Paolo Renza: l'arte come comunicazione mediatica? Il regno del banale.

 

Paolo Renza: l'arte come comunicazione mediatica? Il regno del banale.

 

Paolo Renza vive e lavora tra Napoli e Milano.

Paolo, tu nasci e ti formi come scenografo, anche se in realtà durante la tua formazione e il tuo percorso artistico hai spaziato e sondato un poco tutti i limiti di genere dei linguaggi dell’arte, quanto della tua flessibilità d’artista è da ricondurre alla tua formazione napoletana?
Ti chiedo questo, perché riflettendo sul percorso comune della nostra generazione di artisti napoletani, comincio a configurarla, come la generazione dell’arte dell’arrangiarsi con i linguaggi dell’arte.

Sono partito dalla scenografia come formazione accademica, ma ho avuto la possibilità di spaziare dalla conoscenza all’ applicazione di tecniche e materie sempre nuove.
La mia curiosità mi ha portato negli anni a sondarne i limiti applicativi, veicolandoli verso la materializzazione delle mie idee.
La conoscenza e la frequentazione degli artisti, molti dei quali miei amici che già operavano nel campo dell’arte, nelle varie discipline, svegliava continuamente in me stimoli per approdi sempre nuovi.
Il mio primo approccio pre accademico è avvenuto proprio attraverso la scultura, partecipando anche a simposi estivi di carattere provinciale.
Nella misura delle mie arrancate possibilità economiche e di spazi naturali a questa disciplina nella città partenopea ho cercato di portarla avanti sfruttando anche altri canali.
La scenografia, che non si discostava dalla scultura, nel senso di far vivere le proprie idee all’interno di un contesto spaziale ben studiato, mi è sembrata sin dall’inizio il giusto compromesso a ciò che cercavo al momento.
Non mi sono mai posto, il problema di rientrare all’interno di uno schema ben preciso di linguaggio, o di restare ancorato ad uno di essi, ho preso da tutto ciò che mi circondava, quello che più mi piaceva, che mi emozionava e l’ho restituivo secondo  i miei tempi e possibilità.
Certamente il linguaggio che dominava allora, attraverso la materializzazione dei lavori e che uscivano fuori dalla realtà accademica, era dati dal solo  confronto con i miei coetanei che praticavano l’arte del fare.
Purtroppo ho vissuto in un periodo, quello della metà degli anni novanta, dove la città con i suoi eventi, all’interno dei suoi spazi culturali vivevano parallelamente e senza mai incontrare quella accademica.
I cultori di quest’ultima erano da svecchiare, poiché ancorati alle proprie realtà troppo individualistiche e ad una scatola accademica che non ha mai dialogato ( almeno durante gli anni da me frequentati) con l’esterno, limitandone i linguaggi espressivi, dandoci sempre meno strumenti per poterci meglio rapportare con un mondo in visione di una globalizzazione.
Ecco perché negli anni, questa formazione accademica mi ha portato a conoscere sempre più artisti, me compreso che cozzavano con le realtà esterne dell’arte, quelle delle gallerie e del mercato.
Nel mio individualismo,  oggi presenzio tra le idee e il fare che  si materializza nella forma pura del piacere personale, cosa che penso essere alla base di tutto, prima ancora di una discussa formale sentenza.

          
Vivi e lavori tra Napoli e Milano, due capitali dell’arte contemporanea in Italia, sempre che in Italia si possa ancora parlare di capitali dell’arte, cosa muta tra le due realtà territoriali?
Come le due comunità interagiscono con le dinamiche e i processi dell’arte contemporanea e con gli artisti residenti che le determinano?

I giovani artisti, tra cui molti napoletani nostri coetanei sono fuggiti all’estero, proprio perché  manca il senso in Italia di una politica d’internazionalizzazione,  della promozione, produzione e valorizzazione della propria arte.

Si pensi solo alla forte capacità organizzativa e di promozione svincolata dalla gretta politica locale che posseggono le altre nazioni, che riescono, come nel caso del British Museum a Londra per la mostra su Pompei, a realizzare un numero di visitatori in pochi mesi maggiore, di quello dichiarato in un anno dal nostro museo archeologico nazionale.
In Italia ci sono luoghi e non capitali dell’arte, le capitali sono altre, quelle dalle quali noi dovremmo apprendere il senso del fare.
Quando ritorno a casa dopo un viaggio trascorso in una delle città come Parigi, Berlino, Londra, allora noto maggiormente la differenza, la distanza, si evince anche dalla sola impostazione di una retrospettiva museale.
Mi chiedevi di Milano e Napoli, le considero città differenti, sia sul piano del rapporto urbano, paesaggistico, che sociale, ed è naturale per quanto mi riguarda che il frutto di un lavoro artistico dipenda anche dagli elementi che ti ho elencato.
La prima è una città nella quale vivo da anni e dove le attività culturali e la loro promozione è in continua crescita, dove si organizzano retrospettive dei grandi maestri dell’arte e personali degli artisti contemporanei, dove a partire dall’accademia di Brera i giovani artisti possono ammirare e studiare da anni opere bellissime che vanno dal 400’ al 900’.
Sicuramente sul piano della promozione si muovono differentemente, ma non per questo resta diversa sul piano dell’investimento sui giovani, sui quali si punta sempre meno, mantenendosi alti puntando sugli quelli più noti.
Concludo, puntualizzando che partecipo sempre più ad esposizioni di opere di giovani artisti, dove si evince la mancanza di spirito, coinvolgimento, ironia, e non ultima di provocazione, i lavori sono razionali, ricercati nella tecnica e puliti nella forma, rendendoli alla fine più un veicolo decorativo che di messaggio.

 Il tuo rapporto con la scultura, la pietra e la materia sembra rafforzarsi con il passare del tempo, in questo secolo della ipertrofia della comunicazione digitale e del bidimensionale, cosa è che ti spinge nella direzione diametralmente opposta? Mi riferisco anche a certi tuoi stilemi, che  recuperano e citano l’origine dei linguaggi dell’arte.

 Viviamo in un momento storico e sociale dove, trasmettere attraverso qualcosa che non abbandona il senso della realtà, del concreto, del piacere di toccare, emozionare, possa realmente riportare alla luce la voglia di uscire da quel mondo chiamato cyber spazio.
      La comunicazione attraverso i media, viene sempre più banalizzata, ridotta, scarnita all’osso,  informazioni provenienti da tutto il mondo, abbreviate attraverso messaggi e immagini molto spesso manipolate.
     Attraverso questi mezzi ci stiamo allontanando dalle cose reali, terrene, per questo non ho mai abbandonato l’idea di usare la materia, toccarla con le mie mani e da essa emozionarmi durante lo svolgersi del mio creare.
      La  scultura deve ritornare a presenziare con forza tra la gente, deve inondare, stupire, apparire nei luoghi della quotidianità e raccontare, ma anche bloccare, impedire che il corpo immerso nella sua routine si fermi per ovviare, reagendo mentalmente ad una semplice  provocazione.
      Ecco perché in questi ultimi anni mi sono avvicinato alla realizzazione di  steli o semplici teche che potessero immergersi e co-partecipare con il contesto urbano, portando con sé un messaggio attraverso l’uso di semplici figure o arcaici segni incisi o scavati nella materia.

Mimmo Di Caterino

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