Dal 6 al 26 Marzo 2013, presso l’importante MAXXI di Roma, era stata allestita la mostra collettiva Fly to Baku, con le opere di ventuno artisti, tutti provenienti dall’Azerbaigian. Un paese da percepire tramite il “cuscinetto” del Caucaso, posto fra il Mar Nero ed il Mar Caspio. Così, si conferma “naturalmente” la vocazione interculturale dell’Azerbaigian. La catena del Caucaso divide l’Europa dall’Oriente. La mostra collettiva Fly to Baku era stata curata dalla Fondazione “Heydar Aliyev”, in collegamento con l’Ambasciata dell’Azerbaigian in Italia. In più opere, si percepisce la tensione di “sorvolarle”, nei loro materiali e concetti. Gli artisti azeri esteticamente ci rappresentano una figurazione “nel cuscinetto” di se stessa. Nelle sculture di Aga Ousseinov, i materiali saranno giustapposti l’uno sull’altro, come nel classico marchingegno. Nelle pitture di Huseyn Haqverdi, la costruzione architettonica pare sventrarsi, permeandosi della volta celeste. Nei quadri a tecnica grafica di Leyla Aliyeva, il corpo animale sarebbe ingrandito da una vitalità “microscopica” (col metabolismo dei lisosomi, e la propagazione dell’impulso elettrico nel cuore). Nella pittura di Niyaz Najafov, vale la composizione allargante delle persone (ad esempio, facendole girare attorno a se stesse). E’ la percezione estetica d’una figurazione che letteralmente “s’accomodi” sulla propria astrazione. Pure così noi capiremo la tradizione interculturale dell’Azerbaigian, sul “ponte” caucasico fra l’Europa e l’Oriente.
L’artista Aga Ousseinov ama rappresentare i macchinari, partendo dalla loro stilizzazione ingegneristica. Qualcosa che alla fine sembra “appesantirsi”, tramite l’immersione nel colore blu. Ousseinov rappresenta anche le imbarcazioni, le quali evidentemente solcano i mari. Più simbolicamente, egli ci ricorda d’aver vissuto nella “vecchia” Unione Sovietica, quando le “belle speranze” dell’ideologia sarebbero svanite nella “tracotanza” dell’utopia. Le opere di Ousseinov si mostrano in via apertamente caricaturale. Egli andrebbe finalmente a realizzare “l’utopismo ideologico” d’una società “progredita universalmente”. Guardiamo la scultura di Ousseinov chiamata Diving lessons (del 2009). E’ il palombaro, avente fra le mani una seconda maschera. Il suo funzionamento andrebbe spiegato al pubblico. L’artista ha virtualmente provveduto a “clonare” il palombaro. Esteticamente, è la figurazione nel suo “giustapporsi”. Sempre chi insegna avanza “un ponte” fra l’astrattezza delle nozioni ed il loro “coinvolgimento emotivo” negli allievi (i quali potranno incuriosirsi oppure di contro annoiarsi). L’artista ironizza sopra l’avvenuta realizzazione dell’utopismo ideologico. Il progresso sarà garantito solo tramite la “giustapposizione” delle sue risorse, come nel “difficoltoso” marchingegno. Qualcosa che paradossalmente finirà ad arrestarsi. Il marchingegno si percepisce nella “pesantezza” del suo universalismo (se può contenere un numero imprecisato di risorse). Agli occhi degli “occidentali”, la società civile nell’ex-Unione Sovietica (dopo il crollo di questa, nel 1991) è sempre parsa un po’ tralasciata a se stessa o statica. L’opera dal titolo Diving lessons si percepirà dunque nella “tracotanza” dei suoi elementi in giustapposizione. C’è poi il simbolismo del colore blu, che grazie al mare certo sommergerà il palombaro. Contro la pressione dei fondali, i movimenti del suo corpo subiranno un rallentamento. Nell’opera chiamata Study for portrait of failed arctic explorer (del 2009), Ousseinov inserisce una lente d’ingrandimento. Questa cinge un occhio del mezzobusto, preservante il caratteristico tono blu. La mostra romana degli artisti azeri s’intitola Fly to Baku. La lente d’ingrandimento ci permette virtualmente di “prendere posto” sulla materia, “entrandovi”. E’ come se la nostra visione “s’ammorbidisse”, nel “cuscinetto” della sua esteriorità. La lente d’ingrandimento quasi “sorvolerebbe” sulla materia. Consideriamo il momento del decollo aereo. Dal finestrino, finalmente si potrà guardare il paesaggio “nel suo dettagliarsi” (perse le limitazioni dell’orizzonte). Il sorvolo in aereo permetterà “d’accomodarsi” sull’esteriorità. L’artista sceglie d’appendere la lente d’ingrandimento al centro della testa, dal suo passamontagna. Pare che il mezzobusto abbia una visione “segnaletica”, da riferirsi a quella tramite l’antenna. Immaginiamo che il “sorvolo” dell’esploratore si faccia “intercettare”. L’allaccio del passamontagna sulla lente d’ingrandimento ha un “inutile” attorcigliarsi. Sarà la circolarità dell’intercettazione via radar... L’ideale utopico comporta per la mente un “volo” oltre se stessa. Qualcosa che si conosca perfino rapidamente, nonostante “l’infinitezza” della sua realizzazione pratica. Chi vola percepisce sempre la grandezza del paesaggio sottostante (contro l’inquadramento dell’orizzonte). Ma questa è solo astratta (nell’impossibilità di vivere fra le nuvole!). L’artista sceglie una colorazione blu, rispettando la scenografia marina dell’Artico. Quella però può “biancheggiare”: le onde rilasciano la schiuma, sotto “l’intercettazione” dei venti. Pare che il mare cui allude Ousseinov alla fine risalga. Conosciamo la catena montuosa del Caucaso. Essa suddivide due mari virtualmente “in terra”. Il Caspio è chiuso, il Nero sbocca appena sullo stretto del Bosforo. In via simbolica, l’artista avrebbe “ricondotto a terra” con l’ironia il “sorvolo” dell’ideologia utopica. E’ l’astrazione della mente a guidare la lente d’ingrandimento (per il grande desiderio di conoscere). Tuttavia quest’ultima finisce ad “entrare” nella materialità. Ousseinov ha ormai rinunciato ad evocare “romanticamente” l’utopia, e non gli resta altro che intercettarla. Essa va percepita nell’immediatezza dei suoi “bisogni” materialistici. L’ironia ci pare sempre intercettante, in quanto deve “pungere” (con le parole od i gesti). L’ideale utopico è qualcosa che si lascia “vedere”… tramite un “ingrandimento”, come sbarrando gli occhi. Noi lo giustifichiamo nel “sorvolo” della mente. Nella scultura Diving lessons, Ousseinov ironizza parecchio contro l’esplorazione del palombaro, percependone la “pesantezza” (la complicatezza), nel suo marchingegno. Rammentiamo il vecchio cartoon denominato Ispettore Gadget. Come il cyborg, egli poteva sdoppiare il suo corpo, acquistando una maggiore articolazione. La lente d’ingrandimento ci permette d’ispezionare la realtà. Ad Ousseinov interesserebbe la percezione della sua pressione, simbolicamente dentro l’immediatezza del materialismo (laddove ciascuna astrazione svanirebbe, perché indeterminata). E’ la “lente d’ingrandimento” dell’utopia, ma sommergendo i nostri desideri. Ricordiamo il tono blu del mare, in ambedue le opere d’arte.
Il filosofo Danto studia un passo di Rimbaud, il quale una sera prese sulle sue ginocchia la bellezza e, sentendola amara, volle ingiuriarla (nel 1873). Gli enti che ci sovrastano certo esigono il nostro rispetto. Noi percepiamo l’amaro sempre in via “stridente”. La bellezza di qualcosa è sovrastante, eliminandone virtualmente tutte le delimitazioni (tramite la loro “armonia”). Alla fine, però, Rimbaud si riconcilierà col suo decadentismo. Egli quasi “s’inginocchierà” innanzi alla bellezza, espiando la prima amarezza di non poterla mai “toccare”. E’ un “problema” estetico già caro a Kant. Pare che la bellezza simboleggi il “moralmente buono”. Qualcosa che valga (astrattamente) “nel solo fatto di scoprirla”, prima ancora di percepirne (materialmente) il piacere. Un uomo inginocchiato si pone sempre verso la sua alterità. Per Kant, la percezione del bello è soggettiva, e tuttavia in accordo con la mentalità comune. L’uomo inginocchiato mette “al centro” se stesso “rivelandosi” alla sua alterità. La soggettività cercherebbe di giustificarsi. Qualcosa da percepire come uno scoprirsi “nella concordanza” di se stessi. Per Kant, il comportamento morale accade solo “nel disinteresse” soggettivo. La libertà del singolo uomo abbisogna di scoprirsi, attraverso la sua responsabilizzazione sociale. Sarà perfettamente razionale che noi abbiamo una morale. Il singolo individuo conosce la sua libertà solo in riferimento a quella degli altri (con la seconda che potrà anche limitare la prima). Così, sarà razionale il principio della responsabilizzazione sociale. Qualcosa che la bellezza giungerebbe a simboleggiare. Oltre il proprio soggettivismo, ove immediatamente sentita, su quella comunque “concordano tutti”, in via più concettualistica. Kant deve eludere il “problema” delle differenze fra le culture. Ad esempio, sapendo i viaggi del Capitano Cook, nel ‘700, le popolazioni che vivono fra i mari del Sud si comporterebbero in via “irrazionale”, agli occhi d’un europeo. Per Kant, quelle negativamente accettavano la “banalità” d’una società ancora ferma allo “stato di natura”. Contrario al relativismo socioculturale, per lui i popoli fra i mari del Sud avevano rinunciato a sviluppare la facoltà della ragione, come gli europei.
A Roma, il pittore Huseyn Haqverdi esibisce una spazialità architettonica, in cui gli elementi portanti si frantumerebbero. Conosciamo l’avanguardia artistica del raggismo, sorto agli inizi del ‘900 in Russia. Esso trasfigurava in pittura i fenomeni fisici dello spettro, della rifrazione, della riflessione ecc… Haqverdi ci pare meno interessato all’astrattismo, perché la sua frantumazione avrebbe un’origine architettonica. E’ la percezione estetica della lente che ingrandisca “nella pressione di se stessa” (“entrando” nella materialità). Anche l’architettura può riflettere o rifrangere la luce, per esempio ornandosi con le pareti di vetro, e le piscine d’acqua. Pare che Haqverdi inquadri le palazzine architettoniche dai pavimenti al soffitto, con una prospettiva del tutto “ascensionale”. Il background del raggismo russo subirebbe insomma una trasfigurazione, sventrato verso il Cielo. Sarà inevitabile che Haqverdi dipinga i tetti? Questi potranno avere le linee diagonali, care al “vecchio” raggismo, nelle case esposte alle precipitazioni (piovose o nevose). Grazie alla prospettiva “ascensionale” dal pavimento al soffitto, il primo sembrerà “pressato” dalla “lente ingrandente” del secondo. Si “sventreranno” le pareti delle stanze: ai lati del quadro, Haqverdi dipinge la frantumazione dei triangoli. E’ noto che sui tetti noi installiamo le antenne, per ricevere la televisione. Queste si configurano spesso in via triangolare, secondo la diversa lunghezza delle loro “tacche”. Se Haqverdi dipingesse nell’ascensione dal pavimento al soffitto, allora, superato l’ultimo livello del tetto, dovrebbero frantumarsi pure le antenne. Il quadro può raffigurarci più assi incrocianti, proprio al centro del suo sventramento. Ma questi avrebbero uno spessore ridotto, esattamente come le “tacche” delle antenne. Sarà la percezione estetica per cui il raggismo debba farsi “intercettare”, mentre l’architettura si sventrerebbe quasi “ricevendo il segnale della Grazia”. Il pittore ha dichiarato che, simbolicamente, il suo geometrismo raffigura il “mosaico” della società multiculturale. La frantumazione delle frontiere, originante i flussi migratori, si percepirà in via solo negativa, senza che si edifichi un “ponte” fra le civiltà. Haqverdi chiamerebbe in causa la “rifrazione” di Dio, colorando di bianco il centro “sventrato” del quadro. Ogni confessione religiosa semplicemente la “riceverebbe” tramite un diverso “segnale”. Immaginiamo che i dipinti di Haqverdi si facciano “prendere sulle ginocchia” dei loro tetti frantumati. Da seduti, le nostre gambe assumono visivamente una triangolazione. Haqverdi dipingerebbe il vecchio raggismo sulle “ginocchia” di se stesso. Basta guardarne le triangolazioni, ai lati del quadro: in allungamento come le gambe, ma restando pure sedute (nella loro piega). Torna la percezione estetica del cuscinetto, cara alla regione caucasica. Il dipinto ci parrà “seduto” in se stesso, nell’accavallarsi delle sue triangolazioni, ai lati. L’Azerbaigian storicamente è un “ponte” fra la cultura europea e quella orientale. Haqverdi dipinge il dipinto nel suo “accavallamento” sventrato, conferendogli una “rifrazione” spiritualizzante, nell’ascensione di se stessa. Tutta la nera “amarezza” della frantumazione sui flussi migratori (ove le persone debbano abbandonare la loro terra natia, nostalgicamente) si trasfigurerà tramite un “sovrastare prospettico”. E’ quello del pavimento che risalga al soffitto. Soprattutto il tetto ci parrà “inginocchiato”, spiritualmente, rispetto al Cielo.
L’artista Leyla Aliyeva ama il lirismo, riconfigurandolo grazie alla miniatura (caratteristica della creatività azera). Il suo tratto diviene fluido, e per continui “avvallamenti“. Pare che la figurazione cerchi di sommergersi. Nella opera grafica che s’intitola Illustration (del 2011), Leyla Aliyeva esibisce una continua intercettazione dell’organismo vivente. Una forma fantasticamente animale si farà letteralmente sommergere, dal proprio metabolismo. Immaginiamo che i numerosi “occhi” sostituiscano i lisosomi della cellula. Essi nel quadro avrebbero una “pupilla” nera, ed un “iride” bianco. I lisosomi “dettano” il turnover della digestione cellulare. Avendo la doppia colorazione, sarà facile percepirli in via spiroidale. Una figurazione in cui la circolarità “scandisca” se stessa. E’ il tema estetico dell’intercettazione. Sul radar, l’antenna va girando intorno al “nucleo” d’un preciso bersaglio (colpito da onde che si rifletteranno in tutte le direzioni). Nella miniatura pseudo-organica di Leyla Aliyeva, l’accavallarsi dei lisosomi si percepirebbe come “sul cuscinetto” della loro digestione. Qualcosa in cui la cellula debba continuamente “intercettare” la propria vitalità, “sedendo” in se stessa. Si può citare anche l’opera di Leyla Aliyeva che s’intitola Heart ache (del 2012, a tecnica mista). Il cuore si vede nella “miniatura” delle sue striature, e perciò tramite una “lente d’ingrandimento”. L’artista gradirebbe che noi ne percepiamo principalmente il pompaggio. Così, il cuore apparirà nel “cuscinetto” di se stesso. C’è però un insetto, che arriverebbe pericolosamente a succhiare il “nettare” della passionalità, “intercettandola”. Il sangue potrà sospirare. Tramite la suzione dell’insetto, il battito cardiaco risalirà dalle arterie, per svanire all’aperto. Nei due elementi, possiamo rintracciare la metafora antropologica della differenza fra le culture? L’insetto deve pungere, una volta sceso sulla corolla di petali. Coi flussi migratori, le genti immediatamente si scontreranno fra di loro, divergendo per cultura. Ma la corolla di petali si lascia pungere dall’insetto. Dietro il “fascino” del nettare, c’è la “garanzia” dell’impollinazione! Una diversità di natura che, a partire da una fase d’apparente “scontro”, si risolve positivamente, dentro un’ottima cooperazione. In chiave kantiana, il dialogo fra le culture del mondo avrebbe senso permettendo a queste di svilupparsi. Non basta accettarsi; è più importante cooperare per il miglioramento della società, nella sua interezza. L’alterità “fastidiosamente” intercettante dell’insetto, sopra la “passionalità” con cui difendiamo la nostra “interiorità” (spiritualità), in maniera positiva finirà a… pungolarci.
Danto si convince che, forse, le differenze nella percezione del bello sarebbero meno nette, assegnandogli un significato concettuale. A prescindere dalla società cui il singolo uomo appartenga, bisogna contrastare il mero estetismo. Questo davvero giustificherebbe la relativizzazione del senso comune. Sempre Kant ricorda che i popoli fra i mari del Sud amano il tatuaggio, in specie visualizzando le spirali. Qualcosa da percepire come un ornamento per i corpi; e neppure tanto lontano da quello che, nella cultura europea, ci induca a scolpire le statue dentro le chiese… Correggendo Kant, Danto scrive che fra i mari del Sud la gente ama i tatuaggi, assegnando loro un preciso significato concettuale. Sarebbe ingenuo che quelli si limitassero ad ornare il corpo (in via insomma estetizzante). Al giorno d’oggi, il tatuaggio rappresenta l’appartenenza del singolo ad un gruppo sociale. Se la percezione del bello cercasse sempre d’universalizzarsi (concettualmente), allora le probabilità di scoprire una “concordanza interculturale” (oltre i diversi popoli del mondo) aumenterebbero. Osservando il tatuaggio d’una spirale sul polinesiano, questo ci parrà meno “eccentrico”, conoscendone il valore (tutt’altro che ornamentale) per lui, e la sua società. Danto scrive che l’estetica non deve (unicamente) “incantare”, bensì “fare… da esca”. Classicamente, la storia della filosofia ci ricorda che l’universalizzazione concettuale va “sintetizzando” tutte le particolarità sensibili d’un certo ente. La prima quasi servirà da “esca”, per le seconde. L’astrazione va percepita tirando su il mero materialismo (entro la “vastità” dell’indeterminazione).
Il pittore Niyaz Najafov cerca di visualizzare un’attrazione magnetica fra le figure umane. Spesso, queste si compongono in via circolare. Le braccia s’allargano nel vuoto. La mano sinistra tratterrà il “rametto” d’un fiore, servendosene virtualmente per ricongiungersi a quella destra. A volte, le persone si mostrano nei loro “girotondi”. Ma questi non sono più spiritualmente armonizzanti, come nel dipinto La danza di Matisse (del 1910). Najafov raffigura in chiave pessimistica il girotondo fra le persone. Nel dipinto intitolato The red shoes, gli adulti avrebbero una mentalità solo infantile. Il loro girotondo assomiglia a quello dei piccioni in piazza. Al posto della mollica, adesso c’è l’avvenente scarpa col tacco. Quest’ultima ha un tono rosso, “accendendo” la virilità maschile. Se la pittura di Najafov cercasse di magnetizzare la composizione delle figure, allora queste si percepirebbero ad “accomodarsi” l’una sull’altra. Durante l’atto sessuale, i corpi esperiscono l’illusione di fondersi. Le scarpe col tacco simbolicamente fungeranno da “antenne”, verso il richiamo alla virilità. E’ il tema estetico della “frantumazione” figurativa (già cara al raggismo), nella propria intercettazione dello sguardo esteriore. Le scarpe s’indossano nella parte più bassa del corpo: sui piedi. Esse si percepiranno dentro un “cuscinetto” del tutto materialistico (toccando la terra). Najafov ha dipinto l’attrazione del feticismo. Le scarpe coi tacchi sostituiscono le donne più belle (per la virilità maschile). Questi persino visivamente ci ricorderebbero le “esche”. Una percezione estetica tutt’altro che solo ornamentale, benché ora s’astragga il materialismo… portando la materialità dentro la stessa astrazione. E’ ciò che sempre vale nel feticcio. La mera scarpa col tacco si percepirà come “un ponte” sospeso paradossalmente nel vuoto, allacciato sul “cuscino” del desiderio sessuale (nell’illusione che i due corpi possano fondersi).