Intervista a Thomas Bee a cura di Giacomo Momo Gallina
Dunque Thomas, partendo dalla visione delle tue opere mi sembra chiaro che tu sia entrato a far parte di quel movimento che viene definita pixelismo ma, allo stesso tempo, usi materiali di scarto? confermi? cosa ne pensi? per qual motivo hai scelto di dipingere in questo modo?
Più che di una scelta vera e propria si tratta sempre dell’impulso di confluire tutti gli aspetti della mia esistenza in un’unica cassa di risonanza. Per un artista che lavora sulla sperimentazione penso sia importante lasciarsi aperta ogni possibilità di utilizzo di un medium. Mi ritengo “istintivo” anche nell’uso delle varie tecniche. In un certo senso mi lascio dominare dalla tecnica. Spingersi in direzioni sconosciute penso sia un processo importante anche dal punto di vista formativo.I materiali che utilizzo sono spesso concretamente legati al mio vissuto. In alcuni lavori che ho svolto per vivere negli ultimi dieci anni, mi capitava di frequente l’attività di disimballare colli forando le scatole di cartone lungo i due lati sigillati dallo scotch. Ho sviluppato un rapporto di confidenza con questi materiali. I miei pensieri in quei momenti sono strettamente correlati con l’odore, il rumore del taglio e i gesti delle mie mani che trasformano un contenitore in una superficie piatta.
Per quale motivo dipingi su pluriball, personaggi dello show biz?
Ogni opera, anche la più fantasiosa, è in rapporto con il luogo e il tempo in cui viene creata.Il fatto di dover periodicamente rinnovare la presa di coscienza del confine tra sé e il mondo è causato dall’attenzione spasmodica che oggi si dà al modo in cui si appare, a come gli altri ci vedono. Il che allontana da una coscienza stabile di sé. Nelle mie opere faccio ampio utilizzo di “icone” svuotate del loro significato che come contenitori vuoti si prestano alla molteplicità di lettura, all’ambiguità. Per icona intendo un’immagine che è diventata un codice assimilato nel tempo, condiviso da tutti. Volevo rendere al meglio tale sensazione di spaesamento, che tra l’altro influenza anche i miei disegni in cui convivono differenti prospettive e una molteplicità simultanea di sguardi. Con le prospettive contraddittorie dichiaro quanto è egocentrico il punto di vista degli uomini: basta uscire da sé per un attimo e si scorge l’infinita molteplicità dei punti di vista.
Come ti è venuta l'idea dei gratta e sosta?
i materiali che uso sono come uno strumento sensibilissimo, capace di una risposta emotiva che si amplifica a potenziali flussi. I “minimi” su cui posso agire tramite questo strumento sono estremi e personalissimi, tanto da stabilire interi percorsi di senso sempre a ridosso del limite percettivo e dove forma, profondità di segno, spettro visivo e contenuto iconico sono sottoposti a una continua, impercettibile, inarrestabile trasformazione in altri stati. I GRATTA E SOSTA sono nati come risposta ad una necessità di riconoscere e disarmare i miei spettri, e in un certo senso anche di purificarmi da essi per liberarmene. Per fare questo avevo bisogno di creare una sorta di rete invisibile tra tutte le attività quotidiane, per dare un senso profondo ad ogni gesto.
Cosa pensi dell'arte e del mercato dell'arte sviluppatosi negli ultimi 10 anni?
Gli artisti sono come delle antenne. Come filosofi dobbiamo rimanere calmi, sereni, umili : vedo così la figura dell’artista oggi. Dobbiamo scavare ancora di più nella filosofia, nella propaganda di un benessere visivo. È troppo facile pensare solo ai soldi o alla fama: avremmo potuto fare tanti altri lavori per arrivare a questo obiettivo. Il nostro compito è un po’ più serio e richiede tempo. Parlare di arte come investimento è una cosa profondamente sbagliata: se si prende un’opera è perché la si ama, e quindi non è facile liberarsene. Anche se l’artista non ha avuto successo il discorso resta com’è, continui ad amare quel lavoro. Un investitore che vuole capitalizzare, invece, si stufa presto, segue logiche che non hanno nulla a che vedere con l’arte, ma con il business. Nel nostro paese l’arte contemporanea viene mostrata in modo molto limitato, nella maggior parte dei casi in gallerie private, che essendo commerciali sono molto diverse da un museo. Inoltre, l’interesse è rivolto soprattutto ad una ricerca spasmodica e fulminea di talenti “geniali”, ma non altrettanto al sostegno di una vera ricerca artistica. In Italia l’arte ha bisogno dell’ente pubblico. Occorre il rispetto dei ruoli. Il sistema dell’arte è composto da cinque ingranaggi: l’artista, il gallerista, il critico, il museo e il collezionista. Se ne manca uno il meccanismo si inceppa e da noi uno è quasi totalmente assente. Mancando l’Istituzione, che è l’elemento in grado di sancire la credibilità di un artista, vengono meno l’interesse e la vicinanza della gente, che non va a vedere le mostre. Talvolta, il problema sono i curatori, o la critica, che in Italia è latitante. Manca completamente quella costruttiva, dovrebbe essere sprone, invece non dà vita a nessun dibattito. Il lavoro di ciascuno va rispettato, ma anche criticato.
Prevedi di stare in Italia a produrre o hai in mente di trasferirti all'estero in un futuro?
Ho vissuto per dieci anni a New York. In un contesto urbano come quello di Manhattan sognavo dentro di me di ricreare un piccolo paradiso terrestre. Sono stato in giro per più di quattro anni. Ho vissuto a Londra, a Singapore e ho girovagato tra Indonesia, Cina, Malaisia e Giappone. Ho deciso di allontanarmi dall’Italia soprattutto per rispetto del mio lavoro e delle persone che hanno sempre creduto in me. Ho sentito il dovere di scappare. L’arte, a mio avviso, è investigazione, domanda, complicazione. Non c’era più nulla di tutto questo e ho scelto velocemente. Ho chiuso e sono partito con la promessa di tornare con un lavoro nuovo e con una grande mostra
Vuoi dire qualcosa per concludere l'intervista?
Si, che ciò che si è perso realmente è il tempo biologico dell’uomo. Le mie ultime mostre hanno avuto come argomento i neuroni e le sinapsi. La vita è diventata molto più veloce. Concentrarsi è diventato veramente difficile. Uno dei più grandi neurologi americani afferma in una sua teoria che i neuroni sono andati avanti cinque secondi sul ritmo di vita dell’uomo. Siamo caricati di ambizioni e di sogni e non siamo mai contenti. È un vortice che si ferma solo quando ci accontentiamo di quello che abbiamo fatto durante il giorno e ci accorgiamo che ogni cosa è già stata detta. Poi è stata semplicemente ripresa e spacciata come originale.