ITALIAN NEWBROW a cura di Ivan Quaroni, Pinacoteca Civica Palazzo Volpi

giuseppe veneziano, italian newbrow

Como, Pinacoteca Civica Palazzo Volpi

11 febbraio - 25 marzo 2012

 

Inaugura venerdì 10 febbraio, ore 18.30

 

Nella prestigiosa cornice della Pinacoteca di Palazzo Volpi a Como, dall’11 febbraio al 25 marzo 2012, Ivan Quaroni presenta Italian Newbrow, per la prima volta in un’istituzione pubblica: un nucleo di 16 artisti che con i loro lavori – dipinti, sculture, installazioni – restituiscono uno spaccato fortemente rappresentativo della giovane arte italiana. Una pluralità di voci e modi espressivi che recupera iconografie popolari di oggi - dal fumetto all’illustrazione, dal graphic design alla pubblicità, alla musica - incrociandole con l’arte di ieri. Dialogo reso più evidente in questa particolare occasione espositiva, dall’intreccio delle opere contemporanee con quelle della Quadreria storica del museo comasco. La mostra, la cui direzione organizzativa è stata affidata a Nicoletta Castellaneta, è promossa dalla Fondazione Club Lombardia, con la collaborazione dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Como e il patrocinio della Regione Lombardia.

La rassegna intende raccontare i mutamenti artistici seguiti alla diffusione di massa di Internet e alla globalizzazione e mostrare come sia cambiato il contesto in cui si trovano a operare le nuove generazioni di artisti.

Italian Newbrow non è propriamente un movimento artistico – spiega Ivan Quaroni – e neanche un nuovo linguaggio condiviso, ma un’attitudine, un’inclinazione anzi, che si coglie simultaneamente da più fonti e che rappresenta una direzione suggerita dall’immaginario di massa determinato dal mondo globale e dai mutamenti tecnologici e culturali che ne derivano”.

Gli artisti, tutti di età compresa fra i 25 e i 45 anni, chiamati a raccontare tale scenario sono: Silvia Argiolas, Diego Cinquegrana, Alice Colombo, Vanni Cuoghi, Paolo De Biasi, Marco Demis, Emiliano Di Mauro, Diego Dutto, Eloisa Gobbo, Massimo Gurnari, Fulvia Mendini, Elena Rapa, Michael Rotondi, Giuliano Sale, Tiziano Soro, Giuseppe Veneziano.

Gli artisti di Italian Newbrow captano lo zeitgeist del mondo contemporaneo, ne colgono i differenti linguaggi e codici espressivi e li uniscono in lavori che combinano tra loro culture lontanissime, mantenendo però intatte le caratteristiche di stile dei loro luoghi di appartenenza. Un’arte che si esprime nella zona di confine tra globale e locale e che fonde ironia e irriverenza, influssi neo-gotici e suggestioni folk, citazioni punk e cultura popolare.

Italian Newbrow è una modalità di pensiero che attinge simultaneamente ad una pluralità di fonti iconografiche, siano esse alte o basse, che sono radicate nella cultura e nell’immaginario pop di questo nostro mondo globale e connesso.

Ivan Quaroni ha presentato per la prima volta il progetto Italian Newbrow nel 2009, durante la quarta Biennale di Praga. Il termine newbrow nasce in opposizione al termine lowbrow, considerato dagli artisti della scena Pop surrealista americana sminuente e avvilente, per porre l’accento sull’aspetto nuovo e inedito di fare arte.

Accompagna la mostra un catalogo con testi critici di Ivan Quaroni e Igor Zanti, stampato da E-GRAPHIC s.p.a Verona.

 

GLI ARTISTI

 

Silvia Argiolas

Nata a Cagliari nel 1977. Vive e lavora a Milano.

Una pittura indefinita e sfuggente, liquida e multiforme è quella di Silvia Argiolas, artista sarda che ha maturato uno stile originale, sospeso tra figurazione e astrazione. Le sue opere, dove personaggi antropomorfi si sciolgono in uno spazio naturale, sono il prodotto di una palpitante immaginazione, capace di trasfigurare presagi e sensazioni in immagini ad alta tensione emotiva. I suoi dipinti raffigurano paesaggi interiori, territori psichici incontaminati, che narrano l’eterno ciclo di morte e rinascita di tutte le creature. II suoi boschi e le sue foreste incendiate da impossibili tramonti chimici sono luoghi di catarsi e rigenerazione, spazi di affrancamento e di riscatto dalle sofferenze dell’esistenza.

 

Diego Cinquegrana

Nato a Como nel 1981. Vive e lavora a Como. I ricami di Diego Cinquegrana sono disegnati direttamente su scampoli di cotone nero e successivamente ricamati con una gamma ridotta di fili colorati. Ogni ricamo è delimitato da una cornice, un perimetro cavo adornato agli angoli da figure floreali, rune o svastiche, entro cui si distende una rappresentazione simultanea d’immagini altamente suggestive, ma di difficile decrittazione. Si tratta di figure enigmatiche, epifaniche, collegate tra loro da sottili analogie, da affinità aleatorie che sfuggono all’occhio inesperto. Lo stile è sintetico e asciutto, quasi primitivo. Uno stile che ha il pregio di restituirci in modo unico e originale i fremiti e i turbamenti di un sogno perduto.

 

Alice Colombo

Nata a Cassano d’Adda (Mi) nel 1981. Vive e lavora a Melzo (Mi).

Trae spunto principalmente dalle proprie esperienze Alice Colombo, che con un segno sottile e delicato intesse narrazioni minime, che lei stessa definisce come “stesure di istanti di vita quotidiana in chiave poetica”. L’artista si è diplomata in pittura all’Accademia di Brera, ma durante gli studi ha avuto l’opportunità di frequentare per un certo periodo l’Università di Leeds, in Inghilterra. Qualcosa della cultura britannica deve essere filtrato nel suo immaginario visivo, perché le sue opere ricordano a tratti le illustrazioni dei libri per bambini di epoca vittoriana. A differenza di Arthur Rackham o Beatrix Potter, Alice Colombo contamina il disegno con il collage, rendendo le sue storie più prossime alla realtà contemporanea.

 

Vanni Cuoghi

Nato a Genova nel 1966. Vive e lavora a Milano.

Nella pittura di Vanni Cuoghi convivono molteplici riferimenti visivi, condensati in uno stile che è colto e popolare insieme. Nei suoi dipinti affiorano, infatti, citazioni e allusioni alla pittura del Rinascimento, ai paesaggisti dell’Arcadia, agli abiti e costumi d’epoca barocca e perfino a certe atmosfere fiabesche vittoriane. Un armamentario iconografico che l’artista filtra attraverso una marcata propensione verso la trasfigurazione fantastica e surreale. Così, se da un lato l’artista dispone i suoi bislacchi personaggi in uno spazio bianco, dove la prospettiva e i rapporti di grandezza sono suggeriti dalla posizione delle figure sulla superficie, dall’altra contrappone all’economia minimale dei fondi una vivace vena ironica ed un sontuoso corredo di decori e ornamenti, che contribuiscono ad impreziosire la struttura generale delle opere.

 

Paolo De Biasi

Nato a Feltre nel 1966. Vive e lavora a Treviso.

I dipinti e i collage di Paolo De Biasi sono costruiti attraverso una logica combinatoria, che genera narrazioni incongruenti, ambigue, aperte a qualsiasi interpretazione. Le immagini, frutto di un ripescaggio e insieme di un sabotaggio del repertorio iconografico degli anni ’50 e ’60, sono collocate in uno spazio incerto, non gerarchico, dove i dettami della fisica sono sostituiti da principi di funzionalità estetica. Personaggi, oggetti e architetture del recente passato si stagliano come episodi epifanici di un tempo simultaneo, privo di coordinate sequenziali. Generate in un’area imprecisata tra la coscienza vigile e l’intuizione, tra la logica cartesiana e il pensiero abduttivo, le immagini dipinte da De Biasi sono rappresentazioni paradossali, enigmatiche e vertiginose, in grado di suggerire suggestioni e significati inediti.

 

Marco Demis

Nato a Milano nel 1982. Vive e lavora a Milano.

L’opera di Marco Demis ruota attorno a un’assenza, a un vuoto prodotto dalla sottrazione d’espressività. È un espediente, e insieme un artificio retorico, che ha come effetto la creazione di un mistero e quindi di una seduzione che obbliga l’osservatore a colmare questo “vulnus” attraverso l’immaginazione. I suoi soggetti sono per lo più figure di bambini immersi in paesaggi plumbei e collocati in un’imprecisata dimensione temporale, ma l’infanzia non è un tema che l’artista intenda indagare. Le figure dipinte da Demis, in quanto private dell’espressività dello sguardo, sono piuttosto altrettante raffigurazioni di un enigma, di un arcano che attende di essere chiarito.

 

Emiliano Di Mauro

Nato a Milano nel 1978. Vive e lavora a Milano.

La ricerca di Emiliano Di Mauro verte sulla forzatura delle potenzialità della pittura, non solo tramite la rarefazione della griglia cromatica, ma anche attraverso una scelta casuale di soggetti quotidiani, che servono ad attutire la carica enfatica della rappresentazione. Lo stile anti-narrativo di Emiliano Di Mauro privilegia la sovrapposizione ottica d’immagini deboli, quasi prive di significato, che risultano, come per effetto di una sovraesposizione fotografica, inondate da una luce bianca che annulla i particolari degli oggetti lasciandone integra la sola struttura. Dal punto di vista estetico, quindi, il suo lavoro richiama le stilizzazioni di certa grafica minimal, che seduce lo sguardo con un segno scarno ed essenziale.

 

Diego Dutto

Nato a Torino nel 1975. Vive e lavora a Torino.

Ibridazione e bizzarria sono elementi fondanti anche della ricerca di Diego Dutto, scultore in grado di trasferire le forme vive del mondo animale in quelle stilizzate e aerodinamiche di bizzarri bolidi alati. In particolare, l’artista torinese trae spunto dalla conformazione fisica di esemplari d’origine antichissima, come mante e tartarughe acquatiche, per costruire sculture che sembrano il prodotto del più moderno design industriale. I materiali e le finiture sono le stesse in uso nelle carrozzerie: vetri, smalti, resine e lamiere d’alluminio, a cui l’artista conferisce un aspetto che, in gergo motociclistico è definito con la sigla RR, ovvero Race-Replica, in riferimento all’estetica affusolata delle moto da corsa.

 

Eloisa Gobbo

Nata a Padova nel 1969. Vive e lavora a Padova.

Una profusione di trame e orditi attraversa le opere di Eloisa Gobbo, velando la natura fondamentalmente concettuale e dialettica degli aforismi capovolti e dei verdetti gnomici che rimandano ai frasari visivi di Jenny Holzer. Per l’artista, l’uso di motivi floreali e geometrici, di silhouette ed altre icone ripetute e moltiplicate corrisponde ad una precisa volontà di riaprire il dibattito sulla dignità dell’ornamento nell’arte contemporanea italiana. Nei suoi ultimi lavori, l’artista riprende l’accattivante bellezza dei fiori dipinti da Warhol, recuperando tutti i tratti salienti dell’estetica pop, dalle tinte rigorosamente piatte, alle linee di contorno marcate, fino agli elementi desunti dal fumetto, come i fondi retinici di Roy Lichtenstein.

 

Massimo Gurnari

Nato a Milano nel 1981. Vive e lavora a Milano.

Massimo Gurnari mescola l’atmosfera frusta e logora dei fenomeni da baraccone con frequenti incursioni nel mondo dei tatoo, maneggiando le citazioni iconografiche, che spaziano dalle vecchie incisioni anatomiche all’estetica del mondo circense fino a certi popolarissimi topos storico-artistici, con un piglio originale e personale. La giustapposizione, talvolta persino la crasi, tra icone di varia provenienza è uno dei meccanismi compositivi prediletti da Massimo Gurnari, che dimostra come ogni singola immagine sia niente più che il frammento di una babele visiva, che suona come una biblica confusione di lingue e fonemi.

 

Fulvia Mendini

Nata a Milano nel 1966. Vive e lavora a Milano.

Adotta un linguaggio lineare e sintetico, influenzato dal graphic design, dall’illustrazione per l’infanzia e dalla tradizione artigianale dell’Arts and Crafts. I suoi ritratti mostrano soggetti con colli oblunghi, occhi grandi, bocche innaturalmente regolari. Sembra quasi che i volti dipinti dall’artista soccombano al dominio della geometria. Se non fosse per l’abbondanza di accessori, che distingue un personaggio dall’altro, si faticherebbe a distinguerli. Sono, infatti, i vestiti, i cappelli, i gioielli, le acconciature a fare la differenza, tanto da indurci a credere che i ritratti altro non siano che un pretesto per inscenare, ancora una volta, lo spettacolo di un'arte che riporta in primo piano il piacere miniaturistico per il dettaglio prezioso. In tal senso, i fiori, gli insetti e gli uccelli che compaiono nelle composizioni dell’artista sono i vocaboli di un dizionario visivo in cui si fondono parimenti echi dell’arte orientale e occidentale.

 

 

Elena Rapa

Nata a Fano nel 1978. Vive e lavora a Lucrezia di Cartoceto (Pu).

I personaggi dipinti da Elena Rapa sono figli di un suggestivo incrocio tra il mondo immaginifico delle fiabe per bambini e quello alternativo e antagonista del fumetto underground. La fanciullezza è, infatti, un tema centrale della ricerca dell’artista marchigiana, sebbene sia spesso abbinata alla presenza di elementi surreali o addirittura mostruosi. Un tipico esempio è rappresentato dall’invenzione di creature ibride e bizzarre come la macrocefala Lucilla Testagrossa, personaggio con un corpo infantile ed una grande testa sferica. L’indagine pittorica dell’artista coinvolge anche il paesaggio, che diventa un luogo d’innesti tra visioni fantastiche e surreali ed ambientazioni naturalistiche e campestri.

 

Michael Rotondi

Nato a Bari nel 1977. Vive e lavora a Milano.

Le citazioni di Michael Rotondi sono prelevate principalmente da due ambiti specifici, l’immaginario pop, con le sue variegate espressioni, e frammenti di memorie autobiografiche, elementi di uguale importanza nella ricerca iconografica dell’artista. Utilizzando immagini che ripercorrono miti collettivi e impressioni private, mescolate in un coacervo di personaggi dei cartoon, emblemi del rock e ritratti di amici e familiari, Rotondi imbastisce narrazioni bizzarre, sospese tra realtà e immaginazione.

Con le sue installazioni, organizzate come accumuli apparentemente caotici d’icone e annotazioni visive, l’artista livornese traccia una sorta di mappa culturale e sociale della nostra epoca, un affresco, insieme pubblico e privato, della moderna gioventù.

 

Giuliano Sale

Nato a Cagliari nel 1977. Vive e lavora a Milano.

Nelle opere di Giuliano Sale, dominate da un clima crepuscolare ed estenuato, da ambientazioni asfittiche e morbose, campeggiano, come lemuri dell’inconscio, personaggi inquieti e sinistri. Corpi allungati, volti emaciati, pelli livide e lattescenti, le vergini dipinte da Sale incarnano il prototipo di un’umanità alienata e depravata, più prossima alla genia fantastica dei vampiri e dei morti viventi. Ispirandosi agli episodi più torbidi dell’immaginario preraffaelita, Sale mescola, fino a confondere, i tratti ideali della femme fatale decadente con quelli demoniaci di freak e fenomeni da baraccone, riuscendo a rappresentare le fobie e idiosincrasie di questo capriccioso e volubile nuovo millennio.

 

Tiziano Soro

Nato a Milano nel 1979. Vive e lavora a Milano.

La predilezione per immagini vintage si ritrova anche nella pittura di Tiziano Soro, che spesso dissemina le sue opere con elementi appartenenti al recente passato. La sua ricerca è basata sulla contaminazione tra due grammatiche antitetiche, da una parte la rappresentazione realistica, diciamo pure di marca fotografica, dall’altra un certo tipo di sintesi formale, che include il gusto per pattern, texture e simboli segnaletici. Il risultato è straniante e allo stesso tempo accattivante, poiché l’immagine realistica, stagliata su uno sfondo fortemente connotato da elementi ornamentali, assume un valore quasi araldico.

 

Giuseppe Veneziano

Nato a Mazzarino (CL) nel 1971. Vive e lavora a Milano.

La pittura di Giuseppe Veneziano è basata sull’impiego di iconografie di facile reperibilità, spesso banali, prelevate dalla storia dell’arte, dal mondo dei fumetti, dello spettacolo e della cronaca politica. L’obiettivo dell’artista è di offrire all’osservatore un’immagine disincantata e oggettiva della società contemporanea, dominata dai gossip e dal potere mediatico ed economico. La citazione, attraverso la modalità tipica della sostituzione di uno o più personaggi dell’immagine originaria, diventa per Veneziano uno strumento di analisi del passato e del presente.

 

I TESTI CRITICI

 

L’arte italiana ai tempi di Zygmunt Bauman

di Ivan Quaroni

 

Mondo Liquido

Il pensatore che meglio ha saputo interpretare i mutamenti che caratterizzano l’attuale epoca d’incertezza e precarietà è, senza dubbio, Zygmunt Bauman. A lui si deve la celebre definizione di “mondo liquido”, usata in contrapposizione al “mondo solido” della società industriale, per descrivere l’inedita rapidità di cambiamenti in atto in ogni ambito dell’agire umano. Nella società liquido-moderna descritta dallo studioso britannico, sono instabili non solo gli assetti politici ed economici e i flussi di produzione e consumo, ma anche i fondamenti etici e culturali d’individui e collettività. Secondo Bauman, “una società può essere definita liquido-moderna se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”. In quest’ottica, l’esperienza passata non costituisce più una pietra di paragone perché, dice Bauman, “anche se qualcosa ha funzionato, le circostanze cambiano in fretta e in modo imprevisto”. La dimensione del turn over diventa un mood esistenziale, estendendosi ben aldilà delle condizioni lavorative, e impone rapidi rovesci anche sul fronte psicologico ed emotivo. In un mondo che ha mutuato dalla moda i meccanismi della stagionalità, l’ansia e la paura giocano un ruolo fondamentale. All’ossessione del benessere, della sicurezza finanziaria, della prestanza fisica, della giovinezza protratta ad libitum con il favore della chirurgia estetica e della “ginnastica” di massa, si affiancano i temi drammatici della precarietà professionale ed economica, dell’emarginazione sociale, della sfiducia nei confronti di un futuro incerto. Come la società, anche la paura diventa “liquida”, uno stato d’animo strisciante, che serpeggia dentro e fuori i confini della vita individuale.

In un tale orizzonte esistenziale, la cultura, e dunque l’arte, si ridefinisce secondo modelli che riflettono l’incessante rapidità e alternanza d’idee, valori, stati d’animo e possibilità di scelta. Non a caso, Bauman definisce homo eligens, l’uomo delle società capitalistiche avanzate, cioè l’individuo “che sceglie” o, meglio, chi è indotto a scegliere in un tempo presente continuo. L’homo eligens, infatti, non è l’uomo che ha scelto, poiché ogni opzione identitaria appartiene alle società del passato o, al limite, a quei gruppi, come le enclavi tribali e religiose, che vivono seguendo i dettami di antiche tradizioni. Al contrario, quella dell’homo eligens/consumens è una cultura evasiva e ibrida, onnivora e post-gerarchica. Una cultura, insomma, globale ed extraterritoriale, che postulando l’uguaglianza di tutte le culture, si sottrae a ogni forma d’identificazione etnica, religiosa, politica, sociale.

Internet è, naturalmente, la causa, e insieme la manifestazione conclamata, di questa extraterritorialità, dove le culture compaiono come possibili opzioni del nostro menù interattivo. La diffusione di massa del web ha, peraltro, enfatizzato le premesse culturali contenute già nel postmodernismo, caratterizzato, come ricorda Fulvio Carmagnola, “da alcuni aspetti specifici: ibridazione tra culture alte e basse, eclettismo stilistico e mescolanze di tradizioni differenti, consumo vistoso ed esibitorio, importanza sempre maggiore dell’ambiente mediale.

 

Google Generation e nuovo pop

Strumento di propagazione, ma anche di livellamento delle informazioni, internet ha finito per influire profondamente sulle scelte e sui processi operativi delle nuove generazioni di artisti. Più della rivoluzione tecnologica, con le sue inevitabili derive in campo digitale e multimediale, ha avuto un ruolo sempre più importante in pittura il reperimento di fonti iconografiche attraverso la rete informatica. Dalla seconda metà degli anni Novanta, quella che Luca Beatrice, proprio sulle pagine di Flash Art, definiva Google Generation, ha iniziato a utilizzare il web alla stregua di un immenso archivio fotografico da cui trarre ispirazione e, così, ha portato a compimento la propensione postmoderna verso le pratiche di citazione e remix di fonti colte e popolari. Il risultato più evidente di tali pratiche, è stata la formazione di un nuovo tipo di arte pop, favorita dall’estensione orizzontale della coscienza e della conoscenza e dall’ampliamento delle possibilità di contatto e d’innesto tra culture e linguaggi differenti. Questa “nuova arte pop” riassume elementi tipici di tutti i codici massmediatici: la funzionalità comunicativa del design, la persuasività dell’advertising, la spettacolarità del cinema, la semplicità dell’idioma televisivo, la convergenza degli immaginari fantastici e fantascientifici del fumetto e della fiction e molto altro ancora. Tutti strumenti che permettono il più alto grado di trasmissione del pensiero e alla maggiore velocità.

Generalmente, quando si usa il termine Pop, si è portati a pensare che vi sia una sorta di rapporto o di legame con gli artisti della Pop Art, che è stata l’espressione di un particolare tipo di società, quella del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta e della nascita del consumismo. Questo nuovo tipo di arte pop è, invece, qualcosa di profondamente diverso. Certo, esso condivide con la Pop Art alcuni stilemi grafici, basati sulla semplificazione e sull’efficacia comunicativa, ma differisce in quanto ad ampiezza e varietà di temi trattati. Secondo Franco Bolelli, il nuovo pop rappresenta una forma di cultura antropologicamente superiore non solo perché si avvale di strumenti mediatici che ne favoriscono la diffusione capillare e non tanto perché si costituisce come una koiné universalmente comprensibile, ma soprattutto perché si fa portatore di nuovi valori. “Se la cultura pop è definitivamente superiore”, scrive Bolelli, “non è semplicemente perché è più energetica, più divertente, più sexy, più comunicativa, più globale. […] No, se la cultura pop è definitivamente superiore, è perché essa – innanzitutto quella più avanzata – sta creando nuovi valori, più pieni, più abbondanti. […] Toglietevi allora dalla mente che il pop rappresenti la perdita o la deriva di senso (dannata dalla cultura ufficiale, beatificata dal postmoderno). Qui non stiamo affatto parlando di Andy Warhol né di disco-art-fashion, artefatta degenerazione dell’energia pop. La più inventiva cultura pop è mille volte più ampia e più coraggiosa di quel minuscolo microcosmo concettuale che ruota intorno a deturnamento, simulazione, estetizzazione del banale”I valori di cui parla Bolelli riguardano evidentemente l’emergere di una nuova fisiologia della percezione dell’individuo contemporaneo. In pratica, l’aspetto positivo dell’homo eligens baumaniano consisterebbe nella capacità di scegliere e pensare fuori dagli schemi della logica binaria. La sindrome della non-appartenenza lo condurrebbe, dunque, a dribblare (o al limite a comprendere) gli estremi opposti di qualunque tipo di credo culturale, religioso, politico, filosofico, sociale. Per l’uomo (e per l’artista) della società liquido-moderna le scelte forzate tra Destra e Sinistra, tra ateismo e spiritualità (e poi tra diverse religioni), tra tecnologia e tradizione, tra economia ed ecologia, tra cultura “alta” e “popolare”, tra slow food e fast food, tra chic e trash (e via distinguendo) conducono al depotenziamento e alla limitazione dell’individuo. L’artista, così come l’uomo “che sceglie”, è un surfer, che scivola sulla superficie del mare magnum esistenziale, immergendosi in profondità solo laddove è necessario, utile o divertente. Quello che appare come una forma estrema di relativismo ontologico è, piuttosto, un comportamento che esalta le capacità creative degli individui e la loro disponibilità a connettersi con realtà differenti, prendendo da ciascuna solo ciò che è giudicato buono, scartando, invece, ciò che è ritenuto inutile, limitante o dannoso.

In quest’ottica, la nuova cultura pop fornisce l’ambiente più favorevole per la determinazione di linguaggi ibridi e contaminati. Mai come nell’ultimo ventennio, infatti, sono emerse a livello globale espressioni artistiche basate sul remix e la citazione, dal Superflat giapponese della Kai kai kiki di Murakami, scaturito dalla sintesi di arte tradizionale e immaginario manga, agli ultimi sviluppi della Street Art, con i Beautiful Losers patrocinati da Jeffrey Deitch e le irriverenti azioni di Banksy, nuovo idolo dell’Urban Art, fino alla variopinta galassia della Lowbrow Art americana, con la sua mistura eclettica di fantasie horror, feticci popolari e influenze massmediatiche.

 

Problemi di vocabolario

Naturalmente, anche nel Belpaese, la cultura di massa ha lasciato un segno profondo nella formulazione dei nuovi linguaggi, con la sola differenza che qui, essa deve fare i conti con una fertile tradizione storica, che non può essere elusa con facilità. Per questo gli sviluppi del “nuovo pop” in Italia si mescolano e si confondono con l’eredità lasciata da secoli di storia dell’arte. Di qui, l’insorgere di linguaggi capaci di guardare allo stesso tempo al presente e al passato, di codici visivi che tentano una difficile sutura tra i lasciti della tradizione italiana e l’orizzonte allargato della cultura globale.

Raggruppare questi linguaggi sotto la logora etichetta del “New Pop” significa, inevitabilmente, limitare la portata del fenomeno, riferendola unicamente a quelle espressioni che giocano il tutto per tutto sull’estrema riconoscibilità dei riferimenti e delle figure adoperate. In realtà, la nuova cultura pop non alimenta solo l’estetica del banale, che nel migliore dei casi diventa la forma più intellegibile e pervasiva di critica della società globale, ma anche tendenze opposte, che evidenziano la frantumazione e l’implosione dell’individuo e il suo bisogno di fuga negli universi paralleli dell’immaginazione e dell’incubo. L’utilizzo del termine Italian Newbrow per designare questo complesso e variegato scenario artistico, nasce quindi dalla fondamentale inadeguatezza del termine “pop”, incapace di restituire interamente la complessità e varietà di forme artistiche della cultura di massa del nuovo millennio. Newbrow è un neologismo utilizzato negli Stati Uniti da alcuni artisti della scena Pop surrealista, che non si riconoscono nella definizione “lowbrow artist” (cioè, artisti di basso profilo). Mentre il termine lowbrow designa esplicitamente le prassi artistiche che recuperano le iconografie basse (low) del fumetto, del tatuaggio, dei cartoni animati, della televisione, del cinema di serie B, della grafica punk e dell’illustrazione underground, il termine newbrow pone l’accento sull’aspetto di novità, rappresentato da un’arte antielitaria e aperta a un pubblico più ampio e variegato rispetto a quello tradizionale.

In un contesto sempre più segnato dall’indebolimento delle identità artistiche nazionali, la denominazione Italian newbrow, mutuata appunto dal vocabolario anglosassone, ha il vantaggio di rilevare l’aspetto extraterritoriale della temperie culturale formatasi in seguito allo sviluppo esponenziale delle tecnologie e alla diffusione planetaria di internet. Italian newbrow non è, dunque, un movimento o una scuola di pensiero, con caratteristiche rigide e definite, ma piuttosto l’indicazione di uno scenario ancora in via di formazione, in cui si coagulano molteplici istanze, talora contrastanti e contraddittorie. Si tratta di un panorama artistico in cui la pittura, dopo lungo tempo, sembra aver recuperato una posizione preminente rispetto a media considerati convenzionalmente più sperimentali, come la fotografia, il video, la performance e l’installazione, ma è anche una situazione in cui le specificità abbondano non solo sul piano formale e linguistico, ma anche su quello dei riferimenti e delle citazioni, che costituiscono, semmai, il terreno sul quale affiorano elementi del genoma italiano.

 

Metalinguismo e citazione

L’arte è per definizione metalinguistica, tautologica, autoreferenziale. Il tratto distintivo del metalinguismo pop è di essere strettamente intrecciato con la pratica della citazione e del remix di fonti iconografiche più o meno riconoscibili. I dipinti e i collage di Paolo De Biasi, ad esempio, sono costruiti per mezzo di una logica combinatoria che genera narrazioni incongruenti, ambigue, aperte a qualsiasi interpretazione. Frutto di un ripescaggio e insieme di un sabotaggio del repertorio iconografico degli anni ’50 e ’60, le immagini dipinte da De Biasi tracciano uno spazio incerto, non gerarchico, dove i dettami della fisica sono sostituiti da principi di funzionalità estetica. Personaggi, oggetti e architetture del recente passato si stagliano come episodi simultanei, privi di coerenza spazio-temporale, generando rappresentazioni paradossali ed enigmatiche, che assumono la forma d’improvvise epifanie. Al contrario, il citazionismo di Giuseppe Veneziano si basa sull’impiego d’iconografie banali e di facile reperibilità, sovente prelevate dalla storia dell’arte, dal mondo dei fumetti, della cronaca politica e dello spettacolo. Suo obiettivo è offrire all’osservatore un’immagine cinica e disincantata della società contemporanea, dominata dal gossip e dal potere mediatico ed economico. Attraverso la modalità tipica della sostituzione di uno o più personaggi dell’immagine originaria, il meccanismo del dejà vu diventa per Veneziano uno strumento per innescare curiosi e ironici cortocircuiti tra passato e presente.

I riferimenti di Michael Rotondi, invece, includono figure dell’immaginario di massa e schegge di memorie personali, elementi che convergono in uno stile narrativo sospeso tra realtà e finzione, in cui è lecito ravvisare tanto l’influsso della cultura underground, quanto la fascinazione per il folclore popolare. Con il suo stile sporco, evoluzione di un’Art Brut contaminata dall’attitudine punk, Rotondi ripercorre i miti della propria adolescenza, come le icone di culto del rock e della pop music, spesso creando installazioni formate da caotici accumuli di dipinti, disegni e feticci quotidiani.

Più affine all’estetica lowbrow è il lavoro di Massimo Gurnari, i cui recuperi iconografici spaziano dalle bislacche illustrazioni della cartellonistica circense alle tavole anatomiche del Seicento, dalle folcloristiche figurine dei tatuaggi vintage fino a certi celebri topoi della pop art americana, come i ritratti di Andy Warhol e Marilyn Monroe, proposti in una dissacrante chiave contemporanea. La giustapposizione, talvolta persino la crasi, tra icone di varia provenienza è, infatti, uno dei meccanismi compositivi prediletti dall’artista, capace di riassumere (e condensare) tutte le suggestioni della cultura urbana in una pittura originale, che miscela indifferentemente segni miniaturistici, campiture piatte, pattern astratti e interventi gestuali.

 

Attitudini folk. Il quotidiano fantastico.

Parallelamente a quel tipo di espressione artistica che Francesca Gavin ha definito post-pop art e che “usa immagini della vita quotidiana e dei media per raggiungere il grande pubblico”, si è sviluppata, soprattutto in pittura, una sensibilità opposta, interessata ad una rilettura surreale e fantastica del quotidiano. Charlotte Mullins, autrice del libro Painting People (Thames & Hudson, Londra, 2008), ha chiamato New Folk questa nuova attitudine, definendolo il primo stile artistico coerente emerso in seguito all’11 settembre. L’idea che accomuna gli artisti neofolk è di rappresentare la realtà attraverso metafore narrative che prendono a prestito temi e figure dal folclore e dalla tradizione popolare. Accanto all’arte figurativa neopop che ha segnato il passato decennio in sintonia con le evoluzioni della cultura di massa globale, anche nel nostro paese è sorta una corrente figurativa sostanzialmente affine a quella sviluppatasi negli Stati Uniti. Come i loro colleghi americani, alcuni artisti italiani hanno scelto di esprimersi attraverso uno stile semplice, carico di rimandi al passato e alle tradizioni popolari. Il nuovo folk italiano è contraddistinto da una forte vena lirica ed evocativa, che si riflette nella scelta di tecniche povere come il disegno, l’acquerello, il collage. Il disegno, soprattutto, diventa pratica centrale in quest’ambito, uno strumento con cui l’artista si connette direttamente non solo alla propria interiorità, ma anche all’antichità e a ciò che vi è di autentico e spontaneo nelle forme d’arte tradizionali. Nel volume Vitamin D, Emma Dexter afferma che “disegnare è essere umani” e sottolinea come il disegno sia la prima e più immediata forma di creazione d’immagini, quindi quella più prossima alla sorgente dei pensieri e delle emozioni e alla rappresentazione di pulsioni represse e immagini rimosse che abitano i bui meandri della psiche. Vanni Cuoghi è, in Italia, l’artista più rappresentativo di questa neonata sensibilità fantastica e intimista. I suoi acquerelli sono in parte ispirati all’arte psaligrafica, che attraverso l’intaglio e la piegatura di un unico foglio di carta produce rappresentazioni tridimensionali simili ai diorami. L’artista sospende i suoi personaggi di gusto vittoriano in uno spazio bianco, dove la prospettiva e i rapporti di grandezza sono suggeriti dalla posizione delle figure sulla superficie, ma al tempo stesso, contrappone all’economia minimale dei fondi uno stile calligrafico e prezioso, che evidenzia l’atmosfera tersa, rarefatta, nitida delle sue historiae attraverso particolari eloquenti, come la foggia degli abiti, il contrasto chiaroscurale e un’elegante riduzione cromatica.

Trae spunto principalmente dalle proprie esperienze Alice Colombo, che con un segno sottile e delicato intesse narrazioni minime, che lei stessa definisce come “stesure d’istanti di vita quotidiana in chiave poetica”. Le immagini disegnate dall’artista nascono, infatti, da una libera rielaborazione di episodi del suo passato, piccoli eventi e fatti prosaici che vengono inseriti in una cornice fantastica, in un paesaggio surreale, ritmicamente scandito dall’emblema del giglio, stampato su quel tipo di carta che le nonne usavano per foderare i cassetti di vecchi mobili.

I ricami di Diego Cinquegrana, eseguiti su scampoli di cotone nero e ricamati con una ridotta gamma di fili colorati. Ogni ricamo è delimitato da una cornice, un perimetro cavo adornato agli angoli da figure floreali, rune o svastiche, entro cui si distende una rappresentazione simultanea d’immagini altamente suggestive, ma di difficile decrittazione. Si tratta di figure enigmatiche descritte con uno stile asciutto e sintetico, quasi primitivo e collegate fra loro da affinità aleatorie e sottili analogie.

Ruota attorno a un assillo iconografico il lavoro di Marco Demis, che reitera il motivo della bellezza pubescente come una sorta di matrice originaria, un modulo da ripetere ad libitum. Le sue aristocratiche giovani dalla pelle nivea e dagli eleganti abiti retrò, sono meri simulacri, idoli che non rimandano ad alcun significato ulteriore. La ricorrenza tematica produce nella pittura dell’artista uno scarto, un dispendio entropico che genera ciò che Derrida definisce “differenza irriducibile”. Ma proprio in questa variazione impercettibile si profila la possibilità di un referente, che traduce il differenziale in un nuovo prototipo di grazia virginale.

 

Paura e catarsi. Il ritorno del lato oscuro

Il clima generale d’incertezza, le turbolenze dell’economia globale, i teatri bellici sparsi in ogni angolo della terra e la minaccia terroristica globale, hanno influito sulla coscienza delle nuove generazioni d’artisti, incoraggiando il recupero di atmosfere cupe e lugubri, che riflettono il lato oscuro dell’uomo contemporaneo. Il bizzarro, il deforme, il capriccioso, il grottesco, il mostruoso, l’ibrido influenzano in larga misura tutta la produzione pop contemporanea. Secondo Catherine Spooner, autrice del volume Contemporary Gothic (Reaktion Books, Londra, 2007), il gotico, come genere affine all’horror, racchiude (ed esorcizza) tutte le nostre paure, permettendoci di sentirci al sicuro nella vita reale.

Nelle opere di Giuliano Sale, dominate da un estenuato clima crepuscolare, da ambientazioni asfittiche e morbose, campeggiano, come lemuri dell’inconscio, personaggi inquieti e sinistri. L’artista esplora la dimensione umbratile e crepuscolare dell’uomo, rievocando lo spirito della grande pittura figurativa del Novecento. Come già altri artisti - da John Currin a Michaël Borremans fino a Lucian Freud - Sale ripercorre i generi del ritratto e del paesaggio, inscenando, con uno stile sicuro e rigoroso, ricco di suggestioni chiaroscurali, racconti bislacchi e raccapriccianti, che riflettono lo stato di deriva morale e spirituale dell’epoca contemporanea.

Introspettiva e autoreferenziale è l’arte di Silvia Argiolas, che tramuta paranoie, ansie e segrete pulsioni in una pittura visionaria ed enigmatica, accordata su toni acidi e registri espressionistici. Mescolando pennellate rapide e gestuali a interventi più dettagliati e descrittivi, l’artista costruisce una geografia astratta, in cui la natura assume le sembianze di paesaggi allucinati. Nel suo universo desolato, insieme disperato e struggente, si muovono spiriti vendicativi e violente incarnazioni, diaboliche personificazioni di sentimenti e impulsi che popolano la dimensione più profonda e antica della psiche umana. È il caso dell’installazione intitolata I miei punti deboli gialli, dove i personaggi dell’artista sono immersi in un’atmosfera aspra, dai toni quasi lisergici.

Multidisciplinare è, invece, l’attitudine di Elena Rapa, artista dedita alla pittura, così come al fumetto e all’illustrazione. Dalla contaminazione di questi differenti linguaggi, nasce, infatti, uno stile spurio, di difficile definizione, che ha più di un punto in comune con le ricerche americane di marca lowbrow, pur mantenendo uno specifico carattere italiano. Rapa oscilla tra utopia e distopia e, tradendo la sua predilezione per l’orrido e il mostruoso, fabbrica visioni in bilico tra fiaba e incubo, dove personaggi ipertrofici e bizzarre creature si muovono in apocalittici paesaggi fantastici.

 

Pattern painting e graphic style

Dopo anni di dominio delle tendenze artistiche più concettuali, anche il recupero dell’ornamento, grazie alla reintegrazione di pattern e texture in pittura e scultura, è diventato un fatto ricorrente. La rinata propensione verso la decorazione, intesa come strumento di godimento ottico, insomma come dispositivo di delizia e meraviglia dello sguardo è visibile nel lavoro di Fulvia Mendini, che adotta un linguaggio lineare e sintetico, influenzato dal graphic design, dall’illustrazione per l’infanzia e dal pop algido e aristocratico di artisti come Alex Katz e Julian Opie. I suoi ritratti mostrano soggetti con colli oblunghi, occhi grandi, bocche innaturalmente regolari. Sono volti al dominio della geometria. Se non fosse per l’abbondanza di accessori, che distingue un personaggio dall’altro, si faticherebbe a distinguerli. Sono, infatti, i vestiti, i cappelli, i gioielli, le acconciature a fare la differenza, tanto da indurci a credere che i ritratti altro non siano che un pretesto per riportare in primo piano il piacere miniaturistico per il dettaglio esornativo.

La predilezione per il graphic design si ritrova anche nella pittura di Tiziano Soro, che spesso dissemina le sue opere con iconografie vintage. La sua ricerca è basata sulla contaminazione tra due grammatiche antitetiche, da una parte la rappresentazione realistica, diciamo pure di marca fotografica, dall’altra una sintesi formale che include il gusto per pattern, texture e simboli segnaletici. Il risultato è straniante e allo stesso tempo accattivante, poiché l’immagine realistica, stagliata su uno sfondo fortemente connotato da elementi ornamentali, assume un valore quasi araldico, come avviene nelle opere intitolate LoveChick e Domenica delle Palme.

Una profusione di trame e orditi attraversa le opere di Eloisa Gobbo, velandone la natura fondamentalmente concettuale e dialettica. Per l’artista, l’uso di motivi floreali e geometrici, di silhouette e altre icone ripetute e moltiplicate corrisponde a una precisa volontà di riaprire il dibattito sulla dignità dell’ornamento nell’arte contemporanea italiana. Nei suoi lavori l’artista riprende l’accattivante bellezza dei fiori dipinti da Warhol, recuperando tutti i tratti salienti dell’estetica pop, come le tinte rigorosamente piatte, le linee di contorno marcate e l’uso di fondi retinici alla Roy Liechtenstein.

Lo scultore Diego Dutto s’ispira, infine, al design delle auto da corsa, ma il suo stile ha poco a che fare con la subcultura della custom art e delle hot rods. Figlio, piuttosto, dell’estetica post-human teorizzata negli anni Novanta da Jeffrey Deitch, l’artista torinese fabbrica oggetti in cui forme naturali e meccaniche si saldano in futuristiche nuove identità. Le sue sculture sembrano, infatti, il prodotto di una tecnologia avanguardistica, ma i soggetti sono spesso desunti dal mito o dall’osservazione del mondo animale e dell’anatomia umana.

 

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81294

di Igor Zanti

 

Amici, siete buoni cittadini? Sì lo siete! Allora marciamo verso la Bastiglia!”

Pierre Augustin Hulin

 

81294 è il numero di giorni che intercorrono tra il 14 luglio 1789, data in cui venne espugnata la fortezza della Bastiglia, simbolo del potere assolutista di Luigi XVI e dell’ancien régime, e il 10 febbraio 2012, giorno in cui le porte della pinacoteca civica di Palazzo Volpi a Como si apriranno per ospitare la mostra Italian Newbrow.

Per chi è uso agli studi di storia il 1789 è anche l’anno che rappresenta il passaggio dall’età moderna all’età contemporanea, il momento che segna il limite tra il mondo del passato, l’ancien régime, per l’appunto, e la contemporaneità.

Il 10 febbraio 2012 è però una data egualmente importante, una data che, mi auguro, sarà appuntata e riportata sui futuri manuali di storia dell’arte, che bisognerà mandare a memoria per comprendere lo stato e l'evoluzione dell'arte italiana, una punto fisso che dovrebbe segnare il passaggio da un piccolo mondo antico - che più antico non si può - ad un’epoca realmente e fattivamente contemporanea.

Forse le severe linee tosco-romane di Palazzo Volpi, che non lasciano spazio a nessuna concessione a quel barocchetto tipico delle dimore aristocratiche lombarde, non ricordano le possenti e merlate torri della fortezza della Bastiglia che dominavano una Parigi di impianto ancora medievale e inconsapevole del suo futuro hausmaniano, ma la vicinanza metaforica tra i due luoghi e tra i due avvenimenti è forte, anzi, fortissima.

Sessantuno furono le guardie francesi capeggiate da Pierre Augustin Hulin che espugnarono la fortezza parigina nel luglio 1789, e sedici - anche la cabala viene in nostro soccorso - sono gli artisti che Ivan Quaroni, novello Hulin, ha scelto per rappresentare l’afflato rivoluzionario dell’Italian Newbrow.

La battaglia che avrà luogo nelle sale di Palazzo Volpi non sarà, al contrario di quanto avvenne a Parigi, cruenta, ma avrà come campo di sfida un atteggiamento, un’attitudine, un variare del modo di pensare e sentire l'arte.

I cronisti, i giornalisti - non me lo auguro - all’indomani del 10 febbraio potrebbero annotare sui loro taccuini, come fece con molta poca preveggenza lo stesso Luigi XVI, la parola rien, o meglio, nell’italico idioma, nulla, quasi non fosse successo nulla, senza però rendersi conto che essere penetrati a Palazzo Volpi ed essersi militarescamente accampati nella quadreria storica, aver contaminato - ma di vera contaminazione si tratta? - le sale dove il contro riformato Morazzone dialoga con il genovese Magnasco, è un atto importante, è un segnale che non va sottovalutato, come si fece, in un primo momento, con la presa della Bastiglia.

La luce entrerà in questi luoghi che inevitabilmente e per necessità soffrono di fotofobia, e sarà la stessa luce che, trionfalmente, irrompe dall’ultimo atto del ballo Excelsior, la stessa luce del rosso sole dell'avvenire, una luce che non è lama sferzante e arrogante, ma delaturiana, morbida, avvolgente, intima, che invita alla conversazione, al gioco di carte tra bari, che è presagio dell’avvento di qualcosa e di qualcuno.

Perché se la rivoluzione francese fu rivoluzione non popolare, ma borghese, ed a tratti alto borghese, per non dire aristocratica, l’Italian Newbrow è rivoluzionario nella misura in cui ci si voglia rinchiudere nelle certezze di un’arte piccolo - o minimo - borghese, che privilegia i nonsense, o meglio l’incomprensibilità di una rassicurante cultura radical chic e tardo - o attardato - post concettuale.

Ci si dovrebbe bendare gli occhi o soffrire di una qualche grave affezione oftalmica per non comprendere che il Newbrow, e l’Italian Newbrow in particolare, sono categorie culturali ed estetiche con cui, inevitabilmente, d’ora in poi bisognerà confrontarsi e prendere in considerazione a livello critico.

Sono, infatti, l’espressione di un’urgente contemporaneità che trova vigore in una considerazione libera da preconcetti sulle fonti a cui abbeverarsi: i registri sono mutati e si sono contaminati, quello che è popolare - parola che è alla base del concetto stesso di pop - si mischia con facilità a forme più alte ed elitarie. Questa rivoluzione è stata promossa dalla diffusione delle informazioni e la nascita della rete stessa ha dato la possibilità di contaminare i linguaggi e di creare nuove relazioni e connessioni.

L’ingresso dell’Italian Newbrow in un museo come Palazzo Volpi non rappresenta solo un messaggio rivoluzionario e un riconoscimento istituzionale, ma consentirà di comprendere come la contemporaneità di questi lavori fondi le sue origini sul passato.

Il dialogo con le opere custodite nella pinacoteca illuminerà, infatti, con una nuova ed inconsueta luce la recente produzione del gruppo Newbrow, facendole assumere nuove sfumature, quasi fosse una sorta di lampada crimescope che evidenzierà le tracce biologiche dell’enorme patrimonio storico ed artistico italiano, tracce che, inevitabilmente, hanno contaminato e contaminano questi lavori.

È forte, infatti, in ciascuno dei sedici artisti il riferimento a quello che li ha preceduti; addirittura, in alcuni casi, vi è un vero e proprio recupero di influenze estetiche storicizzate. La pittura classica, la cultura neogotica, il folk, il biedermeier, l’illustrazione francese e inglese del XVIII e XIX secolo sono tutti ingredienti che vanno a comporre il succulento piatto Newbrow, insaporito da forti contaminazioni provenienti dalla pubblicità, dal fumetto, dalla cultura digitale e dal mondo della musica.

La stessa tendenza a mediare tra registri differenti, per quanto rimanga una caratteristica del contemporaneo, è al tempo stesso una forma di recupero di una tradizione del passato. Si pensi in questo senso all’originale opera di Jacques Callot o alla tradizione del disegno e dell’incisione galante o satirica a cui si dedicarono moltissimi maestri del passato, talvolta insospettabili. La novità sta nel fatto che, se nei secoli passati questo tipo di approccio, questa tendenza a mischiare registri differenti, risultava essere, molto spesso, relegata ad ambiti che potremmo definire secondari, più vicini al colto e raffinato divertissement che ai rigori dell’ufficialità, ora invece ci si può permettere di esprimersi con questo nuovo sentire anche in ambiti più aulici ed elitari.

Sarebbe però miope non registrare che i passi verso una piena accettazione del Newbrow siano ancora tanti: stenteranno a scomparire sorrisetti ed alzate di spalle di fronte a lavori erroneamente giudicati troppo semplici o leggibili da pubblici che hanno fatto della complessità manieristica e dell’intelligibilità rassicuranti blasoni culturali.

Vi è un’assoluta difficoltà da parte del contemporaneo a comprendere la propria contemporaneità. Lo spirito dei tempi, quello che i romantici tedeschi definivano Zeitgeist, è purtroppo materia per i posteri: l’hic et nunc non permette di vedere quello che avviene intorno a noi, siamo presbiti di fronte al nostro presente, però dobbiamo esser fiduciosi ed affidarci agli occhi di chi ci vede bene e lontano.

Come novelli cittadini dell’11° arrondissement abbiamo il privilegio di essere testimoni di un avvenimento straordinario, di qualcosa che si sta muovendo, che sta cambiando; avremo forse la possibilità, come privilegiati, di ragionare, nel nostro artistico immaginario, con un pre ed un post 10 febbraio 2012.

Era da tempo, forse dall’ultima transavanguardia, che nel panorama artistico italiano non si affacciava qualcosa di nuovo, non vi fossero segni di vita pulsante, ma solo un eterno ed ecologico riciclo di quanto è già stato fatto ed è già stato visto. Abbiamo dovuto aspettare proprio questa anonima data di febbraio perché il nostro amato suolo patrio desse segni di vita intelligentemente artistica.

Fortunatamente non sono bastati i quintali di sale gettati da una certa critica pseudo chic e spocchiosetta per inaridire il fertile terreno dell’Italian Newbrow, che si presenta ai nostri occhi in tutto il suo fertile vigore, baciando la mano all’anziana dama del passato mentre strizza l’occhio alla biondina e formosetta signorina del futuro.

 

 

 

Scheda della mostra

Ascolta

Trascrizione fonetica

Titolo Italian Newbrow

A cura di Ivan Quaroni

Direzione organizzativa Nicoletta Castellaneta

Progetto di Fondazione Club Lombardia www.clublombardia.it

Sede Pinacoteca Civica Palazzo Volpi, Como - Via Diaz, 84

Date 11 febbraio – 25 marzo 2012

Inaugurazione Venerdì 10 febbraio, ore 18.30

Orari da martedì a sabato 9.30 - 12.30 / 14 – 17

mercoledì orario continuato 9.30 - 17. Domenica 10 – 13.

Chiuso lunedì.

Ingresso € 3 (il biglietto consente di visitare anche la collezione permanente)

Catalogo stampato da E-Graphic s.p.a. Verona, con testi di Ivan Quaroni e Igor Zanti

 

 

Informazioni al pubblico Pinacoteca Civica Palazzo Volpi

Tel. 031.269869 – www.museicivici.comune.como.it

 

Ufficio stampa NORA comunicazione - Eleonora Caracciolo di Torchiarolo

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