LE PREVISIONI METEO SULLA RESISTENZA DEL MINIMALE

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Dal 26 Settembre al 16 Novembre 2013, presso la Galleria “Raffaella Cortese” di Milano era stata allestita la mostra Helen Mirra. L’artista statunitense ama il minimalismo estetico. Le sue installazioni hanno più materiali “d’umile” riscoperta: quali le coperte di lana, i teli di lino e le strisce di cotone. Precisamente, Helen Mirra dapprincipio compie una camminata, annotando le suggestioni del momento. L’ambiente naturale sarà influenzato dal carattere dell’artista. In seguito, le suggestioni della camminata appaiono in trascrizione, sulle strisce di cotone. Esteticamente, Helen Mirra prova ad esibire una “meteorologia”… del minimalismo. Se la forma od il colore “si racchiudono” in se stessi, persa l’intensificazione del loro rappresentarci qualcosa, allora quelli “avverranno” e… basta. Tramite il minimalismo, l’arte sembra precipitare. La valenza estetica si potrà unicamente “pre-vedere”. Nel minimalismo, l’arte si percepisce come già “bella e pronta”. Helen Mirra annota le “suggestioni” del momento, prevedendo che quelle possano evolvere, mediante una sorta di “sillogismo” naturalistico. Nella striscia di cotone dal titolo Hourly field notes – Dakesawa, ad esempio, si legge inizialmente che la montagna avrebbe un versante aranciato, con la vetta oscurata dalle nuvole. Nel minimalismo del paesaggio (persa la distinzione fra i boschi, i prati, le rocce, le nevi ecc…), la nostra presenza si farà percepire solo “sulla previsione” di se stessa. Il camminamento servirà a “rischiararci”, evoluti ad apparire come “belli e pronti”. Consideriamo il “minimalismo” del classico sillogismo, in filosofia. La conclusione quasi ci parrà bella e pronta, dopo aver “rischiarato” fra di loro le due premesse. L’arrampicata dell’artista aprirà la vetta della montagna, contro l’oscurità del suo annuvolarsi. E’ la percezione minimale d’uno scenario, in cui evolva la mera previsione “d’appartenere ad un certo ambiente”. All’inizio, la montagna pare solo oscurata (dalle nuvole). Alla fine, essa si “rischiarerà” nella sua “precipitazione”, dopo aver utilmente premesso che “si cammini” (si viva) nell’ambiente… per aprirne “lo scenario” (evolvendo come “belli e pronti”). La condizione umana è sempre finita. Noi possiamo solo prevedere che il nostro ambiente di vita “si rischiari” sino a… racchiuderci (quando la verità universale si percepirà come “bella e pronta”). Ciò che si conosca perfettamente non ha più bisogno d’essere giustificato. La verità si dà letteralmente nello “scenario” di se stessa, e “precipitando”.

Per il filosofo Gilles Deleuze, l’arte “resisterebbe” alla comunicazione. Il mittente implica immediatamente il destinatario. L’arte però nega continuamente il “riconoscimento” di se stessa. E’ la percezione d’una resistenza. La forma, come insegnava il filosofo Aristotele, assicura che qualcosa possa attuarsi. Nell’arte, si conoscono le avanguardie “storiche” (del primo Novecento). Queste avevano espressamente negato di rappresentare una forma (così da attuarla, tramite il “controllo” del nostro concettualismo). Tuttavia, solo taluni artisti favorirebbero la percezione d’una “resistenza” estetica. Per Deleuze, ad esempio il pittore Bacon avanzava il caratteristico figurale. Là, tutta la carica espressiva doveva riconoscersi “nel mancato appoggio” a se stessa. Così, le figure si contorcevano sulla loro esteriorità. Parimenti, il drammaturgo Beckett amava la parola soltanto “balbettante”. Chi resiste a qualcosa, proverà sempre a farla rientrare in lui. Per il filosofo Adorno, l’arte doveva soprattutto negare il suo “riconoscimento” per la massa. La società contemporanea tende a banalizzare ciascuna forma di comunicazione. Per Adorno, solo la percezione del perturbante (dello shock) resisterà al predominio della massa. Una situazione dove letteralmente i nervi “balbettino”, e l’animo “si contorca”.

Nella striscia di cotone Hourly field notes – Dakesawa, la trascrizione delle suggestioni (dopo un viaggio in Giappone) è stata “incolonnata”, rispettando la diversa lunghezza delle frasi. L’arte si percepirà davvero in via “precipitata”, avendo una configurazione “a tacche”. Misurando qualcosa, noi sempre ne “resistiamo”. Simbolicamente, l’uso del tono blu dovrebbe consentire al nostro sguardo di rischiararsi per “racchiudersi”, fra il “rilassamento” del cielo serale. Le “tacche” testuali quasi ne aprirebbero “lo scenario”, tirate l’una dopo l’altra. Nella striscia di cotone Hourly field notes – Yakedake, Helen Mirra racconta d’aver camminato sulle scale, saturando nel blu del crepuscolo le “scintille” degli aceri rossi e la “brezza” sulfurea d’un vulcano. Realisticamente, il “colonnato” della foresta sarà stato “contorto”: dal cielo fumante. Ascesa alla vetta, l’artista non avrebbe rappresentato la sua “precipitazione” nella natura. Lo “scenario” riposante della montagna che “tiri” il Cielo (grazie ai vari pendii) si percepirà solo saturandosi. C’è ancora il problema estetico della forma o del colore che “resista” a se stesso. La rappresentazione della natura parrà massimamente concentrata, nel suo accadere “bello e pronto” (a precipitarsi). Qualcosa che sfugga alle “misurazioni” dello sguardo. Saturando qualcosa, noi la rappresentiamo al massimo di se stessa, resistendo alle “tacche” della sua esteriorità. Helen Mirra a Milano aveva installato pure la striscia di cotone Hourly field notes – Tokugotoge. Di colore verde, questa ci mostra sette frammenti, lasciati a seguirsi in longitudine. Qualcosa che strisci ha una comunicazione solo “difettosa” col suo spazio. Là, noi percepiamo sempre una ritrazione. Camminando, l’artista annota il vapore sopra il lago Taishoike, le cui spiagge avrebbero le rocce a cristalli di ghiaccio. Esteticamente, ci sarebbe un ambiente da percepire “precipitante” nella sua ritrazione. Qualcosa che evapori, resistendo all’esteriorità nella “convulsione” di se stessa, quasi apparirà come “bella e pronta”, racchiudendo il nostro sguardo. I cristalli di ghiaccio invece indurrebbero la materia virtualmente “a balbettare”. Quelli avranno le schegge, in cui la resistenza all’esteriorità avvenga dalla “precipitazione” di più strisci. L’artista, scesa dal monte Tokugotoge, vorrà tornare a bagnarsi, benché al caldo. E’ la riproposizione d’un “sillogismo” meteorologico. Il freddo lago Taishoike evidentemente “risalirà” come il monte Tokugotoge, avendo il vapore, la cui cristallizzazione poi potrà riflettersi, dal “riscaldamento” nella vetta assolata. Più astrattamente, nel sillogismo accade che le due premesse “striscino” sulla propria veridicità. Al massimo noi potremo “rischiararle”, riflesse tramite la loro conclusione. In chiave fenomenologica qualcosa che si pre-metta sarebbe messa… “di striscio” (dove l’attecchire sembri il “precipitare” che resista a se stesso). Nel sillogismo, la necessaria conclusione forse si percepirebbe in via “vaporosa”. Essa richiederà la “contorsione” fra le due premesse, meramente nei loro “strisci”. Il sillogismo si può percepire nel “gira e rigira” d’una tautologia. Ma è qualcosa di caldamente “vaporoso”, anziché di freddamente “fumoso”, in quanto si raggiungerebbe un guadagno conoscitivo. La “meteorologia” sillogistica di Helen Mirra, ultimato il suo camminamento, comporterà favorevolmente che il lago ghiacciato scintilli (tramite la vitalità verdeggiante d’un pioppo). L’acqua diventerebbe caldamente riposante, così da farci il bagno.

Fulvio Carmagnola sostiene che per Deleuze ogni ente si dia come tale “allargandosi” nella sua esteriorità, di cui avrà un’esperienza. Quest’ultima rientrerà nel cosiddetto piano d’immanenza. L’arte per Deleuze sarà critica nella misura in cui esibirà “l’esperienza” di qualcosa, “allargata” alla propria esteriorità. Gli enti (sia materiali sia astratti) accadono sempre concatenandosi. L’arte inoltre parrà clinica, esibendo la “resistenza” di qualcosa, nel suo “allargarsi” verso l’esteriorità. Gli enti sempre accadono, avendo una precisa situazione. Quelli inevitabilmente “s’allargano” alla loro esteriorità, ma tramite una “linea di tendenza”. L’arte prima mostra il piano d’immanenza d’un certo ente, salvo poi resisterne alla “consistenza” (stabilizzazione). Quasi si percepirà una comunicazione che “non s’appoggi” a nulla. Ciò che resiste, immediatamente deve sospendersi. L’arte esibisce le sole “inclinazioni” d’un ente che esperisca se stesso (“allargandosi” alla sua esteriorità). Il critico più semplicemente traccerebbe il piano d’immanenza (in cui la situazione ambientale stabilizzi qualcosa). Il clinico invece ne “libererà” la resistenza, sospendendo ogni riconoscimento d’una forma, contro lo sfondo.

A Milano, Helen Mirra aveva mostrato pure l’acquerello su lino Hourly directional field notations – Arizona Sonoran Desert. Il consueto incipit d’una camminata è suggestionato da talune impronte (di colore verde). Esse ci riconducono (realisticamente) ai materiali recuperati per strada. Esteticamente, l’esplorazione si può percepire nel suo “piano d’immanenza”. In quella, sempre l’ambiente circostante viene “scavato”. Grazie all’esplorazione, noi “giriamo intorno” alla nostra “resistenza” sull’esteriorità. Anche l’artista avrebbe “scavato” il telo di lino, visualizzandone le varie impronte. Ma è possibile percepire la più riposante camminata nel suo “piano d’immanenza”? In quella, bisogna calpestare il suolo. Soprattutto l’impronta del piede permetterà in chiave visiva il nostro “allargamento” sull’esteriorità. Nel contempo, però, torna pure la fenomenologia della resistenza. Un’impronta non s’appoggia a nulla, in quanto appena scavata. Essa sarà percepita in via sospesa. L’impronta d’una figura quasi ne comporterà il “balbettamento”. E’ la resistenza al camminamento, che si farà “liberare”… sotto “l’inclinazione” di se stesso. Simbolicamente, Helen Mirra dipinge le sue impronte col tono verde, caro al naturalismo. Il camminamento servirà a raccogliere tutte le “inclinazioni” del vissuto (ove ciascuno cerchi di realizzare principalmente se stesso).

 

P.S. Courtesy per le fotografie sulle opere in mostra: Helen Mirra e Galleria "Raffaella Cortese"

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