I dipinti di Bruno Marrapodi si fanno notare facilmente, soprattutto per la felice e chiassosa gamma cromatica che si presenta allo spettatore come un arcobaleno di colori che rende magiche e psichedeliche anche le immagini più banali, rivelando con ironia la comica irrealtà della vita. Nato a Milano nel 1982, in questi giorni è impegnato negli ultimi preparativi per la sua prima personale milanese alla Maelstrom Art Gallery.
Perché dipingi?
A dieci anni mia madre mi regalò un catalogo di una retrospettiva di Mirò al MOMA di New York. Ne fui strabiliato. Disegnavo tutti i giorni instancabilmente, ero come ubriaco. Altro elemento importante: ho una certa predisposizione ad assorbire gli ambienti e stati d’animo che mi circondano, ne sviluppo spesso un’opinione ben chiara. Da piccolo facevo l’imitazione di tutti: amici, parenti e conoscenti.
I soggetti e i titoli delle tue opere si riferiscono spesso alla sfera della vita quotidiana dell’uomo medio, ritratta anche nei suoi aspetti meno lirici e più grotteschi. Quali sono i tuoi soggetti preferiti e perchè? Come scegli i soggetti delle tue opere?
Quasi tutti i miei lavori sono una storia da raccontare, spesso il fotogramma di un film, un film interiore. Ambienti vuoti, ambienti con personaggi e primi piani su individui. Amo molto l’acqua, dolce o di mare, quando è calma mi ipnotizza. Il cinema è una grande fonte d’ispirazione. Il riferimento cinematografico più importante è la commedia all’italiana, mi sento molto affine alla sua terrificante ma divertente franchezza. Nella nomenclatura di certi quadri mi ispiro liberamente ad esempi di questo meraviglioso modo di fare cinema. Attualmente sono molto interessato a certi aspetti del mondo del crimine, ne parlerò presto con il mio lavoro. Per ora non anticipo niente.
Nei soggetti umani da te ritratti traspare spesso un velo di tristezza o di rassegnazione, è una cosa da te voluta?
E’ un ingrediente del quale non posso fare a meno. Per percepire appieno la gioia e la speranza devo avere ben nitida di fronte a me l’immagine dell’abisso. La paura, l’ansia, la rassegnazione, la disperazione, la depressione, sono tutti stati d’animo terribili, ma addomesticando e frustando la grande energia negativa che possiedono, possono diventare un grande strumento di realizzazione e di comprensione. Per ciò che concerne il processo inverso, esso è matematicamente realizzabile con lo stesso impeto. Il male è sempre in agguato. Bisogna difendersi.
I tuoi dipinti sembrano giocare sull’ambiguità del rapporto realtà – finzione: riproduci scene di vita reale ma le rappresenti come dei mosaici dalla spazialità bidimensionale, senza badare alla profondità prospettica. Qual è il tuo concetto di realtà?
Spero di non arrivare mai alla presunzione di conoscere a pieno la realtà, o di ritenere di possederne un concetto assoluto, per poi magari andare in giro a predicarlo. Provocherei l’uccisione di ogni forma di curiosità, una macabra anteprima della morte, in vita.
Le tele dei tuoi dipinti sono come “riempite il più possibile” da diversi colori, organizzati in un groviglio di linee sinuose. C’è un motivo particolare per questa tua scelta stilistica?
Sì, sono in una fase piuttosto ingorda, sto facendo scorta. Quindi riempio. Il “groviglio di linee sinuose" s'insinua sempre più nella memoria della mia mano, rappresenta il mio modo di raccontare, di sintetizzare le forme, di dare energia positiva o negativa al quadro, di fornire movimento e di spostare l’attenzione in quello e in quell’altro punto. In altri casi mi serve per costruire certe forme “che decido io come devono essere”. Gli smussi soppiantano gli spigoli vivi in modo sensibile, questo crea continuità nel racconto e vuole alimentare l'ambiente come un sistema di arterie. Il mio obbiettivo è di plasmare fluidamente l'andamento delle mie forme, fino ad ottenere un'architettura parallela che possieda un vocabolario indipendente.
L’aspetto decorativo dell’arte, dopo esser stato declassato dalle avanguardie al livello di artigianato fine a se stesso, negli ultimi anni torna con forza nell’arte contemporanea, soprattutto attraverso la street art e il pop surrealism, come reazione all’accademismo delle neoavanguardie. In quale misura utilizzi la decorazione nelle tue opere e con quale logica?
Nella misura in cui è funzionale alla composizione che sto creando, non la disdegno affatto, ma non baso tutto su di essa. Credo che la ridondanza della decorazione abbia saturato gli occhi di molti. Ora è uno strumento come un altro che racconta ed esprime molto di più di quanto possa semplicemente abbellire...
Sei nato nei primi anni ’80, decennio degli yuppies, anni di ostentazione del benessere e di esagerazioni in tutti i campi. Quanto ti senti influenzato dallo stile di quegli anni, nella tua vita e nei tuoi dipinti?
Sono nato da persone benestanti, che hanno avuto genitori umili e semplici, e posso quindi ritenermi partecipe di più condizioni umane. Ho avuto un’educazione cristiana, pur non essendo oggigiorno un credente devoto. Il benessere mi piace, di ostentarlo non me ne frega niente: preferisco goderne. Nei miei dipinti non mi precludo di parlare di borghesi e di povera gente, in egual misura. L’ironia, e il lato comico o grottesco che ne deriva, non vuole avere una matrice giudicante: il giudizio è un onore che lascio allo spettatore del quadro.
Quanto le tue opere parlano di tristezza e quanto di felicità?
Cerco di occuparmi di entrambe. Una al servizio dell’altra.
Cosa ti piace leggere e quali film preferisci vedere?
Quest’anno mi sono dilettato con Bukowski, Hemingway e Carver. Ho letto alcune cose di David Foster Fallace, ma temo di doverle rileggere, al momento lo ritengo a tratti geniale e a tratti ostentatore di genialità, il che un po’ m'infastidisce. Circa i miei capi saldi cinematografici, invece, tra quelli Italiani pongo Mario Monicelli, Dino Risi ed Ettore Scola al top assoluto dei maestri, guardo e riguardo i loro film in maniera compulsiva; mentre tra i contemporanei sicuramente primo tra tutti Paolo Sorrentino. Per ciò che riguarda i film stranieri, consumo incondizionatamente tutto ciò che sia di Martin Scorsese, David Lynch e Jim Jarmusch.
Quale musica ti piace ascoltare, ne ascolti quando dipingi?
Mio padre lavorava nell’ambiente musicale, quindi sono stato educato ad ascoltare di tutto. Lavoro soprattutto nel silenzio, che amo molto. Quando non voglio silenzio, metto in sottofondo a basso volume film o documentari che adoro e che so a memoria, in modo da non deconcentrarmi. Mi cullano e non mi fanno sentire solo. La musica preferisco ascoltarla in macchina. Mi esalta.
Il tuo rapporto con la spiritualità?
Ho un problemino con l’accettazione della mortalità che tuttora sto affrontando, e sento di avere un po’ di strada da fare. Il mio rapporto con la sfera spirituale della vita è difficile e spigoloso, per preconcetti che mi sono creato nell’infanzia, ma sono in cammino, e la pittura mi sta aiutando molto in questa direzione.
Cosa t’ispira la parola “tradizione”?
La tradizione consiste nel tramandare concetti primordiali in tutti i campi. Qualcosa che viene prima che legittima il dopo, positivo o negativo che sia. Nel mio piccolo mi piace fermarmi e pensare a chi sono e da dove vengo, per esempio, anche solo aprendo uno scatolone e leggendo vecchi appunti di mio padre. Tradizione è tutto ciò che ci permette di avere un contatto più carnale con la terra in cui viviamo, cosa in cui noi occidentali, e mi includo totalmente, pecchiamo assai. Temo che questi pensieri li esprimerei meglio con un quadro.
Credi che l’arte abbia qualche funzione oggi?
L’arte deve trasmettere emozioni, siano esse meravigliose o terribili. Deve fare sognare le persone. Deve fare piangere le persone. Deve fare riflettere le persone. Deve insegnare. La funzione dell’arte assume contorni diversi in un’era in cui la critica è inevitabilmente influenzata dall’opinione del singolo individuo. Non si parte più da un assioma iniziale, grazie al quale si potrebbe compiere una critica indiscutibile e precisa.
Il sistema dell’arte contemporanea: cosa ne pensi delle figure di tale sistema?
Le figure del sistema dell’arte assumono un sapore diverso a seconda del periodo storico. C’è una tendenza che ci porta spesso a generalizzare, parlando del mondo dell’arte come un ambiente lobbista, in cui belle parole e mostre con grande eco sarebbero finalizzate al profitto celando contenuti scarni. Non è su questo che voglio concentrare il mio pensiero: in qualsiasi ambiente ci sono persone ciniche, poco scrupolose e superficiali. Non ne parlerei come un problema che riguarda solo l’arte e solo l’attualità. Nel medioevo tagliavano le teste e bruciavano la gente per molto poco, chi dipingeva un quadro che offendeva il potere o la religione andava incontro a ben altre grane che il semplice restare senza lavoro. Quanto a chi dipinge, chi scolpisce ecc.., a differenza del passato, c’è molto più individualismo e molta meno unione, per linguaggio e per contenuti. C’è poco altruismo. La gente ti manda un'email senza neanche salutarti, per chiederti di votarla a quello o a quell’altro concorso. Questo fa sì che coloro che amministrano, divulgano e vendono le produzioni artistiche siano molto più uniti di coloro che ci mettono l’anima, la manodopera e lo spirito.
Quali artisti nella storia dell’arte e nella contemporaneità ti piacciono o ti hanno influenzato nel tuo percorso artistico?
Voglio essere sintetico in questa risposta, perché potrei andare avanti a oltranza. Mi limito da solo, ne citerò solo quattro: Edvard Munch, Gustav Klimt, Francis Bacon e Peter Doig. Edvard Munch ha saputo più di molti altri combinare forme e colori al servizio di una rappresentazione simbolica di grande forza e bellezza, raccontando con efficacia la profondità dell’abisso interiore umano. Ha saputo far urlare non solo uomini, ma anche alberi e laghi. Klimt ha realizzato una sublime combinazione tra decorazione, rappresentazione, delicatezza e sensualità. Francis Bacon è l’istinto puro, l’accettazione del caos interiore e la piena coscienza di quanto esso possa dare, se si ha il coraggio di ascoltarlo e codificarlo. Peter Doig è per me uno dei pochi eredi contemporanei di questi signori. Quello che amo dei suoi paesaggi è il grande senso di silenzio che mi trasmettono. Sento a malapena un leggero vento e qualche lontano rumore dell’acqua.
Quanto nelle tue opere parli di te stesso e quanto di concetti universali?
Ogni essere umano è universale, perché abitante dell’universo. Ogni cosa di cui parlo, che sia vissuta in modo personale o che si tratti di un qualcosa che ho osservato da semplice testimone, è un elemento universale che è entrato in me. Io lo estraggo al servizio del lavoro. Se la domanda allude alla presenza di certi “alter ego” o figure da me conosciute che vivono negli ambienti da me dipinti, a volte si tratta di semplici caratteristi, a volte costituiscono un riferimento autobiografico. Può succedere che sia una semplice firma, o perchè no un bisogno di esternare un'emozione. Le emozioni si possono descrivere vivendole o vedendole negli altri, quello che cambia forse è la veridicità.
Mi descrivi lo spazio dove lavori?
Un grande, bellissimo e molto poco ordinato seminterrato dove ho tanto spazio per lavorare. La mia grotta.
Raccontami la tipica giornata di Bruno Marrapodi.
Ne ho diverse, ma oltre al fatto che dipingo, non mi sbottonerò in questa sede.
Raccontami quale vorresti che fosse la tipica giornata di Bruno Marrapodi.
Una tipica giornata a lungo andare diventerebbe la solita giornata, e finirebbe con l’annoiarmi, e in certi periodi ovviamente capita. Vorrei dedicare molto più tempo ai film, ai libri e allo studio. Infine ci vorrebbe dello sport, non è che ne abbia proprio voglia ma sai, dicono che fa tanto bene...
Maelstrom Art Gallery: www.maelstromart.it
Imaginabox Project: www.imaginabox.com