Le schegge di Peter Altenberg

IDEALI. Riprodursi?! Genera piuttosto colui che non sei potuto diventare tu.

 

Peter Altenberg (Richard Engländer, 1859-1919) era definito, simpaticamente, il “bohémien dei bohémien”. Viveva preferibilmente in uno dei caffè più famosi di Vienna (Café Central”), dove si faceva arrivare persino la posta. Non era un benestante. Si faceva mantenere da amici ed estimatori – lui non chiedeva - che gli pagavano addirittura l’affitto di casa. Frequentava le menti austriache più brillanti del tempo: Karl Kraus, Gustav Mahler, Adolf Loos, Arthur Schnitzler (“Giovane Vienna”, Simbolismo).

La frase riprodotta in apertura appartiene a uno dei suoi numerosi e vari scritti (pensieri, aforismi, brevi narrazioni) contenuti in un volume riassuntivo, di oltre quattrocento pagine, a cura di Giuseppe Farese, “Favole della vita. Una scelta dagli scritti”, edito dalla Biblioteca Adelphi. Si tratta di una sorta di antologia dello stile di Altenberg, dove campeggiano le osservazioni minute, le critiche acide (e bonarie) delle cose umane e dove brilla un amore incontenibile per la parola scritta.

Il proprio pseudonimo, Richard Engländer, lo ricavò dalla cittadina sassone di Altenberg, mentre Peter lo prese dal soprannome con cui chiamava la sua prima donna, che poi lo lasciò. La scelta rispondeva ad un’esigenza di eufonia che lui, come intellettuale convinto, non poteva tralasciare. Meglio se al bel suono si univa un richiamo affettuoso: così il Nostro divenne definitivamente Peter Altenberg.

Per l’intellettuale austriaco la parola scritta possiede qualcosa di sacro, di conseguenza sacro diventa il concetto espresso. Il tutto, nel suo caso, è un insieme lieve e agile che con giri e rigiri opportuni (cioè piacevoli e incisivi) giunge a considerazioni particolarmente e notevolmente suggestive. Il nostro scrittore è diretto, è spontaneo, ma i suoi interventi hanno ben poco a che fare con spinte emotive. E’ la sua raffinata sensibilità a prevalere e a trasformare l’intervento in occasione di analisi dell’argomento prescelto.

La massima preoccupazione di Altenberg è quella di offrire una buona morale. Non una morale tradizionale e neppure una morale assoluta, ma l’idea di un impegno di questo tipo, passando da un serio processo di riflessione. In questo senso, il nostro scrittore ribalta le regole della cara, vecchia Austria (di cui vede la fine) e, coraggiosamente, passa alla visione di un mondo nuovo, dove la rivoluzione continua conta molto più del pur rassicurante conservatorismo.

Del resto, la conservazione mitteleuropea ha portato, una volta uscita dal letargo della Belle Epoque, al disastro della guerra mondiale, al crollo di una civiltà intera, all’incertezza di un futuro ultramaterialista. Non occorre reagire con una morale responsabile a tutto questo? Altenberg pensa di sì, anche se è diffidente, anche se è demoralizzato (ah il decadentismo!), e per questo sì egli si sottomette volentieri allo stoicismo, offre il petto, si spari pure a salve!

Facezie a parte, egli evidenzia con molta efficacia il rovescio della civiltà imperiale di Vienna. Individua le ipocrisie, i compromessi intellettuali, l’inerte accademismo, la sovrabbondanza di frasi fatte e il dominio di una morale modesta, fatta solo di apparenza in quella che è la capitale europea dell’arte e della cultura insieme a Parigi. Vive la crisi di quel sistema da una posizione apparentemente distaccata.       

 

Nella realtà quasi si nasconde di fronte a certa enormità di cui si rende conto, come se non vi appartenesse. Quindi la esplora e la rivela con animo addolorato, ponendo il suo dolore nell’orgoglio di una consapevolezza che in qualche modo lenisce la sofferenza e anzi la supera a favore di un ideale dialettico che spiazza la bassa ovvietà imperante.

Quest’orgoglio, permette ad Altenberg un impegno ancora maggiore, e cioè l’indagine nella questione umana vera e propria, di là della contingenza. Ne viene una specie di sconforto che soltanto una grande e improvvisa indulgenza verso le cose umane riesce a contenere. Tutto ciò induce lo scrittore austriaco a elaborare considerazioni sul destino dell’uomo.

Il Nostro vede l’uomo perdente, nonostante tutte le acrobazie, e per questo non si stanca di ironizzare sulle pretese dell’intelligenza umana di arrivare a delle conclusioni. Nulla è veramente definibile, nulla è scontato, tranne una certa coscienza di passivo spettatore dell’esistenza. A questo punto, Altenberg pensa a una soluzione consistente nella forza delle parole e nella possibilità che esse danno di comporre ipotesi e tesi, entro le quali lo spirito dell’uomo trova uno sfogo accettabile, anzi per molti tratti convincente, non importa con quale filosofia di vita: importante è partecipare a ciò che si afferma e non si afferma, alle fantasie, alle allusioni e alle certezze continuamente rinnovabili. Peter Altenberg sembra danzare su tutto questo, con grazia infinita, attento a non cadere né a scivolare con nonchalance.   

 

 

        

Dario Lodi

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