A Venezia, dal 30 Marzo al 15 Luglio, presso la Casa dei “Tre Oci” (nell’isola de La Giudecca), era allestita una mostra del fotografo Elliott Erwitt. Nato nel 1928 a Parigi, egli preferisce scattare in bianconero, ed in chiave concettuale “sorprende” le figure ritratte: in pose, espressioni od azioni che lo spettatore, poi, percepirà ironicamente. La mostra veneziana di Elliott Erwitt s’intitolava Personal best, dandosi allora una qualità antologica. A curarla, era stato il noto critico Denis Curti. Alla fine, ben 140 fotografie di Erwitt (fra le sue più famose) arrivarono alla Casa dei “Tre Oci”. Una sede voluta dall’Associazione culturale “Civita Tre Venezie”, vera promotrice della mostra.
Nelle fotografie di Erwitt, l’ironia si percepisce entro le situazioni della vita comune. In via fenomenologica, una gaffe può accadere a qualcuno che abbia davanti a sé un pubblico, e questo certamente responsabilizza. Non si tratta d’una situazione normale. Infatti, chi “ha tutti gli occhi puntati addosso di lui” a volte può commettere la gaffe tradendo un suo stato d’ansia. Erwitt invece cerca d’immortalare una più semplice e “divertita” ironia. Questa accadrebbe nella normalità delle situazioni vitali, quando manchi l’onere d’una responsabilità in pubblico. L’ironia nelle pose, nei gesti e nelle espressioni (tanto delle persone quanto degli animali) sarà ai più quasi “nascosta”. Solo Erwitt, nella sua arguzia d’immortalare la realtà (quando la fuggevolezza dell’immagine può universalizzarsi, avendo un surplus simbolico), percepirebbe che questa, se guardata bene (meglio), ci farà sorridere. L’ironia delle esperienze vitali dunque avviene “creativamente”. Essa va scorta, sotto l’apparenza d’una normalità esistenziale. Ciò è specialmente “problematico” quando Erwitt si mette ad immortalare le persone economicamente disagiate, o peggio emarginate dalla società. Troppo facilmente non ci accorgiamo di loro, se abbiamo la fortuna di vivere nella normalità. In tali fotografie, quanto l’ironia di Erwitt eviterà “d’infierire”? Frequentemente, le persone disagiate od emarginate s’inquadrano accanto a simboli del benessere “normale” (generale). Questi hanno una loro “forza percettiva”, che tuttavia finisce per “rivolgersi contro di noi”. Nella fotografia Untitled - California Pasadena 1963, ad esempio, tre donne “occupano” una panchina (due in piedi, una sedendosi). Tutte avrebbero una posa “disagiata”. Di solito evitiamo d’alzarci in piedi sopra la panchina… In mezzo, la donna seduta “poserebbe normalmente” non tanto per sé, bensì facendo riposare un bimbo. Quest’ultimo è stravaccato, continuando a percepirsi entro “l’occupazione” della panchina. Dietro le donne, compare una rete metallica, delimitante un parcheggio. Là è appeso un cartellone, avente una scritta a caratteri cubitali. Leggiamo che si radunano le automobili delle persone dichiarate scomparse, in attesa d’incontrare finalmente i loro familiari. I caratteri cubitali conferiscono al cartellone una “forza percettiva”, che fatalmente “si scaricherà” contro di noi. Forse le tre donne non saranno socialmente disagiate: tutte ad esempio portano una bella borsa... Inquadrate sulla panchina, esse paiono nervosamente “alla fermata dell’autobus” (complice il dettaglio delle braccia conserte). L’ironia di Erwitt potrebbe indirizzarsi contro “le piccole noie della vita agiatamente quotidiana”? Forse, le tre donne manco s’accorgeranno che dietro di loro esistono persone veramente “perse” (in modo più o meno drammatico). In fondo, solo noi possiamo leggere il grande cartellone. Pare che Erwitt non usi l’ironia per “infierire” sul vero “disagio” delle persone scomparse, preferendo invece “sbatterla addosso” a tutta la “leggerezza” con cui si vive la normalità. Nella fotografia Pennsylvania - Pittsburgh 1950, vediamo che un bambino afroamericano si punta una pistola alla tempia, simulando di suicidarsi. Egli ci pare sorridente. Erwitt ironizza contro la cultura americana, dove “l’assuefazione” per le armi da fuoco (risalente all’epopea del “selvaggio” West) ha ormai intaccato l’innocenza dei bambini, e pericolosamente nella comunità nera, che, discriminata in via sociale negli anni ’50, poteva “approfittarne” per una “vendetta” politica.
Agli inizi del suo pensiero, Nietzsche invitò l’uomo a respingere sia la mediocrità sia la “delusione” del mondo contemporaneo (costruito sulle precomprensioni idealistiche o storicistiche, contro la “vitalità” personale), tramite un recupero della “spiritualità” greca. Utilmente, la filosofia alla fine poteva avere un’impostazione filologica. La “spiritualità” greca, anticamente esaltante la “vitalità” personale, concorreva a “raffinare” la psicologia dell’uomo contemporaneo, sempre “ansioso” di sottostare alle precomprensioni idealistiche o storicistiche. Ma raggiunta la “maturità” intellettuale, Nietzsche giudica che tale recupero non sia più ammissibile. La spiritualità “vitalistica” dei greci sembra definitivamente perduta, per l’uomo contemporaneo. La filologia deve “lasciare il passo” alla sola filosofia. La spiritualità “vitalistica” dei greci può solo “nascondersi”, nella passione per la “ricerca” (la messa in discussione dei propri “pregiudizi socioculturali”). Nietzsche accusa in primis il caratteristico storicismo. Ricostruire i parametri precomprensivi d’una data società culturale impedisce che i singoli individui si distinguano per la propria volontà. Si rischia che i pensieri od i gesti degli altri, oltre la specificità della situazione in cui sono accaduti, in noi subiscano una continua attualizzazione, credendo che quelli abbiano una conseguenza già nostra. Nietzsche invece vuole salvaguardare la volontà del singolo. Lo storicismo finisce per “appiattire” la vitalità, che s’esprime nella diversità (tipicità) d’ogni situazione al mondo. Un conto è il presente “attuale”, un altro il presente “che trapassa immediatamente”. Lo storicismo spiega il primo (partendo dalle precomprensioni socioculturali, che “aleggiano” sopra la volontà singolare), la storicità invece il secondo. In specie, nel presente che “trapassa immediatamente” si conserva per noi la possibilità di liberarsene, tramite le aspirazioni (quando il futuro si percepisce già qui) o le rammemorazioni (percependo il vissuto in maniera critica, essendo ancora qui). Nietzsche respinge l’idea che la storia debba banalmente classificare alcuni eventi. Così, essi tornerebbero solo in maniera astratta, senza che noi vogliamo “riviverli” (con le nostre aspirazioni o rammemorazioni). Nietzsche preferisce che la storiografia s’avvicini all’arte. Bisogna che noi ri-viviamo “istintivamente” (spontaneamente) la nostra “situazione” (attualità). Nella creazione artistica, non seguiamo una volontà imposta (dalla mentalità comune), ma “cavalchiamo” quella che si pensi appena intuitivamente. La storiografia deve ri-vivere. Sia le aspirazioni sia le rammemorazioni si percepirebbero nella “cavalcata” del “presente attuale”. Nietzsche scrive che, innanzi a tutti gli enti, noi li “racconteremmo” per la loro “luce” come per il loro “oblio”. Non basterebbe la sola conoscenza. Questa va ri-vissuta (a partire dalla sua reinterpretazione per noi).
Nella fotografia di Erwitt Francia - Parigi 1989, al centro si vede un uomo, che compie un balzo in avanti (con le gambe molto divaricate, quasi atleticamente in lungo). Egli regge un ombrello aperto. Sullo sfondo, noi riconosciamo la celebre Torre Eiffel. A destra, più indietro rispetto al “saltatore in lungo”, una coppia di innamorati sta per baciarsi, sempre con gli ombrelli aperti in mano. Esteticamente, l’imponenza della Torre Eiffel verrebbe meno, con le figure umane che ne raggiungano la cima. La fotografia si percepisce in via dialettica. E’ ammissibile che la coppia d’innamorati viva un momento “d’ansia”? Immaginiamo che romanticamente e classicamente il maschio debba fare “il primo passo”, che poi “si riposerà” nel bacio corrisposto, da parte della donna. In lontananza, la Torre Eiffel dovrebbe suggellare questo “fatidico momento”. Parigi è la “capitale” del romanticismo, nel pensiero comune. L’ironia di Erwitt potrebbe cadere sulla coppia un po’ “ansiosa” di baciarsi. Gli amanti non dovrebbero “sottostare” allo storicismo della Torre Eiffel, con tutta la sua “imponenza” romantica. Il “saltatore in lungo” avrebbe l’incarico d’abbattersi sui due innamorati. Lui si porterebbe dietro la medesima Torre Eiffel. Erwitt ci offre una percezione leggera di tale “demistificazione romantica”, mediante la sola ironia. Consideriamo la presenza degli ombrelli, i quali sempre attutiscono la caduta della pioggia o dei raggi solari.
Nella fotografia Coney Island 1975, un gabbiano è appollaiato sopra il faro d’un lampione pubblico. Più sotto, appare il passaggio in cielo d’un aereo civile. Il gabbiano guarderebbe astrattamente all’orizzonte. La luce della lampada si proietterebbe verso l’aereo (se questa fosse accesa). Il gabbiano “contemplatore” si farà percepire entro tutta la “raffinatezza” delle sue linee. L’aerodinamica è una disciplina del mondo contemporaneo, dove regna il tecnicismo. Anch’essa va percepita in via “elegante”, permettendo al vento di “danzare” su un mezzo artificiale. Erwitt ironizza sulla “pesantezza” dell’aereo, che subirebbe la proiezione della lampada, col suo “occhio” inevitabilmente “inchinato” (servendo in strada). Recuperata la filosofia di Nietzsche, percepiamo che il gabbiano abbia invece una “raffinatezza” vitalistica. Esso “è concentrato” sul cielo, ma senza “subirne il peso” (come nel più artificiale aereo, incapace di librarsi, in quanto solo destinato ad atterrare).
Nella fotografia U.S.A. - New York 1974, Erwitt esibisce ironicamente un “trittico” di arti inferiori. Le gambe d’una persona stanno in mezzo alle zampe d’un alano (a sinistra) e d’un chihuahua (a destra). Ad ironizzare sopra l’immagine, è il taglio dell’inquadratura. Noi possiamo vedere interamente solo il corpo del chihuahua, data la sua caratteristica piccolezza. Erwitt ci ricorda che il “cagnolino” come miglior amico dell’uomo va amato essendo (quasi) uno di noi. L’imponenza delle gambe nel padrone certo non scompare, ed anzi s’accentua, tramite l’inquadratura grandangolare. Ma quelle sono anche tagliate, a livello delle ginocchia. Erwitt ironizza contro l’imponenza del “ruolo padronale”. Qualcosa che forse potrebbe valere anche in via più sociologica, ricordando le divisione fra gli agiati ed i disagiati. E’ troppo facile godere del cane come miglior amico dell’uomo, senza contraccambiarne l’affetto. Il chihuahua ha uno sguardo un po’ perso nel vuoto, provando ad “ascoltare” qualcuno o qualcosa (con le sue orecchie molto “a sventola”) a fatica (sotto il “peso” del cappellino). Sembra che il “piccolo cagnolino” richieda il nostro affetto, anziché quello del padrone accanto. Recuperata la filosofia di Nietzsche, s’avverte che il chihuahua esibisca finalmente le sue volontà. Noi le dovremmo “salvaguardare”. La posa del chihuahua si costruisce stancamente. Gli occhi e le zampe girerebbero “a vuoto”, chiedendo il nostro “soccorso”.
Nella fotografia Argentina - Penisola di Valdes 2001, Erwitt inquadra una collina, avente un crocifisso (in primo piano) ed un cartellone pubblicitario (più in lontananza). Si riconosce una dialettica, già cara alla filosofia di Nietzsche. Gesù in croce vive il tempo presente che “trapassa immediatamente”. Egli ci mostra che possiamo vincere la morte. Il crocifisso simboleggia l’eternità del tempo, quando la “vitalità” del presente trapassa universalmente (senza che perdiamo una parte di noi). Il cartellone pubblicitario invece arresta il nostro sguardo. Esso si percepisce entro il presente “solo attuale”. Il messaggio pubblicitario deve colpire l’osservatore, fermandone la vitalità: il primo comanderà la seconda. Erwitt naturalmente ironizza, contro la “falsa” convinzione che il prodotto del mercato possa darci la “felicità” (e quindi la sensazione di rasentare l’eternità del tempo). Il marchio Pepsi ha una forma che ricorda quella d’un “sole incandescente” (complice la banda centrale, col suo incurvarsi). E’ facile percepire la sfera in termini universalizzanti, mancandole le delimitazioni degli angoli. Ma “l’incandescenza” del messaggio pubblicitario finisce per abbagliare ogni acquirente, fermandone la vitalità personale.
C’è una fotografia U.S.A. – New York City ove Erwitt inquadra “due gigantesche gambe da donna” (dai tacchi). Curiosamente esse penzolano dal tetto d’un palazzo, seguitane la facciata. L’ironia del fotografo colpisce la “mercificazione sessuale” della donna, come mero oggetto del desiderio maschile. La pubblicità “cavalca” i bisogni della gente, alienandoli nella “smorta” artificialità dei prodotti. Così, si vive la “mera attualità” del tempo. La pubblicità è sempre fine a se stessa. Nello scatto di Erwitt, le “belle gambe” della donna si fanno virtualmente confezionare, dal desiderio maschile. Nel caos del traffico newyorchese, un camion sul retro ha la scritta pubblicitaria Deer park, traducibile in Parco del cervo. Lo “sguardo maschile” andrà inevitabilmente “alla caccia” delle “gambe femminili”, appena più sopra (sulla facciata del palazzo). Qualcosa che attragga immediatamente, a tal punto da causare un ingorgo automobilistico…
Per Nietzsche, l’uomo che accetti lo storicismo si sentirebbe molto “orgoglioso” di se stesso. Con l’idealismo, le precomprensioni intellettuali si fanno razionalizzare, assumendo una vena totalizzante, che “si riversa” sopra la stessa esteriorità materiale (del mondo). Qualcosa che tramite lo storicismo “inorgoglisce”. Le differenti precomprensioni intellettuali saranno razionalizzate al fine di resistere alla “caducità esistenziale”. Inorgoglisce la sicurezza che la memoria storica continui, contro il trapassare del presente. Nietzsche però percepisce che così l’uomo mistifichi se stesso. Lo storicismo avrebbe una vena prettamente “crepuscolare”. Per Nietzsche, l’uomo temerebbe di non controllare, con la sua volontà, il tempo presente delle situazioni (che deve sempre affrontare, vivendo). Allora, è troppo facile limitarsi a pensare in termini cinici, tramite lo storicismo per cui rispettiamo delle precomprensioni socioculturali, aventi una vena universalizzante, che tornino in tutte o quasi le ere. La filosofia razionalistica di Hegel alla fine giustificava il determinismo dello Spirito Assoluto, entro la necessità dialettica che la Natura non potesse darsi senza l’Idea, e viceversa. Nietzsche distingueva la “falsa” ironia dello storicismo “crepuscolare” (mistificante, utilitaristico) dalla “vera” ironia della storicità “ri-vissuta” (mediante la volontà “d’indagare” il passato, o di “progettare” il futuro). L’uomo contemporaneo doveva evitare “di prendersi troppo sul serio” nelle sue precomprensioni socioculturali. Queste rischiavano di determinare ogni attimo della vita “dionisiaca” (nella spontaneità di relazionarsi al mondo). Nietzsche ironizzava sopra la dialettica di Hegel. Se la tesi deve tornare a sé attraverso l’antitesi, sembra che la loro sintesi in fondo non faccia altro che ripetere la prima e la seconda. Dunque, la dialettica di Hegel sarebbe letteralmente una “complicazione per nulla”. Se la tesi non può darsi senza l’antitesi, non ci servirebbe neppure scoprire la loro sintesi, parendo questa comunque (già) implicata in entrambe. Al determinismo razionale della dialettica, s’aggiungerebbe solo una “complicazione per nulla”. Quando l’idealismo sintetizza la volontà del singolo individuo con quella degli altri (che comunque non possono pensare senza “affrontarsi” fra di loro), vale lo storicismo della precomprensione socioculturale. E’ la “cattiva ironia” del razionalismo. Tramite questa, l’uomo mistifica la più spontanea “vitalità dialettica” (se ci pare normale che noi abbiamo idee diverse, innanzi ai “problemi” del mondo). Nietzsche allora invitava a seguire l’ironia “buona”, mettendo in discussione le proprie precomprensioni socioculturali.
Nella fotografia di Erwitt Krusciov – Nixon 1959, durante una discussione molto concitata, il vicepresidente americano punta il dito indice contro il presidente sovietico, toccandogli persino il petto. I diplomatici in sala osservano la scena con vera “professionalità”, come se volessero studiare i due antagonisti. Erwitt ironizza sullo storicismo dell’orgoglio americano. Se Nixon punta l’indice contro Krusciov, quest’ultimo pare “d’una freddezza intangibile”, avendo gli occhi chiusi. E’ comune pensare che la “vecchia oligarchia” del P.C.U.S. prendesse decisioni in via quasi “segreta”, contro il protagonismo del presidenzialismo americano. Si conosce anche la freddezza naturale degli inverni moscoviti, in fondo… Lo scatto in bianconero di Erwitt fa risaltare la mano di Nixon, contro gli abiti intorno. Questa si percepirebbe come una pistola, pronta a sparare (simbolicamente, giustificando la solita “epopea western” della società americana).
Nella fotografia U.S.A. New Jersey 1954, Erwitt inquadra in primo piano un parcometro, il quale si lascia dietro (sullo sfondo) una fila di “stendibiancheria urbani” (coi palazzi posti uno innanzi all’altro, lungo la strada). Al centro, vediamo un lampione. Col parcometro, le automobili si lasciano in ordine. L’ironia riguarda l’impossibilità persino di vedere lo sfondo, interamente occupato dalla biancheria al sole. Manco il lampione saprebbe “suonare la sveglia”, mettendo “in riga” il senso civico veramente scarso di chi abita i palazzi. L’ironia del fotografo diventerà “crepuscolare”. L’utilitarismo d’appendere gli abiti personali in strada letteralmente nasconde qualsiasi “profondità di pensiero”. Tutti ripetono banalmente il medesimo gesto. I palazzi sono abitati da molte persone. Ma il disordine sullo sfondo (mistificato dal pensiero per cui ‹ se gli altri mettono gli abiti in strada, allora lo faccio anch’io, e non protesto mica! ›) sembra “strozzare” la vitalità civica. Il parcometro paradossalmente si percepirebbe in via meno “rigida”, alla fine.
Nella fotografia Museo del Prado 1995, Erwitt ironizza sullo stereotipo dello “sguardo maschile sempre a caccia di sesso”. A sinistra, c’è una donna sola. Lei guarda il famoso dipinto di Goya Maja vestida. Invece a destra c’è un gruppetto di uomini. Loro guardano il dipinto accanto: l’ancor più famosa Maja desnuda, sempre di Goya. L’ironia di Erwitt in tal caso si percepisce davvero come “buona” (suscitando una sana “simpatia”). Il gruppetto di uomini “va diretto sull’immagine nuda, rinunciando a quella vestita”. Ma ciò accade al museo, innanzi a quadri che per la storia dell’arte sono dei capolavori assoluti. Noi guardiamo con favore alla volontà di farsi una cultura, specialmente in via umanistica (contro il pragmatismo della mera tecnologia). Nella fotografia Museo del Prado 1995, l’ironia di Erwitt calerebbe sopra l’uomo che abbia scelto di “indagare” la sua storia, volendo “ri-viverla” in prima persona (attivamente). E’ qualcosa che percepiamo semplicemente “in simpatia”.