A Desenzano del Garda (BS), presso la Galleria Civica “Bosio”, s’è tenuta dal 5 Maggio al 10 Giugno una mostra antologica dell’artista Bernard Aubertin. Nel 1958, a Parigi, egli conosce personalmente il grande pittore Yves Klein, e visitandone lo studio finisce per appassionarsi al suo caratteristico monocromo. Sin dall’inizio, Aubertin sceglie di dipingere col rosso. Invece, Klein nel corso degli anni preferì il monocromo simbolicamente più “pacificante” del blu. Nel 1961, Aubertin inizia ad esporre il caratteristico Tableaux feu. Supportata dal legno, una lastra di alluminio ha centinaia di fori, cui s’inseriscono dei fiammiferi, in posizione ortogonale e destinati alla combustione. Il monocromo rosso favorirà la percezione che il quadro viva una “passionalità”. Il blu di Klein porta la pittura a diventare simbolicamente trascendente. Il suo cielo ha una tonalità più “intensamente rivitalizzante”, ma tramite il “riposo” nell’astrazione. Il blu si percepisce nel “pulsare” della “freddezza”. Il cielo di Klein ha una vena esteticamente “intellettuale”. Aubertin all’inverso cercherebbe una “freddezza” della “pulsazione vitale”. Sembra che il monocromo rosso letteralmente “consumi” la metafora della sua “passionalità”. Per capirlo, diventerà fondamentale il dettaglio estetico del fiammifero. Qualcosa che paradossalmente “raffreddi” la vitalità “rossa” (passionale), mediante la sua combustione. Il monocromo di Aubertin si percepisce in via più “materialistica”. Quasi “annerito” dai fiammiferi brucianti, il rosso ci pare in via di “raffreddamento”. La pittura di Aubertin si dà nella “tensione materialistica” dalla nascita alla morte. Il monocromo è pur sempre “freddo” da percepire, avendo l’astrattismo figurativo. Diversamente da Klein, Aubertin lo lascerebbe “a terra”, in via materialistica. Posti in verticale, i fiammiferi bruceranno entro la “cappa” della loro “passionalità”. Il rosso di Aubertin è “pesante” da percepire, per cui esso non salirebbe in cielo.
Paradossalmente, in questi quadri l’elemento più “rivitalizzante” ci pare il fiammifero. Entro la “cappa” del rosso, la materialità del legno finirà ad emergere visivamente. Tutti i fiammiferi sarebbero “ingialliti” consumandosi, ma “risplendenti” tracciandosi. Una visione materialistica della vita comporta che le emozioni ed i sentimenti dell’animo derivino da taluni impulsi. Questi letteralmente “si traccerebbero” dentro di noi. Sempre gli impulsi biologici si realizzano a prescindere dalla nostra volontà. Noi li asseconderemmo, come se ne seguissimo “le tracce”. Nei quadri di Aubertin, il fiammifero è per la maggiore collocato in verticale. Non ci pare che la “pesantezza” del rosso possa “schiacciarlo”. Guardato in verticale, il fiammifero vorrebbe la sua “vitalità” emotiva o sentimentale, lungi dal seguirla impulsivamente. Qua il legno per contrasto brucia “risplendendo”. Il fiammifero “squarcerebbe” tutto il materialismo delle passioni vitali, nelle “tracce” d’una loro sublimazione. Il legno avrà una tonalità “aurea” (per il contrasto del giallo sul rosso), ed una figura “ascensionale” (che percepiamo venendoci incontro, mentre alleggerisce la “pesantezza” dello sfondo). Se la volontà individuale subisce il “peso” materialistico delle “fiamme” emotive o sentimentali, essa “s’incenerisce” (potendo seguirne solo “le tracce”). Per Aubertin, la nostra vitalità va “raffreddata” astrattamente, grazie al monocromo del rosso. Ciò non toglie che il “fiammifero” della volontà personale possa “riemergere”. La visione materialistica della vita è mantenuta, ma si restringe alla sua pratica. Il legno brucia per quelle passioni che sono volute, in modo tale da farlo “risplendere” (“risalendo” dall’intimità dell’animo alla “rivelazione” della coscienza).
De Vigenere aveva studiato la fenomenologia della fiamma. Qualcosa che nasce risalendo, incorporata in una sostanza “corruttibile”, che dovrà unirsi all’aria. A De Vigenere interessa molto la natura “duplice” della fiamma. Da un lato, essa sarà bianca, risplendendo nella “cima” della combustione. Ma la fiamma ha una vena pure rossa, unendosi ai materiali che vi bruciano (come il legno). Quella bianca rimarrà sempre dello stesso colore. La fiamma rossa invece può diventare viola, arancione, gialla ecc… Quella bianca annulla tutta la materialità del suo fondamento. De Vigenere la percepiva col simbolismo della coscienza morale, la quale “ci eleva” in via spiritualizzante.
Nei quadri di Bernard Aubertin, avremmo la fiamma “rossa” (materialistica) dello sfondo e quella “bianca” (o della “volontà”) nel legno. La prima potrebbe anche mutare di colore, ad esempio se annerita dal fumo. La seconda è simbolicamente “aurea”, avendo così un materiale “prezioso” e quasi “incorruttibile”: qualità che ci aspetteremmo per la stessa libertà morale. Conosciamo pure il sistema dell’arte contemporanea, per cui solo i più influenti galleristi, critici, compratori, collezionisti ecc… possono decidere che cos’è il “valore” estetico. I fiammiferi di Aubertin si percepiranno nel materialismo della “libertà morale” per denunciare un loro consumo a livello sociale? L’artista Burri bruciava le proprie opere, a ricordare i drammi dell’uomo contemporaneo. Il fiammifero di Aubertin diventerà la “luce” già fioca (perché destinata a “spegnersi”) della vita che purtroppo stia “soffrendo”. Quantomeno, entrambi hanno portato l’arte a “consumarsi” da sola, prima che lo faccia il gallerista, il compratore, il collezionista il critico ecc… più influente. Aubertin brucia dei jeans e poi li arrotola come ricavandone dei “candelotti”. E’ un tipo di pantaloni che usiamo principalmente a lavoro, avendo un tessuto che resiste bene a “strisciate” e lavaggi. Il jeans si può consumare, proprio perché ne conosciamo “l’affidabilità”. Forse è fin troppo “facile” mercificare l’arte contemporanea. Il sistema dei vari critici, galleristi, compratori, collezionisti ecc… ne determina l’affidabilità. Il jeans però è usato anche nei lavori pesanti, che certo fanno “soffrire”. Aubertin lo impacchetta lasciando un fiocco, e questo ci sembra tutt’altro che “decorativo”, percependolo come un crocifisso. Conosciamo la “miccia esplosiva” dell’arte che si quota, ma è più importante disinnescare il “candelotto” che drammaticamente uccide le persone.
Ricordiamo il titolo d’un libro scritto da Cesare Pavese: La luna e i falò. La prima allude alla necessità che il tempo perduri nella ciclicità di sé (con le stagioni). Ma il “falò” dell’infanzia purtroppo è completamente diverso da quello nella maturità. Dobbiamo percepire il simbolismo di Pavese dal suo esistenzialismo. Da fanciulli la vita “ci consuma” (ad esempio, con la “spensieratezza” del gioco); ma da adulti “noi” consumiamo la vita (soprattutto, avendo una responsabilità sociale o civile). Percepiamo il tempo che torni ciclicamente (con le stagioni naturali), senza pensarlo come scandito fra la nascita e la morte (per le nostre vite). Nel secondo caso, mancherebbe la “spensieratezza” del “gioco”. Qualcosa che possa ripetersi: lo stesso accade per le stagioni della natura, contro quelle del singolo uomo.
L’artista Bernard Aubertin esibisce dei fiammiferi che spesso percepiamo in via quasi “architettonica”. E’ sufficiente guardarne la posizione in verticale. Avremmo la “miniatura” d’una vera e propria fiaccola olimpica. Essa fumerà di nero, per la solita metafora della nascita che tende alla morte. Il nostro sguardo giocherà col fiammifero? Il caratteristico spirito olimpico ci ricorda che l’importante è partecipare, non vincere. Anche il falò “dell’infanzia” caro a Pavese va giocato per il “mero fatto di giocarlo”, nella spensieratezza dell’età che evita di responsabilizzarsi. Nei quadri di Aubertin, il fiammifero naturalmente ci consuma. Nella partecipazione della nascita verso la morte (se la prima richiama subito la seconda), noi dobbiamo “battere” il materialismo dei sentimenti e delle emozioni. Negli sport di squadra, si dice che il grande campione è colui che “accende” il gioco. L’artista Aubertin ama l’immagine del fiammifero. Pare che questo accenda “il gioco” della nascita che prova di continuo a vincere la morte, certo attraverso le “micce” delle passioni.
Aubertin giunge a collocare i fiammiferi come se riproducesse l’iride d’un occhio. Noi li percepiremmo nella “scansione” del loro giro. Il fiammifero è lungo e stretto, virtualmente come la lancetta dell’orologio. Simbolicamente, dovremmo vedere il “cronometraggio” della vita, con la nascita che richiama immediatamente a sé la morte. La scelta di collocare i fiammiferi ricostruendo un occhio sembra coerente. Quando azioniamo il cronometraggio non siamo noi a guardare il quadrante, perché è questo che ci guarda (complice la tensione che viviamo). Parimenti, “l’accensione” della nostra nascita è avvenuta prima che la “raffreddiamo” con la maturità dell’autocoscienza.