Pensiero, io non ho più Pensiero, io non ho più parole. - Ma cosa sei tu in sostanza? - qualcosa che lacrima a volte, - e a volte dà luce.... - Pensiero, dove hai le radici? - Nella mia anima folle - o nel mio grembo distrutto? - Sei cosi ardito vorace, - consumi ogni distanza; - dimmi che io mi ritorca - come ha già fatto Orfeo - guardando la sua Euridice, - e cosi possa perderti - nell'antro della follia.
Alda Merini (1931-2009) è stata un notevole personaggio milanese. Scrisse moltissime poesie e aforismi, con le più diverse ispirazioni, sino alla fase mistica, l’ultima della sua vita, avvenuta a sorpresa. Questa fase è piena di abbandoni a una spiritualità che non è di maniera, ma è diretta e genuina. E’ candida.
La Merini ebbe la fortuna di essere stata scoperta, come poetessa particolare, da Giacinto Spagnoletti, noto critico dell’epoca (lei aveva quindici anni) e la sfortuna di credere di poter vivere con la poesia. Negli anni Ottanta, ignorata dal mondo letterario, temette che la sua parabola fosse finita. Ripiombò nella depressione (soffriva di sindrome bipolare) e nonostante le attenzioni del secondo marito, fu ricoverata in una casa di cura per malattie mentali, a Taranto, per la seconda volta, dopo il ricovero al Paolo Pini di Milano per dieci anni, dal 1962 al 1972.
La nostra poetessa ha avuto molti ammiratori e diversi amici, Giorgio Manganelli specialmente, nei primi anni, ma più di tutti Alberto Casiraghi, editore della più bizzarra delle imprese letterarie, i volumetti (plaquette) della Pulcinoelefante (di veramente speciale, la loro semplicità e sincerità). L’amicizia con Casiraghi era vera, priva d’interessi spiccioli. La Merini trovò un conforto lungo e duraturo fra le mura della Pulcinoelefante. Sono centinaia i suoi aforismi e le sue poesie editati da Casiraghi.
La caratteristica di Alda Merini è probabilmente l’energia e l’entusiasmo che mette in ogni sua composizione. Queste due cose, energia ed entusiasmo, prevalgono sullo stesso ordine compositivo, rendendo accettabili più piani concettuali nello stesso spazio. La poetessa passa da un tema a un altro con estrema disinvoltura e li sistema nella composizione a forza. E’ un modo di procedere piuttosto abituale perché, in lei, l’urgenza di dire ha la meglio sul pensiero ordinato, sulla razionalità che interviene a “mettere a posto” le idee e i sentimenti.
Il furore, ecco, il furore temperato da considerazioni segrete che esplodono a tratti, di cui vengono resi noti gli estremi: l’inizio e la fine. Nel mezzo la Merini sembra porre intermezzi edulcorati, tradizionali, quasi con fastidio per la fretta di esprimere qualcosa di memorabile perché autentico, vissuto con passione fremente, istintiva, intelligente.
La Merini sembra dire che la sua poesia è valida così come si presenta, senza bisogno di correzioni letterarie convenzionali. E’ di sicuro un atto di presunzione involontaria, giustificata, magari, dalla vivezza dell’espressione; ovvero si rimane rapiti dalla forza della parola, dall’imposizione aggressiva, dolcemente aggressiva, del punto di vista, dell’improvvisazione.
Certo, la poetessa milanese persegue lo scopo finale di una positività rassicurante, che la sua fantasia, però, non le permette di raggiungere. Sta qui il suo timore di squilibrio che, lasciato solo a se stessa – una donna in fondo fragile -, viene trasformato in disarmonia mentale tradotta frettolosamente come pazzia.
Per disarmare la pazzia, di cui mostra costantemente di avere un grande terrore, la nostra poetessa prende il termine di petto e cerca di disarticolarlo dal di dentro, allontanandolo dalla sua persona. La Merini ha sempre detto d’aver imparato molto dalla reclusione negli istituti psichiatrici, ma le sue dichiarazioni sembrano più tentativi di rimozione del male (in definitiva non ammesso) che la validità dell’esperienza. Rimuginare le proprie condizioni senza un confronto normale è difficile credere che porti a un insegnamento significativo. Se s’impara qualcosa da una reclusione, è solo certa limitatezza umana.
Alda Merini cercava disperatamente considerazione. Lo sfogo poetico è una richiesta di accettazione della propria sensibilità, della propria persona, non della persona fisica, ma di quella morale. La nostra poetessa si apriva, ma temeva di non aprirsi abbastanza. Del resto, a parte le sceneggiate para-letterarie e o addirittura mondane, fatte passare per chissà quali incontri culturali, lei non veniva veramente ascoltata. Era costretta ad adeguarsi, ma poi la forzatura le procurava delusione. Da qui il suo comportamento a volte borderline.
La Merini era povera, sul limite della miseria più nera, altro che fama e gloria! Ed era sola. Senza l’amico Casiraghi sarebbe finita fra le braccia della disperazione. Il sistema non è amico dei poeti. Non sa neanche più bene cosa sia la poesia. S’incuriosisce dei personaggi. Più sono strani e più vengono esibiti. Gli si danno medaglie e poco pane. Ne sa qualcosa anche Alberto Casiraghi: tutti corrono da lui (anche grandi nomi) per farsi stampare la poesiola del momento e nessuno soccorre la casa editrice. Nessuno vede i problemi della Pulcinoelefante, neanche con gli occhiali cerchiati d’oro. Questa legge era ancora più implacabile con la Merini.
Numerosissime le raccolte poetiche della poetessa milanese. Forse troppe. La poesia, come si sa, vuole discrezione, contenimento. Il grande Callimaco, forse bibliotecario della famosa biblioteca di Alessandria, raccomandava di scrivere poco (fu tra coloro che praticamente inventarono la poesia, ricavandola dal poema, concentrandolo). Alda Merini ha invece scritto moltissimo, ripetendosi inevitabilmente. Ma la sua schiettezza e la sua profondità naturale brillano magnificamente.