La delusione di Arthur Koestler

Arthur Koestler  (1905-1983), scrittore ebreo-ungherese naturalizzato britannico, nel 1940 diede alle stampe il romanzo “Buio a mezzogiorno”, tirandosi addosso le critiche pesanti della Sinistra di tutti i paesi. Nel romanzo si finge che un esponente del partito comunista russo, tale Rubasciov, da aguzzino diventa vittima del sistema. Il sottofondo si riferisce alle purghe staliniane, ormai ben note, della fine degli anni Trenta. Rubasciov è costretto a vivere le stesse umiliazioni che aveva inflitto ad altri come lui e fa la stessa fine in una sorta di sacrificio per il partito. Ma è un sacrificio legato alla pena per le torture fisiche e morali e soggetto alla delusione per la perdita di un riferimento rivoluzionario. Il personaggio si rende conto che non di comunismo si tratta, quello di Stalin, ma di spietato regime dittatoriale. Il sogno dell’uguaglianza fra gli uomini è tramontato presto e la prova, per Koestler, è fornita dalle vicende sovietiche nella guerra di Spagna, allorché gli avversari dei franchisti, fra cui dei comunisti puri, vengono abbandonati a se stessi.

Il nostro scrittore, in Spagna come giornalista indipendente, di fronte al tradimento staliniano, stracciò la tessera  del partito comunista e, salvato da un intervento britannico dalla prossima fucilazione da parte dei franchisti che l’avevano catturato, ritornò in Francia. Qui fu imprigionato dal governo della Francia occupata, poi rilasciato. A questo punto, Koestler fuggì e si arruolò nella Legione Straniera per sfuggire alla deportazione nazista da parte del regime collaborazionista di Vichy, instaurato nel frattempo. Infine, riparò a Londra, prese la cittadinanza relativa e vi rimase sino alla fine, mettendo la sua penna al servizio del pensiero libero. Fra i vari scritti, è notevole il suo contributo all’abbattimento del mito di Stalin inserito nel volume “Il dio che è fallito”.

E’ prova di una grande lucidità vitale la sua autobiografia. Ma è il “Buio a mezzogiorno” ad aver fatto di Koestler uno scrittore affascinante. Il libro denuncia subito le sue intenzioni. Opere del genere di solito si perdono in involuzioni per una sorta di esibizionismo a favore del tema dirompente. Il bolscevismo aveva acceso molte speranze nella  mente degli intellettuali più sensibili: via il sistema tradizionale, opprimente la personalità umana, incapace di solidarietà, indifferente al rispetto per l’individuo.

Il bolscevismo professava l’eguaglianza fra gli uomini, predicava il comunismo puro, faceva balenare un mondo già giunto all’ultima fase della rivoluzione marxiana: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo il suo fabbisogno. Un sogno, un’utopia, certo, ma nell’Europa del tempo – un’Europa  fra le due guerre mondiali in cerca della stabilità – Lenin e Stalin parevano dei profeti di un nuovo mondo, mentre Mussolini, Hitler e Franco dei semplici ricostruttori del mondo precedente. La storia, che Koestler visse sulla sua pelle, andava a zig –zag, ma proprio la guerra civile in Spagna (che provocò la formazione di brigate internazionali) dimostrò che la mentalità conservatrice avrebbe ripreso il sopravvento. La questione sovietica rimaneva un fatto isolato, un problema interno risolto con la solita forza. La dittatura di Stalin apparve, infine, simile agli altri sistemi, se non peggio. E’ questo “se non peggio” che emerge dal romanzo di Koestler e che fa fare allo scrittore una serie di considerazioni intorno alla natura stessa dell’uomo, accarezzando l’idea che siano aberrazioni le rivolte contro un certo ritmo delle cose. Il N. 1 al quale il personaggio di Rubasciov addebita le malefatte (le famose purghe staliniane) potrebbe essere, anziché un criminale, una specie di padre della patria che per amore di quest’ultima è pronto a sacrificare anche i suoi figli migliori. Una deroga, anche minima, dalle sue direttive può essere considerata un virus altamente infettivo. Era come per la Chiesa nel Medioevo con gli eretici o sospettati tali in potenza: venivano eliminati senza pietà. Con la pietà, d’altro canto, non si governa, come insegna lo stesso Machiavelli. Si governa con l’astuzia e la determinazione. Tutto ciò, che nel libro è adombrato come concetto di fondo, appare, a mente serena, una elaborazione disperata, priva di speranza nei confronti di una necessaria emancipazione culturale e civile.

Questa emancipazione risponde a criteri comportamentali moderni, non da gregge. Nel secondo caso, le poche eccezioni vengono emarginate perché non intacchino l’ordine del gregge. stesso. A contatto con la civiltà inglese – dialetticamente ben più evoluta di quella sovietica – Koestler cambiò facilmente idea, allontanarsi dallo stalinismo, e poté esternare liberamente le sue perplessità dolorose intorno ad un sistema, quello di Mosca, che di comunista non aveva niente. Lo scrittore non va alle ragioni storiche per cui è avvenuto che una cosa si sia trasformata in un’altra: la sua speranza è ferma al’inizio, è bloccata sulla visione del mondo perfetto lasciato intravedere dal bolscevismo, è dunque egli si sente tradito dall’opportunismo di Mosca. Non dimentichiamo il patto di fratellanza fra quest’ultima e Berlino, cioè fra il nuovo e il vecchio: il patto rendeva tutto vecchio. Il romanzo è incentrato su un risentimento profondo, su un’amarezza senza fine, e cerca una consolazione prendendo in esame, con rara maestria espositiva,  il comportamento umano a prescindere dalle ideologie. A questo punto il nostro scrittore diventa un vero e proprio filosofo, riuscendo a mitigare le pretese della passione originale. Ma certo, sullo sfondo si staglia un grande senso di sconfitta: l’umanità è stata incapace di sfruttare un’occasione. La rivoluzione russa del 1917, una cosa potenzialmente catartica davvero, non ha avuto seguito. Tocca affidarsi alla libertà, seppure condizionata, offerta dal sistema democratico, meglio se inglese. Non si sa quanto Koestler fosse veramente convinto di questa scelta. Il suo suicidio, con la moglie Cynthia (lo scrittore, molto malato, era un fautore dell’eutanasia), potrebbe essere stato favorito anche da un disagio morale per la pochezza umana in termini di umanità.

 

Dario Lodi

Informazioni su 'Dario Lodi'