Il ghetto di Varsavia è una delle voci più tragiche della Seconda guerra mondiale. Nella capitale polacca, per lo più nella città vecchia, viveva la più grande comunità ebraica dopo quella di New York. I nazisti vollero che la città diventasse una sorta di modello del loro progetto di sterminio degli ebrei. Dopo aver attaccato la Polonia nel ‘939, dando di fatto inizio alla guerra, nell’estate del ‘940, dopo aver censito la popolazione israelita –circa mezzo milione di persone- i nazisti delimitarono una zona della Varsavia vecchia, circa due chilometri per quattro, dove costrinsero gli ebrei a vivere. Il progetto, denominato endlösung, soluzione finale, era semplicemente quello di sterminarli.
Nel ghetto si moriva a migliaia, di fame, malattie, violenze, tutto. Gruppi sempre più grandi di persone venivano sistematicamente trasferiti nei lager. La popolazione, all’inizio del ‘943, era ridotta a 70.000 unità. Il 18 gennaio di quell’anno un gruppo di operai, in possesso di poche armi, sparò sui tedeschi. Era l’inizio della ribellione. Inferociti, i nazisti usarono tutti i mezzi per la “soluzione”: gas, bombe incendiarie, benzina. A maggio un rapporto diceva che “il ghetto non esiste più” e a suggello simbolico della “vittoria” i nazisti fecero saltare la sinagoga di Varsavia, che era posta fuori dal ghetto. La resistenza, disperata, eroica degli ebrei, in quella circostanza avrebbe generato letteratura e cinematografia. Fra i titoli che fanno testo non può mancare Il pianista, il libro di Wladyslaw Szpilman, che Roman Polanski ha tradotto in film nel 2002. Altri testi fondamentali sono Olocausto, firmato da Gerald Green nel 1979, Il muro di Varsavia di John Hersey, del 1961. In quello stesso anno veniva pubblicato Mila 18, di Leon Uris, autore del più celebre Exodus (1960), altra tragedia di quel popolo, diventato film per la regia di Otto Preminger. La televisione ha dedicato al Ghetto la serie Holocaust (1978), per la regia di Marvin Chomsky.
Tornando al film di Polanski è legittimo affermare che può valere come connessione alla mostra dedicata, dal “ghetto”, al più internazionale artista italiano, Maurizio Cattelan. Il protagonista del film, Wladyslaw (Adrien Brody) è un giovane pianista di talento. Mentre esegue un brano di Chopin arriva la notizia dell’invasione dei nazisti in Polonia. Da qui il dramma: i suoi cari, benestanti ebrei di Varsavia, vengono deportati nei campi. Lui si salva, ma con un arduo percorso per la sopravvivenza, che quasi riesce a sottrargli anche la musica e la sua poesia. Una drammatica poesia che invece ci ripropone, a Varsavia dopo anni, Maurizio Cattelan. Otto delle sue opere sono in mostra a nella città polacca in due ambiti diversi: nel castello di Ujazdowsky e … nel ghetto, appunto. Un percorso complesso da rappresentare, perché denso di storia, simboli, richiami forti e pungenti, in un luogo altrettanto forte e delicato come Varsavia, dove l’artista, dodici anni prima, aveva già creato un piccolo scandalo portando La nona ora, l’opera che raffigura Wojtyla schiacciato da una roccia/meteorite, dalle impressionanti fattezze reali, causando addirittura le dimissioni della direttrice del museo e dibattiti sulla censura. La mostra ha un titolo chiaro e perentorio, Amen. In questo contesto l’artista italiano propone opere fondamentali del suo percorso, che riprendono temi diversi: da We, il doppio Maurizio in versione elegante e rimpicciolita sopra un letto di legno, a Untitled, la donna appesa nella cassa, esposta due anni fa a Palazzo Reale, o ancora il bambino impiccato al pennone dell’entrata del castello. E poi i temi storici, che Cattelan ha sempre ripreso, perchè è un capillare studioso, di passato, di eventi e personaggi che hanno lasciato dei segnali. Per Amen basti un esempio: il piccolo Hitler, Him, inginocchiato di spalle davanti a un cancello abbandonato, nella zona Ulica Prózna, nel cuore del ghetto. Non possiamo avvicinarci, ma solo vederlo attraverso un grezzo spioncino di un grosso portone abbandonato. E’ lì, in fondo a un corridoio di mura logore. Da dietro sembra un bambino vestito da adulto, in ginocchio, addirittura in preghiera. Non puoi scorgerne il volto, che invece è ripreso, nella figura intera frontale, nei manifesti per tutta la città. Dunque c’è Hitler … a Varsavia. E, se nel cinema esiste ancora la licenza del “poter dire delle cose anomale che in altri ambiti striderebbero”, Cattelan continua a farlo anche in arte. Ripeto: Hitler nel ghetto. E solo lo spettatore può vederlo.
Adrien Brody nel Pianista
Adrien Brody e Roman Polanski sul set del Pianista
Roman Polanski
il ghetto di Varsavia
Amen, Maurizio Cattelan nel ghetto di Varsavia (foto Zeno Zotti)