Opere pittoriche nate dall’impeto gestuale unito a un’attenta cura del cromatismo, luminoso e vivace, emergono nella produzione recente di Guido Pecci (nato nel 1975, vive e lavora tra Alatri e Roma), il quale si racconta in questa intervista.
Quando e come hai capito che avresti voluto essere un artista?
Ho avuto una predisposizione al disegno fin da bambino. Diciamo che disegnare era il mio passatempo preferito. Tuttavia, non è che mi ci dedicassi tanto per fare qualcosa ma con l’intento preciso di realizzare una “bella “ immagine, delimitandola con una linea di contorno nitida e prestando attenzione affinché il colore non fuoriuscisse dai bordi. Riconosco il fatto di essere stato, già da allora, molto esigente e un po’ maniacale, proteso com’ero al raggiungimento di una, seppure ingenua, perfezione tecnica e formale. La consapevolezza di voler diventare un artista è maturata durante l’adolescenza quando, anche se intimidito e un po’ frenato dalle reticenze dei miei familiari, ho deciso di frequentare il Liceo Artistico e, subito dopo il diploma, l’Accademia di Belle Arti. Mi sono stabilito a Roma, riponendo nel ventre di questa città, che io reputo essere una “madre immensa e terribile”, la mia vocazione alla pittura.
Puoi descrivermi da cosa nasce il tuo impulso di dipingere?
Dipingo per necessità, per soddisfare un bisogno che, pur non essendo primario, ha la sua stessa impellenza. Quello della pittura è un esercizio quotidiano che mi fornisce le coordinate per leggere ed interpretare la realtà, filtrando la stessa attraverso una vasta gamma di emozioni. L’impulso di dipingere, più che nascere da qualcosa, è connaturato al mio modo di essere nel mondo, di interagire e comunicare con lo stesso attraverso l’uso dell’immagine.
Nelle tue opere unisci, nella stessa superficie pittorica, varie figure, scritte ed elementi astratti o gestuali, senza badare alle classiche coordinate spaziali della prospettiva. Quanto i tuoi dipinti sono rappresentazione oggettiva della realtà e quanto sono visione soggettiva della realtà?
Il mio lavoro prevede una “combinazione” di forme, segni e simboli ma anche una commistione di tecniche e codici linguistici diversi. Non potrebbe essere altrimenti dato che sono solito attingere da ogni sorta di repertorio, visivo e concettuale, nonché da una vasta pluralità di eventi ed esperienze. Finisco con il riportare il tutto sulla superficie del dipinto, quasi seguendo un flusso di coscienza e senza necessità di organizzare la composizione secondo uno schema prestabilito. Non è una mia prerogativa distinguere e separare la realtà oggettiva da quella soggettiva poiché, a mio avviso, i due aspetti si integrano e sovrappongono, in un incessante gioco di rimandi.
Nei tuoi lavori compare spesso il mondo dell’infanzia, a volte accostato ad elementi aggressivi come delle enormi zanzare. Come scegli i soggetti delle tue opere?
Ti stai riferendo al ciclo denominato “Don’t forget me!”, presentato lo scorso anno presso la galleria Romberg arte contemporanea. Ebbene si, tutto è nato dall’acquisto di un prodotto gadget contenente cinque timbrini che riproducono le sembianze dei personaggi principali del cartone animato Winnie The Pooh. Sono stati proprio l’orsetto giallo e i suoi amici a suggerirmi di condurre un’indagine sul mondo dell’infanzia, sul tema del ricordo, della spensieratezza ma anche dell’inquietudine che pervade la vita del bambino. Il “cielo azzurro” dell’infanzia è il motivo centrale dell’intero discorso, strutturato secondo lo schema di una “storia a fumetti” il cui epilogo, neanche troppo sottilmente, lascia passare un messaggio: l’invito a sostare a fianco di quell’orsetto che continuamente si affaccia dal quadro, per dire di non voler essere “dimenticato”. A lui è spesso accostata un’enorme zanzara che, con le sue zampe filiformi e i bulbi oculari sporgenti, giganteggia e quasi fuoriesce dal rettangolo del quadro, proiettando dietro di sé un’ombra lunga e fantasmatica. S’addentra, con il suo insinuante ronzio, nella dimensione ludica in cui sono immersi Winnie e i suoi compagni; tutti condividono la percezione straniante del presente, resa tale dal confine sfumato che esiste tra l’immanenza degli accadimenti e il potere trasfigurante dei ricordi. Un presente che si vorrebbe eternare, per preservare la dimensione egocentrica dell’infanzia, ma senza nessuna garanzia di riuscita poiché, inesorabilmente, esso scorre e passa via.
La tua produzione iniziale, rispetto a quella attuale, era più oscura nei toni e dalle tematiche diverse. Mi racconti quali sono stati i cambiamenti nella tua pittura?
Il ciclo precedente a quello attuale è stato realizzato nel biennio 2006-2007, in occasione della mia mostra personale presso la galleria “Franco Riccardo Arti Visive” a Napoli. In quell’occasione, mi sono confrontato con una tematica da me molto sentita e più volte indagata, la sessualità. Il rapporto con il corpo, la pulsione erotica, il richiamo dei sensi non sono esperienze vissute solo ed esclusivamente sulla propria pelle ma anche con e attraverso la pelle della pittura, il cui farsi equivale ad un autentico atto sessuale. Calarsi nella dimensione dell’eros, però, implica l’accettazione di uno stato di oscurità poiché, ogni atto, si consuma al buio. Ecco, quindi, spiegato il perché di quelle superfici bituminose, stratificate di toni blu e violacei, tormentate dai continui e ripetuti incroci del pennello. Un procedere lento caratterizza l’evoluzione dell’opera, per restituire l’immagine di una complessa operazione introspettiva; carte precedentemente dipinte e poi incollate, l’una sull’altra, insieme a grumi di pigmento e velature di nero pesto… Dopo l’oscurità, inevitabilmente, c’è la luce chiara e diffusa, dopo gli spazi riempiti fino all’orlo da immagini e scritte di ogni tipo, c’è il vuoto e la pausa del bianco puro, il gioco, lo scherzo, il divertimento. Si apre una nuova fase della mia vita e, di conseguenza, si avvia un nuovo ciclo pittorico.
Quali materiali utilizzi solitamente per dipingere?
Inizialmente utilizzavo pigmenti colorati, smalti e bitume. Ora sono tornato all’olio che trovo essere congeniale al mio modus operandi nonché alla resa brillante degli impasti e degli spessori.
Mi descrivi lo spazio nel quale lavori?
Il mio studio è un ambiente di circa 30 mq, al piano terra di un palazzo la cui fondazione risale al 1300. L’ingresso è direttamente sulla strada. Vorrei che fosse lindo e pinto ma, ahimè, ci sono sempre macchie di vernice sul pavimento; alcune porzioni di parete, a volte, le utilizzo per mescolare i colori o provare le tinte. All’interno, puoi trovarci un cavalletto, un grande tavolo, qualche scaffale e niente più. Non mi piace alcuna forma di sovraffollamento né, tantomeno, trovarmi fronte a fronte con i lavori precedentemente realizzati. Dispongo di svariati punti luce poiché ho la necessità di verificare continuamente la lucentezza dei colori.
Oltre ai dipinti, hai creato anche delle sculture, scatole dipinte e installazioni. Vedi le tue sculture come complementari alla pittura o come una produzione a se stante?
Penso che i due aspetti si integrino perfettamente. L’opera, in continuo divenire, è una commistione di modi e generi espressivi eterogenei, ingloba tutto ciò che, a prima vista, sembrerebbe essere estraneo al linguaggio della pittura: inserti fotografici e oggetti di vario tipo (proprio come le scatole dipinte), piccoli manufatti ceramici, polveri colorate… ogni cosa contribuisce al risultato finale che non è mai fine a se stesso ma, al contrario, si fa veicolo per interagire con l’altro, entrare in comunicazione con lo spettatore e, infine, integrarsi con la storia e il sentire contemporaneo.
Hai mai pensato di utilizzare altri mezzi espressivi, come la fotografia, il video o altro?
Sono interessato ai mezzi espressivi da te menzionati, mi piacerebbe farne uso ma sempre integrandoli e facendoli interagire tra di loro. A mio avviso, il rischio che si corre è quello di scadere in facili trovate, in un’ingenuità espressiva spesso e volentieri mascherata da sofisticate tecnologie. Sarà, forse, una mia anacronistica convinzione ma, per garantire la buona riuscita di ogni esperimento, è indispensabile saperlo condurre con indiscussa maestria.
Il mondo dell’arte e le sue figure: quali credi siano i pro e i contro di tale sistema?
Cosa posso dirti del mondo dell’arte? Niente di diverso rispetto a quello che potrei dirti in merito a tutto il resto del mondo! Qualcosa va per il verso giusto, qualcos’altra no… forse più di qualcuna. Entrandoci dentro è necessario, secondo me, inforcare un bel paio di lenti spesse per discernere la verità delle cose e l’autenticità delle persone: facile cadere nel tranello! Ad ogni modo, mi ritengo fortunato poiché mi affiancano persone che stimo e che, come me, hanno fatto dell’arte una vocazione. Mi riferisco ad Italo Bergantini, titolare della galleria Romberg arte contemporanea, e a tutto il suo staff. Ho iniziato a lavorare con loro quasi tre anni fa, apprezzandone da subito il rigore professionale, la qualità delle scelte e la capacità di suggerire all’artista le giuste indicazioni per far crescere e maturare la ricerca. Da poco tempo, inoltre, ho iniziato a collaborare con Roberta Buldini, co-titolare della galleria Emmeotto arte contemporanea di Roma. Già dal primo incontro, ci siamo sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda tant’è che, dopo circa dieci minuti di conversazione, mi ha suggerito un interessantissimo tema da sviluppare per un progetto espositivo… naturalmente, al momento, top secret!
Credi che abbia ancora senso oggi parlare di tradizione e avanguardia nell’arte?
Sono convinto del fatto che la creatività è un’esperienza unica e del tutto personale ma, non per questo, avulsa dal contesto entro il quale viene esercitata. La tradizione ha sempre avuto un ruolo di primaria importanza nel mio lavoro, indipendentemente dalla tecnica e dai materiali utilizzati. È fondamentale, a mio avviso, un raffronto diretto con tutto ciò che è stato e tutto ciò che è, volgere lo sguardo al passato, vivere il presente e, infine, proiettarsi nel futuro. Non potrebbe essere diversamente, essendomi formato a Roma dove, insieme ai muri delle periferie coperte di graffiti, ho visto e meditato sulla grande tradizione murale e su tutto il palinsesto di pittura che riempie la città. La ricerca del nuovo si esplicita attraverso l’assimilazione della storia che deve essere sempre consapevole e lungamente meditata.
Ci sono degli artisti, nel passato e nel contemporaneo, che ti piacciono o che hanno avuto una qualche influenza nel tuo lavoro?
Ho sempre avuto un debole per i pittori del Manierismo, ammirandone la cervellotica ricerca dell’inusuale e del bizzarro, la sconcertante perfezione tecnica, l’ossessione per la “regola” che sfocia, paradossalmente, in una vocazione anticlassica. Pontormo e Parmigianino, Rosso e Beccafumi. In tempi più recenti, invece, ho sentito con forza la vicinanza a Francis Bacon e alla sua indagine spietata della realtà. Non posso non tralasciare, però, l’influenza che su di me hanno esercitato artisti come Basquiat e Haring, con il loro segno corsivo ed immediatamente riconoscibile, Kline e De Kooning, con tutta la loro vitalistica urgenza espressiva. Sono anche tornato a guardare Hockney e David Salle, Schnabel e gran parte di quella generazione di pittori… dimenticavo: gli Espressionisti tedeschi, Kirchner primo fra tutti.
Mi parli dei tuoi gusti negli ambiti: musicale, letterario e cinematografico?
Non ho un preciso ambito di riferimento, mi piace spaziare e mettermi in sintonia con le situazioni più disparate, a seconda dei giorni e dei momenti. Posso però dirti che ho una vera e propria venerazione per gli anni ottanta, quelli che mi riportano direttamente alla mia infanzia… i cartoons, i telefilms americani, i capelli cotonati, i Pet Shop Boys ascoltati al walkman, il radiant child di Haring… tanto altro ancora.
L’arte può essere vista come un ponte gettato tra la realtà cosciente e il mondo onirico e subconscio. Cosa ne pensi? Quale è il tuo rapporto con tali dimensioni della coscienza?
Posso rispondere dicendoti che da sempre il mio lavoro s’identifica con un procedimento di trascrizione del vissuto e delle esperienze in esso maturate. L’opera è indissolubilmente legata alla vita, registrandone, come un sismografo, le oscillazioni emotive; l’una e l’altra si sovrappongono, quasi a confondersi, mantenendo tuttavia ciascuna la propria sembianza originaria. L’opera, pertanto, non è mai “semplice” poiché lascia intuire una sedimentazione concettuale, vale a dire, una vasta gamma di possibilità interpretative, di indizi la cui decifrazione è indispensabile per comprendere il significato complessivo. Il quadro è come se dovesse essere visto in trasparenza, per distinguerne gli strati e, di conseguenza, tutto ciò che ciascuno di essi ha da raccontare. Ecco, perciò, che si scende in profondità, per sondare la dimensione inconscia dell’essere. Sono fondamentali, a tal proposito, le parole, quelle prima pronunciate nella mente e subito dopo trascritte per nominare un oggetto o in sostituzione di uno scenario, di un accadimento. Le parole, “liberamente associate”, svelano la misteriosa provenienza del ricordo. Il mio legame con la scrittura è forte, quasi irrinunciabile poiché, essa, veicola pensieri e suggestioni, contesti narrativi dei quali non si può non tenere conto. Attingo parole dappertutto: da un dialogo televisivo o da una canzone alla radio, dalla copertina patinata di una rivista o dalle pagine fitte di un romanzo. Spesso e volentieri, la trascrizione comporta una loro frammentazione: sbiadite e cancellate, si fa fatica ad indovinarne il significato; proprio come accade quando si va a riesumare la coscienza.
Il tuo rapporto con la spiritualità?
La forma più alta di spiritualità? Quella che si raggiunge quando ci si mette in contatto con se stessi, esplorando un territorio che, pur stando dentro di noi, è perlopiù sconosciuto e desolato. Bisogna animarlo, quel territorio; prima o poi, sentiremo l’esigenza di lasciare le nostre impronte sulla sabbia per intraprendere un cammino. Un’operazione, quest’ultima, che non è né facile né immediatamente entusiasmante, poiché, l’introspezione, ci mette di fronte all’io così come è, desiderante di oggetti e situazioni il cui raggiungimento, spesso e volentieri, ci costringe a saltare il fosso. Credo che non si possa aspirare alla felicità eludendo da questo “attraversamento”. Sto imparando a farlo grazie alla pratica buddista.
Quanto credi nel destino e quanto nell’autodeterminazione degli eventi?
La responsabilità di ciò che accade sta tutta nelle nostre mani. Non possiamo fare altro che giocarci bene le proprie carte, sostenuti e illuminati da una forza che pervade il cosmo e con la quale, quotidianamente, dobbiamo metterci in sintonia. Essa non mente e non trae in inganno ma, al contrario, ci permette di comprendere ciò che è giusto per noi, in ogni momento.
Cosa ti piace fare oltre a dipingere? In quali momenti dipingi?
Quando non dipingo, mi piace pensare a quando dipingerò. Ormai mi sono abituato a leggere ed interpretare ogni cosa in funzione di quello che più mi piace fare. Generalmente, dipingo durante il pomeriggio e la sera.
Quale è il tuo desiderio più grande?
I WANT TO BE BART SIMPSON! (coming soon...)
Gallerie di riferimento di Guido Pecci:
ROMBERG ARTE CONTEMPORANEA, Latina / www.romberg.it
EMMEOTTO ARTE CONTEMPORANEA, Roma / www.emmeotto.net