Cildo Meireles - Installations @ HangarBicocca

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Ventisei marzo, mercoledì sera: l’eco di parte delle previsioni di Jean Baudrillard riempie lo spazio di via Chiese, e l’HangarBicocca ricorda qualcosa come Disney World. Bambini accompagnati che reclamano di essere ammessi a Vorkuta (2003), la cella frigorifera fino ai trenta gradi sotto zero di Micol Assaël (le sue opere abitabili sono in mostra fino al 4 maggio), sfoderando il diritto di esperire la dimensione contemporanea dell’arte. Una folla che attende, assiepata all’ingresso, l’apertura dei pesanti sipari neri per poi confluire, in laica processione, verso le Installations di Cildo Meireles. Fotocamere e smartphone come pubblico predominante. E’ l’opening insomma, e da questa parte di Milano è evidente un interesse trasversale nei confronti dell’arte contemporanea, che riempie come sempre gli spazi dell’Hangar; e non solo durante l’inaugurazione.
È naturale come l’analogia del parco divertimenti sia utile soltanto a sottolineare con una certa curiosità i termini e gli atteggiamenti con cui il pubblico guarda e interagisce, in simili casi, con l’opera d’arte (cioè quando l’opera d’arte e in secondo luogo, con un’inevitabile accettazione, il museo gliene danno modo). Influenzando anche, attraverso tale contatto, l’opera stessa. L’Hangar Bicocca eccelle nel contenuto e nella curatela, ed è tutt’altro che il contenitore che uccide la cultura o addirittura il suo inceneritore, come negli anni Settanta Baudrillard definiva il Beaubourg. È anzi doveroso dichiararne la competenza e l’originalità nella fitta rete milanese degli spazi dedicati alle più recenti tendenze artistiche. Insomma la disneyficazione si vede, ma è attuata sulla solida base culturale che lo spazio espositivo è ben attento a progettare, capace di rispondere a una duplice domanda: la richiesta del pubblico di entrare a diretto contatto con l’opera d’arte, di fruirne in maniera del tutto nuova e, forse, profana e la legittimità dell’arte proposta. L’HangarBicocca mette anche stavolta insieme queste due polarità, e risolve l’incognita presentando la personale di uno degli artisti contemporanei più importanti e interessanti al mondo, Cildo Meireles (Rio de Janeiro, 1948).
Tornando alla folla, una volta raggiunto l’enorme spazio espositivo dedicato alle opere dell’artista brasiliano, essa si scinde andando a creare delle code più o meno lunghe davanti all’ingresso delle singole installazioni; è stato soprattutto questo, immagino, che ha insinuato ulteriormente il paragone col parco divertimenti. Accetto di prendere parte allo spettacolo, percorrendo le opere insieme con altre trenta - quaranta persone. Evidentemente Meireles non è affatto contrario, essendo lì presente.
Através (1983-1989) si staglia davanti ai miei occhi non appena varcata la soglia. L’artista sa benissimo come ci si può sentire al suo interno se non si ha il vantaggio di essere soli. In merito a questo passaggio Vicente Todolì, curatore, consiglia di esplorare e attraversare individualmente le opere per recepirne in modo integro il gioco sensoriale. L’installazione è composta da tante pareti posticce – veneziane, reti da pesca, fili di vari materiali – che formano dei muri paralleli valicabili da diversi punti, confluenti nel nucleo dell’opera: una grossa palla composta da lembi di cellophane. Ricorda un totem dalla forma postmoderna, una sfera portatrice di energia da guardare a una certa distanza. La problematica di Através sta nel pavimento: l’area calpestabile è composta da vetri rotti, inquietanti e allo stesso tempo seducenti, che chiedono manifestamente di essere utilizzati come terreno su cui muoversi, senza proibizioni di alcun tipo (a parte una giudiziosa lentezza nella deambulazione). La scelta dei materiali è uno dei paradigmi su cui fonda l’opera di Meireles, misurata su un metro fortemente metaforico utile a realizzare, sia nella fisicità sia nella mente di chi accetta di soggiornarvi, una dimensione del tutto inedita e parecchio evocativa. Através è un ambiente difficile, volutamente difficile, ma al contempo affascinante. Un’opera esemplare di Cildo Meireles, con qualità perfino estetiche che si trasformano in una decomposizione sensoriale, colpendo il visitatore a trecentosessanta gradi. L’artista rende possibile qualcosa di insolito, come appunto fare due passi sui vetri, e il pubblico sembra rispondere con favore. Personalmente è stato impossibile attingere alla decomposizione sensoriale di cui ho parlato, concentrandomi sul rumore dei vetri sempre più frantumati sotto i piedi. Un sonoro che ha cominciato a farsi insopportabile, dando quasi l’idea - in un certo senso - di correre dei rischi (per altro impossibili e quindi indefinibili): si tratta sempre di vetro dopotutto, immagino possa pensare il visitatore medio, e con molte suole di scarpe che lo sbriciolano. Quando anche la scarsa stabilità comincia a essere poco gradevole esco dall’installazione, superando il complesso disegno delle pareti di Através, compiaciuta della sensazione di angoscia che un’opera d’arte è ancora oggi in grado di offrire.  
Sono dodici le installazioni esposte nella personale che l’Hangar Bicocca dedica a Cildo Meireles, uno dei più rilevanti artisti del dopoguerra, realizzate dal 1970 a oggi. Eureka/Blindhotland (1970-1976) mi ha coinvolta per un buon quarto d’ora nel soppesare moltissime sfere di materiale gommoso, assolutamente identiche alla vista, scoprendone così la differenza gravitazionale. Senza la partecipazione, infatti, non vi è l’opera: un altro dei cardini della poetica dell’artista. Lo spazio dell’installazione è perimetrato da una rete in tessuto che forma un quadrato, la cui base è rivestita da un materiale liscio e morbido su cui sostano le sfere (Blindhotland, primo elemento). Al centro, una bilancia (Eureka, secondo elemento) sostiene in perfetto equilibrio due contrappesi a prima vista disuguali. Ogni cosa è immersa nel suono prodotto da un microfono che registra il rumore di centinaia di sfere dal peso diverso fatte cadere da altezze altrettanto diverse. Tale commistione sensoriale, che il curatore definisce «un paesaggio visivo, tattile e sonoro», sommerge la normalità con cui si è soliti fare i conti, per sollecitare l’attenzione percettiva di chi si confronta con l’opera tramite una nuova presa di coscienza di vista, tatto e udito.  
Il percorso continua passando per installazioni che prevedono una fruizione unicamente visiva, tra cui Babel (2001), torre di apparecchi radiofonici di diversi tipi ed epoche, emettenti dei suoni che si sovrappongono, metafora della babele contemporanea. Olvido (1987-1989), rievocazione composita della storia coloniale dell’America Latina fatta da un tapee indiano di banconote, immerso in tre tonnellate di ossa bovine, circondate a loro volta da un muro di candele; Atlas (2007), il light box su cui campeggia un Cildo Meireles a testa in giù sopra il Socle du monde (1961) di Piero Manzoni, sovvertendone il senso originario. Altre opere, invece, prevedono l’ingresso del pubblico per poter esistere. Tra queste Abajur (1997-2000) è un cubo nero entro il quale tre strati di fogli lucidi sono sformati in cilindri sovrapposti e roteanti, che si muovono attraverso un meccanismo di trazione attivato da tre addetti, in cui il tempo è concepito nell’attesa prolungata del passaggio di un veliero, simbolo delle spedizioni coloniali del XIX secolo; Amerikkka (1991-2013) è un’opera in cui ritorna il binomio di apparente pericolosità/forte attrazione, in cui i visitatori sono invitati a camminare sopra un pavimento di uova accumulate ordinatamente l’una accanto all’altra e sotto un soffitto di proiettili sospesi, opera critica nei confronti dell’imperialismo nordamericano; Entrevendo (1970-1994), è un imbuto abitabile in legno di 8,23 metri con al suo interno un motore che espande aria calda, nel quale è prevista anche la somministrazione di due cubetti di ghiaccio per attivare la forte sinestesia ricercata da Meireles; Para Pedro (1984-1993), dedicata al figlio, è un corridoio confluente in cinque monitor impilati, alcuni con assenza di segnale, altri che proiettano le texture della ghiaia, base reale dell’installazione.
La mostra si conclude con Marulho (1991-1997), la piscina fatta da immagini d’acqua, un esteso tappeto turchese su cui si allunga un vero e proprio molo. L’illuminazione ne fa un ambiente a sé stante, come quelli che all’Hangar Bicocca talvolta piace mostrarci, in cui sostare e, volendo, perdersi. Il fattore sonoro definisce parte dell’opera, con la parola «acqua» pronunciata in diverse lingue che risuona nello spazio. Continui rimandi a questo elemento che si mescolano a quelli sulla storia dell’arte, da Yves Klein alla problematica sempre attuale del monocromo. Anche in tal caso l’afflusso dei visitatori ne impedisce un’adatta fruizione: mi aspettavo di sedermi sul molo in solitudine, come un Viandante sul mare di nebbia dei giorni nostri. Un buon motivo per tornarci.

                                                                                                                                                                                                                                                                                       

 Ivana Mazzei

 

Cildo Meireles – Installations

27.03 – 20.07.2014

Fondazione HangarBicocca

Via Chiese 2, Milano

 

 
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