La spettabile ditta Fruttero e Lucentini

Questo era il suo modus operandi prediletto, che lo lasciava libero di negare ogni interferenza nel male come nel bene del creato e faceva di lui l'Eterno Presunto. (da “A che punto è la notte”)

 

Nell’aprile del 1985, Mondadori mandò alle stampe la prima edizione de “La prevalenza del cretino”, una raccolta di articoli di Fruttero e Lucentini pubblicati sulla “Stampa” di Torino dal 1972. I due curavano una rubrica fissa intitolata “Nell’agenda di F. & L.” dove veniva passato in rassegna ogni aspetto del costume italiano (e non solo) e dove si evidenziavano le assurdità comportamentali, frutto di abitudini e di convenzioni assunte acriticamente quanto sostenute pervicacemente.

Carlo Fruttero (1926-2012) e Franco Lucentini (1920-2002) non avevano alcuna intenzione di fare i “grilli parlanti”, tanto è vero che la loro prosa è discreta, baciata da un’ironia finissima, apparentemente dimessa e altrettanto apparentemente innocua. Però non è così. I due assumono un atteggiamento distaccato, ma lanciano colpi di fioretto straordinariamente efficaci al corpo goffo del sistema. I loro interventi rivelano un desiderio di trattazione aristocratica delle questioni: è un’aristocrazia intellettuale, pregna di concetti e favorita da indagini intellettuali disincantate. Si tratta di pose che non vengono fatte pesare sotto le quali pulsano fermenti di un illuminismo eterno ed eternamente emarginato.

La prosa dei due amici (una lunga collaborazione, la loro, durata quasi mezzo secolo) sembra improvvisata, la sua scorrevolezza – spesso incantevole – fa pensare a un amore per il bello scrivere più che a qualcosa di meditato: è vero l’incontrario. La moglie di Lucentini ci rivela che il marito riscriveva una frase anche otto volte, magari per mettere o togliere un accento. La rivelazione fa riflettere sull’impegno dell’insolito sodalizio (normalmente queste cose vanno a finire male). S’immaginano discussioni a non finire e azione conclusiva, ciascuno per la sua parte, tuttavia in sintonia con l’altro. Ecco la novità, più unica che rara, di una collaborazione nella quale ciò che conta è il prodotto, meno i produttori.

Fruttero e Lucentini – iniziarono a lavorare insieme verso la fine degli anni Cinquanta; si erano incontrati in un bistrot parigino nel 1951 – alternarono l’attività di romanzieri con quella, in proprio, di traduttori.  Insieme scrissero parecchi libri polizieschi di felice evasione, fra cui “L’idraulico non verrà”, “La donna della domenica”, “A che punto è la notte”, “Il significato dell’esistenza” (un romanzo d’appendice divertentissimo). Ebbero amici letterati, fra cui Italo Calvino e Vittorio Sereni (quest’ultimo una volta disse: “Quando penso a Fruttero & Lucentini mi viene in mente una ditta di trasporti”). Fruttero ammirava in particolare Borges. Fu soavemente velenoso nelle sue considerazioni quando il Nobel fu dato a Marquez invece che all’argentino.

Quando Franco Lucentini, molto malato, decise di farla finita buttandosi dalle scale di casa sua, imitando il gesto di Primo Levi, l’amico Fruttero, ovviamente affranto, commentò: “Come il solito, ha voluto fare tutto da solo”. Forse, per la prima volta, i due non si erano consultati, ma di sicuro la personalità di Lucentini fu sempre un bel problema per Fruttero (bello in tutto i sensi).

I due diventarono molto popolari grazie alle apparizioni televisive. Spiace dirlo, ma fu un programma meno che mediocre, il “Maurizio Costanzo show”, a sdoganarli presso il grande pubblico. Ne vennero successi editoriali, ma anche tanta simpatia per personaggi modesti e allo stesso tempo incisivi, umili e arguti, naturalmente portati all’affabulazione, mai sopra le righe, dalla grande personalità.

Fruttero, morto l’amico, si apprestò al tramonto con una punta, persino, di civetteria. Cosa insoluta per lui, ma a ben vedere reazione orgogliosa a un declino fisico inesorabile. Le sue ultime considerazioni su vita e morte sono esemplari di un animo sensibile e di un’intelligenza più che mai viva, non certo domata dall’ineluttabile. Fabio Fazio, un’altra piccola cosa della televisione italiana, riuscì ad averlo in qualche numero del suo programma. Ebbene, Fruttero parve rinascere. Fu semplicemente strepitoso nelle sue disamine, dimostrando di possedere una cultura solida e una notevole capacità di usarla senza cadere in trappole accademiche o in esibizionismi fumosi.

Le sue ultime presenze, colme di piacere intellettuale (egli stesso stava ad ascoltarsi volentieri), sono state momenti mediatici a sé di grande efficacia: Fruttero si era portato appresso la cultura formatasi durante i dialoghi con l’amico Lucentini, godendone per primo. Le loro divagazioni romanzesche, non sono soltanto offerte di evasione, bensì contengono inviti a riconsiderare eventi e personaggi contemporanei. Questi inviti si concretizzano alla perfezione nel libro citato in partenza. Un libro assolutamente prezioso nella sua profonda leggerezza, nel suo non dire dicendo moltissimo.

Da solo, Fruttero scrisse delle memorie molto gradevoli, eleganti, quasi dei gossip riportati, però, con estremo buon gusto. Due i titoli importanti che le racchiudono: “Mutandine di chiffon” e “Da una notte all’altra”. Senza Lucentini, la sua scrittura si sublima in arabeschi fantastici che premiano visioni delicate, ma double-face: tanto affetto e tanta ironia, tanta delicatezza e tanto sarcasmo. La vita nella sua bellezza per l’apparire e nella sua bruttezza per lo scomparire. Ma non pensiamo troppo alla seconda: Fruttero indugia sulla prima, infatti, con un mezzo sorriso indulgente sulle labbra.

 

   

             

 

Dario Lodi

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