Alla periferia di Picasso. Cubisti e dintorni

Nella nostra sala ci si accalcava, si gridava, si rideva, ci si indignava, si protestava (…) ad indovinare come in un rebus quello che le opere significavano (…), non ritrovandovi ciò che si era soliti constatare in un quadro al primo colpo d’occhio: il soggetto aneddotico”. E l’aneddoto con cui Albert Gleizes rievoca il vernissage della mostro (para)cubista del 1911 nella sala 41 del Salon des Indèpendants, è davvero un soggetto interessante: in prima istanza per osservare che di quella calca, oggi, si sono forse smarrite le tracce, nel senso che le periferie del Cubismo, lontane dal Boulevard Picasso e da Place Braque, sono spesso liquidate come Cubismi di periferia.

In occasione della mostra di Picasso a Milano, avevamo accennato, per lo più provocatoriamente, alla perlustrazione di questi suburbi critici, nemmeno così dissestati – se almeno se ne fa lapidaria menzione sui manuali. Torniamo a riscaldare la pista storica, in occasione della pubblicazione – per gentile concessione di Lobodilattice – dell’articolo Speciale su Picasso. Anzi no sul neonato trimestrale d’arte Kunst ARTE. La vita di quartiere, d’altronde, nella Parigi degli anni ’10 era un alveare cosmopolita, con le cellette gaiamente arredate da affiches pubblicitarie, o adibite a parchi di divertimento, o ancora labirinticamente diramate lungo le linee della metropolitana. Il magnete era Montparnasse, coagulo di un gruppo cubista e di alcuni poeti, entrambe presieduti da Guillaume Apollinaire.

Per non disperdere i tracciati dell’attenzione – d’altronde, altro non si offrono che illuminazioni occasionali come i baleni della vita notturna parigina – basterà ancorarsi a qualche solido crocevia: per l’appunto, la mostra del 1911. Ricordando, preliminarmente, che a quella data, intanto, il sodalizio Picasso-Braque produceva – udite udite, con lo spagnolo che rilanciava un’idea del francese – la propria fase più bidimensionale, ermetica, intellettuale ed astraente del Cubismo analitico: il sistema segnico prendeva il sopravvento sul “soggetto aneddotico”.

Al nostro crocevia, la mostra dell’aprile 1911, espongono Robert Delaunay, Albert Gleizes, Fernand Léger, Jean Metzinger, Henri Le Fauconnier. All’epoca, proprio quest’ultimo era in qualche modo la “star”, tanto della sala quando del Salon. La sua opera, L’Abundance, era un’allegoria dell’evoluzione creatrice, in analogia ad un poemetto pubblicato quell’anno da Mercereau, Paroles devant la vie. Cubista ed allegorica, l’opera di Le Fauconnier dovrebbe quindi essere quintessenzialmente cerebrale: e per questo, forse, non del tutto accalorata, poco “poetica” in senso crociano. Eppure, l’aspetto interessante di questa membruta matrona con cesto di frutti, una Giunone sbozzata alla Cézanne con una cornucopia di pomi squadrati, è che a dispetto della pesantezza dei simbolismi (il bambino come anello della creazione, il villaggio come comunità spirituale) e dell’abbassamento cromatico, sembra affiorare a tratti l’esperienza fauve di Le Fauconnier, almeno a livello gestuale. Si osservino, ad esempio, gli arti inferiori della madre: i bruni sono staffilati su caviglia e piede sinistri con un empito deciso e sintetico, mentre la natura morta a destra, sullo sfondo di un severo arabesco raffreddato, non disdegna colmi di luce terrosa, contrasti caldo-freddo, soluzioni compiaciutamente più diluite. La materia – e ce n’è, è un dato – è dunque grigia, ma non troppo.

Nella sala dei cubisti, d’altronde, appariva anche un’enorme tela di Fernand Léger, che sola basterebbe a rivalutare, per contrasto, certe potenzialità gestuali di Le Fauconnier, non ancora del tutto temperate da paturnie intellettuali. Si tratta del famoso Nudi nella foresta, del quale Apollinaire scrisse su L’Intransigeant – ma non spregiativamente! – di “un selvaggio aspetto di pneumatici ammucchiati”, mentre lo stesso pittore ne parlava come di “una battaglia di volumi”, in cui non si poteva immettere anche il colore. Nessuna divagazione cromatica, dunque, specie rispetto a L’Abundance; epperò, una poesia sottile, insospettabile per un redivivo Paolo Uccello, tutto squadre e mazzocchi dell’era industriale, pervade la composizione, alimentata da luci taglienti e sinistre, imbottita di superfici sfuggenti come un consesso enigmatico, fratta in mille scivolosità verdi e nocciola su cui, però, non si cade mai.

Ma alla periferia del Cubismo, sul fascinoso confine dell’astrattismo, il personaggio  forse più interessante – almeno in questa fase – e soprattutto più scopertamente compromesso col lirismo del colore, è Robert Delaunay, un aristocratico formatosi sulle orme di Seurat e sposatosi nel 1910 con la pittrice e disegnatrice russa di tessuti Sonia Terk. Sorta di eretico del movimento, di lui Apollinaire avrebbe parlato come del creatore del Cubismo Orfico, una declinazione liricizzante del movimento riposta nella sensuosa e sensitiva vibrazione dinamica delle luci, come per effetto di un prisma. Alla mostra del 1911, Delaunay presenta La ville n.2 e Tour Eiffel, in cui il caleidoscopio di rifrazioni luministiche e di forme colorate riecheggia le coeve ricerche futuristiche non meno delle suggestioni dei fratelli Lumière. Nei precedenti studi della città, lo spunto è attinto da una cartolina con veduta di Parigi dall’alto dell’Arc de Triomphe, ma ciò che interessa rilevare è che le future Forme circolari, prossime a Kandinskij e basate sull’accostamento dei colori complementari, traggono la propria scaturigine poetica proprio dai crocicchi della métropole polyédrique, dalle vedute urbane e, segnatamente, dai dedali del Quartiere Latino, dove l’artista aveva il proprio studio. Come a dire – una volta per tutte: gira e rigira, la periferia può essere stimolante.

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