperimento visto in classe). Dunque favola misteriosa e particolare a partire dalla città stessa in cui Frankenweenie è ambientato nella poco ridente città di New Holland, dove i bambini hanno più somiglianza con personaggi d’oltretomba, dove ogni nome ha un riferimento non casuale, a partire proprio dalla famiglia del protagonista, i signori Frankenstein, l’unica coppia del paese dalle parvenze quasi normali, fino alla figlia del sindaco cattivo, unico nemico di Sparky, la strana Elsa van Helsing (la cui voce in inglese appartiene a Wynona Ryder, già nel mondo di Burton da Edward mani di forbice, 1990). Una lunga premessa per raccontare un piccolo film firmato da un grande autore che ancora una volta è riuscito a dimostrare capacità, talento e ironia. Un film che ha radici nel 1984, quando il giovane Burton realizza un corto per la Disney, e che, dopo 28 anni arriva al cinema, con la stessa trama, e poche modifiche. Quelle modifiche e dettagli cresciuti negli anni e tangibili e riconoscibili in ogni suo film. Burton è un autore, è risaputo, che si riconosce dalla prima inquadratura, anzi, dal primo titolo. E ha fatto scuola, anche se è un genere “aristocratico” e non amato da tutti. Ha fatto scuola nei generi, nell’animazione, nella grafica, dunque nell’arte generale. E’ di quegli autori come Ford, Fellini, Renoir, Visconti, Minnelli, Wyler, e il “contemporaneo” Tarantino. Li riconosci dal primo passo. E ha influenzato tanto. Mi è capitato di citare Burton scrivendo del Cavaliere oscuro – il ritorno, ad esempio, o anche dell’ultimo Bond, dove già nella sigla erano evidenti le influenze: dal Mistero di Sleepy Hollow, fino a Nightmare before Christmas. Spesso basta una bara in un film d’animazione: ed è Tim Burton. E’ cosi. Ho citato illustratori e pittori, quelli della Low Brow art, da Mark Ryden a Victor Castillo, artisti contemporanei che hanno spesso ripreso Burton nella loro poetica. E poi quel mondo degli effetti speciali, degli illustratori di genere, di quelle sottoculture che in pochi conoscono, ma che brulicano di citazioni e sostanza, come la maggior parte di film, da quelli falsamente per bambini come la Fabbrica di cioccolato, fino alla ripresa di romanzi come Sleepy Hollow, appunto, dove il gotico imperversa. Insomma gli spunti sono molti, e la forma è sempre sintetizzata in quei pupazzetti che, ripeto, hanno fatto scuola. E in Frankenweenie si aggiunge anche il cagnolino, tra gli attori di Burton.