La cattiva coscienza occidentale solitamente riflette il proprio senso di colpa nello sguardo patetico con cui accoglie gli artisti provenienti da zone del mondo dilaniate da guerre e povertà. Un atteggiamento paternalistico che spesso porta a sopravvalutare opere mediocri o, peggio, stereotipi che ostentano il dolore "storico" e "civile" della propria terra. Critica, pubblico e mercato così hanno un occhio di riguardo per opere che, magari anche con sapienza, usano codici etnici "sensibili" per veicolare temi impegnati, facilmente digeribili dagli euroamericani. Non è questo il caso di Andro Wekua, artista georgiano che sfugge nel miglior modo possibile ai facili schemi che potremmo criticare, giusto per fare due esempi, nei lavori di Shirin Neshat o in altro ambito di Marjane Satrapi.
Wekua ha un respiro diverso, un diverso livello di elaborazione; non può rimuovere l'infanzia travagliata ma nemmeno la eleva a feticcio e così facendo dilata i suoi confini; in altre parole non ha più interlocutori definiti (galleristi, critici, collezionisti) a cui raccontare e vendere la propria storia. L'interlocutore è l'umanità e così dovrebbero nascere e vivere le grandi opere dei grandi artisti ovvero facendo riferimento a loro stesse e non ad altro, incarnando in profondità - to embody direbbe Arthur Danto - il proprio significato. Non c'è bisogno di conoscere la provenienza di un autore quando solitudine, angoscia e spaesamento si impongono al primo sguardo. Quando, attraverso le tecniche e le forme, un artista coglie frammenti universali, attimi di verità irriducibili all'analisi ed alle parole. Una grande opera d'arte non apre un dibattito, lo chiude.
I lavori come quelli della Neshat (ma sono caduti in errore anche mostri sacri come la Abramovic di Balkan Epics o Wei Wei con Dropping a Han dinasty urn) trovano il loro senso all'esterno, citano, evocano, raccontano. Così il "fruitore" occidentale prova una specie di catarsi etica nel collegare un'opera con il dramma della guerra nei Balcani o con i diritti delle donne in Iran. Questo discorso è utile anche per chiarire una posizione di linguaggio: un'opera non si deve "fruire", utilizzare cioè per trarre appagamento estetico, ma vivere nella sua genesi e nel suo destino che inevitabilmente chiama in causa il nostro. Le grandi opere parlano di morte e vita, non di quella morte o di quella particolare vita.
Non c'è bisogno di sapere che il blu è tradizionalmente associato alla malinconia quando il colore è in sè il blu degli abissi, totale e permanente. E quelle mani, che la composizione innaturale rende immediatamente fredde ed estranee, possono essere di chiunque. Ma un capolavoro è tremendamente esatto nel definire sentimenti vaghi ed intensissimi, nell'alludere precisamente senza mostrare. Si può dire che un capolavoro è al contrario del backstage, del fuoriscena, dell'osceno, è ciò che si vede e nient'altro che quello. E quegli elementi in scena, pochi o tanti che siano, devono essere un mondo "pieno" e vero. Per quanto valore possano avere, la denuncia, l'impegno e l'indignazione rischiano di creare un vuoto all'interno dell'opera, il vuoto di un mondo che fa riferimento ad un altro mondo "più vero". Solo la capacità di rendere carne, spirito e vita in un oggetto può neutralizzare questo rischio.