Intervista Fabrizio Pozzoli

fabrizio pozzoli scultura

 

 


INTERVISTA A FABRIZIO POZZOLI

di Giacomo Momo Gallina

 

 

So che hai iniziato gli studi in ingegneria per poi dedicarti alle tue sculture, mi smonti il mito dell'ingegnere col pocket pen?

 

La scelta della facoltà di ingegneria è da vedersi come naturale conseguenza di due situazioni: il raggiungimento della maturità scientifica  e l’auspicato mio ingresso post laurea nell’azienda edile di famiglia. In breve tempo mi accorsi di aver dipinto questo panorama senza tenere conto delle mie oggettive inclinazioni artistiche, in realtà già esplicitamente manifeste durante gli anni del liceo. Quindi, l’inevitabile fuga dall’Università e l’inizio di un lungo periodo di esperienze variegate, dovuto probabilmente all’inconscio rifiuto di una comunque inevitabile vita “artistica”.

In realtà , quindi, si tratta di una fugace esperienza che non ha lasciato alcun segno biografico rilevante, né alcuna impronta formativa.

 

Tra il 1994 e il 1997 sei stato tra Inghilterra e Stati Uniti, queste esperienze come hanno influito sulla tua vita e sulla tua arte?

 

Il periodo trascorso negli Stati Uniti nel 1994 e quello In Inghilterra del 1998, rappresentano due tra le esperienze più dense e significative della mia gioventù. Nel primo caso, il violento impatto del tutto ignorante con la lingua inglese in una realtà così lontana dal forte provincialismo italiano. Nel secondo caso, l’immersione a occhi e naso tappati nell’atmosfera unta e appiccicosa della cucina di un fast food inglese. Situazioni altamente formative( e volutamente scomode) ma che in realtà nulla hanno contribuito al mio cammino artistico, che ha avuto inizio ben più in là ( o più in qua) nel tempo.

In tal senso, invece, credo di poter attribuire un’importanza fondamentale al periodo trascorso nel 2008 a N.Y., ospite della residenza per artisti istituita ad Harlem dalla famiglia Montrasio ( Harlem Studio). Durante quella permanenza, infatti, ho avuto occasione di rapportarmi con spazi espositivi ed eventi per un’Arte senza limitazioni, dilatando  in tal modo le mie prospettive creative, fino ad allora vincolate da pareti cerebrali troppo occludenti. Prima di quel momento, il mio fare era  in realtà già esploso, nella realizzazione di The Big Head, Dumb Shout o Interruptus, ma era come se si trattasse di manifestazioni episodiche, indipendenti e  fine a se stesse. Ciò che a quel punto sentivo agitarsi dentro era la necessità di vivere lo spazio in maniera diversa; non in modo tangente, ma penetrante; non occasionalmente, ma con costanza e reiterazione. La mente si è popolata di idee nuove e rielaborazioni di progetti che galleggiavano, spersi. Il percorso che avevo seguito sino ad allora si era trasformato, biforcandosi più e più volte, fino a creare un tessuto di direzioni dalle nature diverse, ora complementari, ora antitetiche Si è originata un’ulteriore forma di insofferenza creativa, dovuta alla mancanza di un contesto adeguato che supportasse e consentisse la materializzazione di queste nuove idee. Si è innestato un processo implosivo che mi ha portato gradualmente ad un agire artistico figlio e vittima di una forza centripeta, che ha inglobato le sculture stesse.

 

Sei partito da opere pseudo pittoriche per arrivare alla scultura, come definiresti e giustificheresti questa tua evoluzione?

 

La tecnica che contraddistingue i miei lavori paradossalmente è proprio figlia di lacune tecniche. Il mio percorso artistico, infatti, non si è mai intrecciato con nessuna Scuola o Accademia. Se si eccettua l’esperienza fugace presso la Scuola del Fumetto (1999-2000), non posso vantare nessun tipo di formazione artistica che mi abbia consentito di assimilare le nozioni necessarie al relazionarsi con materiali e strumenti.

 Da qui, unitamente all’improvviso bisogno di far esplodere le forme dal foglio di carta verso la terza dimensione, la necessità di improvvisare una tecnica ( se poi di tecnica si tratta) che mi consentisse di tradurre in pratica questa pulsione. Quindi, un modus operandi che fosse totalmente libero, che non avesse regole e non fosse soggetto a raffronti, per mancata comunanza di materiali e principi di metodo con altre opere scultoree.

Così, dopo un periodo di assoluta sperimentazione vissuta in bilico tra esaltazione e frustrazione, un giorno d’estate del 1999, cercando in un cassetto di casa una pinza, mi trovai tra le mani un rocchetto di filo di ferro semi-arrugginito. Le conseguenze di quell’imbattersi furono pressoché immediate e portarono alla creazione di un piede, intrecciato con quel filo. Più incuriosito che soddisfatto del risultato, provai a proseguire l’improvvisato intrecciare, dotando quel piede di un polpaccio e poi di una gamba e poi di un intero corpo. L’intera realizzazione richiese all’incirca un mese e il suo completamento combaciò con l’inizio della frequentazione della Scuola del Fumetto. Trascorso l’intero anno scolastico nel maniacale studio e approfondimento della figura umana, terminati i corsi, a ridosso dell’estate ci fu l’immediata pulsione ad applicare alla tecnica del filo intrecciato quanto imparato in materia di anatomia. Per cui, alla prima figura rimasta inerte in un angolo per tutti quei mesi, iniziarono ad affiancarsene altre dalle forme via via sempre più ponderate ed inevitabilmente più equilibrate.

 

Che sensazione hai provato nel finire la prima big head?

 

Mi sono reso conto di aver finito la prima big head all’improvviso. Da un momento all’altro l’ho vista ultimata. Da lì in poi avrebbe vissuto di vita propria. Avrebbe respirato contesti diversi, assorbendone umori ed influenze, mutando il suo aspetto in funzione del clima e delle temperature, attraversando il tempo e lasciandosi invecchiare.

Tutto, senza che io potessi più intervenire in prima persona.    

D’un tratto mi sono scoperto ad osservarla con occhi diversi, malinconicamente più distaccati; Comunque, non ancora (né mai) sufficientemente oggettivi.

Ciò che mi ha attraversato in quegli istanti è stata un’altalenante sensazione di sollievo e smarrimento. Da un lato mi sono sentito come se avessi vinto l’ostilità delle grandi dimensioni, che in scultura può viversi come una vera e propria sfida. Dall’altra la consapevolezza che da lì in avanti il rapporto con il filo di ferro e soprattutto con le figure di dimensioni più contenute sarebbe inevitabilmente mutato. Da una parte, la conferma che questa tecnica così poco classica, spoglia di regole e norme, mi avrebbe consentito di affrontare la realizzazione di qualsiasi forma di qualsiasi dimensione. Dall’altra, lo spaesamento che consegue il concepimento di ogni progetto ambizioso e che mi ha posto di fronte all’ingombrante interrogativo : E ORA ?  

 

Mi spieghi meglio la tecnica del fil di ferro?e, come mai hai scelto di scolpire in questo modo?

 

L’utilizzo del filo di ferro ha rivelato sin da subito una serie infinita di possibilità creative e di vantaggi tecnici. Primo fra tutti, la possibilità di procedere per addizione, partendo dal nulla e lavorando all’intreccio dei singoli fili alla ricerca delle forme. Questo lento, graduale aggiungere mi consente di mantenere costantemente il controllo dei volumi e di intervenire in ogni momento sulla figura. L’origine di ogni scultura è una sorta di gomitolo di fili di ferro, che costituisce la calotta cranica della figura in divenire. Una volta completata la testa ( che rappresenta il parametro base per tutte le proporzioni ), inizio ad impostare il corpo, partendo da un’abbozzata colonna vertebrale. A questa segue la cassa toracica, poi il bacino, le gambe, le braccia e i ultimo piedi e mani. Le figure non hanno scheletri di nessun genere al loro interno. Vivono del fitto intreccio di fili che le pervade e in tal modo si auto-sostengono. 

 

Moltissime persone, di grande pregio, hanno apprezzato le tue opere e hanno scritto di te, eppure non sei entusiasta del mercato dell'arte...vuoi dirci il perchè?hai in mente qualcosa per il futuro?vuoi darci delle anticipazioni?

 

Il mercato dell’Arte è da sempre sottomesso ad un’evidente tirannia: quella del denaro. È così, lo si sa e chi decide di regalarsi un’esistenza  artistica è consapevole sin da subito che dovrà sottostare al suo giogo. Personalmente, faccio ancora fatica a convivere con le norme non scritte che ne regolano l’andamento, ma per un’ovvia esigenza di sopravvivenza cerco per quanto possibile di ignorare i pruriti ideologici che puntualmente fioriscono dentro di me. 

Quello che in realtà trasforma quei pruriti in vere e propri eruzioni è tutto ciò che gravita attorno a quel mercato; alla popolosa rete di figure intermediarie dai contorni non meglio definibili, che con fare parassita hanno gradualmente contaminato il sangue dell’Arte, rendendola avidamente dipendente da loro. Galleristi, critici, curatori, mercanti, speculatori. Sono loro i veri burattinai del teatrino dell’Arte, i domatori di un circo in cui gli artisti sono sempre più bestie ammaestrate o equilibristi che ciondolano sul filo del successo, spintonandosi tra loro per farsi strada.

Oggi più che mai l’Arte è un Affare.

C’è poca pazienza, in chi crea e in chi diffonde. C’è molta superficialità. Si è perso il gusto del domani. Non si investe in maniera sensata, ma sospinti da un’onda artificiale e artificiosa che guarda solo all’oggi. Tranne rare eccezioni, gli artisti che sembrano in linea con il gusto del momento vengono catapultati all’apice di un successo fittizio, finché, esaurito l’interesse per la novità, la luce si spegne e questi si trovano a vagare triturati e spaesati. Non c’è volontà di costruire. I galleristi non cercano lavori che abbiano consistenza, ma che funzionino come impatto immediato. Quando non trovano neppure questo, lo creano, imboccando con maestria e avveduta costanza le menti spugnose dei destinatari e “oliando” sagacemente le avide intenzioni degli intermediari. Critici e curatori saltellano con le narici tappate là dove riescono ad intravedere spiragli di notorietà e denaro, sciogliendosi in elogi ed esaltazioni sproporzionate e spesso ingiustificate. La critica dovrebbe sezionare ed esaminare in maniera costruttiva. Dovrebbe educare. Non imboccare, limitandosi a semplici profluvi di patetici panegirici. La critica dovrebbe…deve criticare. I collezionisti si dividono tra cavie e speculatori. I primi comprano tutto ciò che viene loro presentato come “arte del momento”. I secondi spendono solo dove intravedono un facile investimento dagli effetti immediati. Entrambi fanno le fortune di galleristi e mercanti d’arte. I musei in Italia non esistono. Mi è rimasta impressa una frase di una artista che ho avuto modo di conoscere di recente e che ha detto: “ I musei in Italia sono come dei cimiteri. Ci trovi solo artisti defunti…” . E gli artisti? La maggior parte di loro vive di momenti, in attesa che arrivi anche il loro turno o, se è già arrivato, che ci sia anche un secondo giro…

 

Questo è quello che credo.

 

 

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