Ignaro di tutto ciò io contavo i giorni che mi separavano dalla “gita a Milano”.
Abitare a una ventina di chilometri dal capoluogo lombardo vuol dire abitare in provincia. Erano tempi molto diversi, il mio mondo aveva le dimensioni ridotte esplorabili in bicicletta e l'America, l'Africa e l'Australia erano soltanto immagini che ci facevano sognare grazie ai film. Il cinema, a voler ben guardare, era la perfetta macchina dei sogni che ora non funziona più tanto bene, perché con un click si sa tutto di tutti i trucchi utilizzati per realizzare questa o quella scena. Diavolo, con un click puoi parlare con una bella ragazza che se ne sta seduta nella sua stanza nel Village, a New York, a Perth, a Tokio o chissà dove.
A ogni modo, sto divagando...
La gita a Milano, dicevamo.
Erano i tempi dei primi giochi di ruolo, dei primi boardgame, logica conseguenza di una passione per i librogame nata fin dalle elementari. Il passaparola tra amici raccontava che in città (esisteva un'altra città, se non Milano?) c'era un negozio i cui scaffali traboccavano di giochi arrivati dritti dritti dall'America, il che ai nostri occhi da tredicenni voleva dire dal Paradiso, né più né meno. Questo posto l'aveva visto soltanto uno della nostra compagnia, il cui padre, fortunello, lavorava proprio a Milano.
A metà ottobre si avvicinava il mio compleanno. Quale altro regalo chiedere ai miei se non «portatemi al negozio ***?»
La reazione di mio papà non fu entusiasta. Lui a Milano ci aveva lavorato negli anni '60, in periferia, mica in centro, dove volevo andare io. La scintilla tra lui e i meneghini borghesi non era si era mai accesa. Da buon provinciale non amava la città, tanto che non ci andava mai, tanto tutto quello di cui avevamo bisogno era lì, a portata di mano.
Gli anni '80 erano infatti anche quelli della Standa e dei centri commerciali: bastava uscire di casa per trovare tutto quelle meraviglie che la TV ci faceva vedere ogni sera, dai Sofficini Findus alla Birra Peroni, dai Tegolini allo Skipper. E in effetti era così. Tranne per una cosa: quei giochi “da grandi” erano esclusiva della Città. Tra di noi amici lo vedevamo quasi come un pegno da pagare: se vuoi qualcosa di veramente bello devi sudartelo.
E a tredici anni, nel 1988, venti chilometri erano una distanza siderale.
Però ok: un compleanno è un compleanno. Mio papà si armò di tanta buona volontà, di un TuttoCittà (i navigatori erano cose che esistevano solo in Supercar...) e alla fine mi accontentò: gita Milano, con tappa primaria, nonché quasi unica, al negozio ***.
Bizzarro realizzare quanto la memoria sia selettiva. I grandi scrittori vogliono farci credere che le uniche cose degne di essere ricordate siano gli eventi “istituzionali”: primo bacio, matrimonio, prima volta, primo lutto in famiglia, diploma, laurea. In realtà la mente è più bizzarra e creativa degli imbrattacarte. A volte stampa a fuoco nella nostra memoria dei ricordi che per chiunque altro sarebbero ridicoli o insignificanti.
La mia prima visita in un vero e proprio negozio di giochi di ruolo fa parte di queste diapositive mnemoniche incancellabili. Ricordo il freddo assurdo di quel novembre, ricordo gli smadonnamenti di papà per trovare la via giusta, ricordo gli scaffali traboccanti di ogni ben di Dio, roba che da noi in provincia non si vedeva nemmeno mettendo insieme tutte le librerie che vendevano qualche copia di libro-giochi e pochi moduli di Dungeons & Dragons.
Alla fine comprai due giochi in busta – sì, esistevano anche quelli – che andavano incontro alle mie non certo illimitate disponibilità economiche. Uno in particolare, credo si chiamasse “Intruder” intitolato "Intruder", era uno spudorato plagio del film Alien: un giocatore interpretava i membri dell'equipaggio, l'altro gli alieni, che potevano filiare e guadagnare immunità a varie armi, man mano che passavano i turni di gioco. Esteticamente erano poca roba, mappe colorate con delle pedine ricavate da cartoncini disegnati e qualche pagina di regolamento in inglese, con allegata traduzione fotocopiata (!) in italiano.
Eppure furono acquisti bellissimi.
Come ultima cosa ricordo che portai a casa il catalogo del negozio, un sostanzioso volumetto bianco e blu su cui avrei sbavato per mesi, sperando di tornare presto in quella specie di Eldorado per ragazzini.
Il negozio *** esiste ancora. Se così si può dire. Ora vende soltanto fumetti. Fino a qualche anno fa era un'istituzione milanese nel settore delle graphic novel, ora sopravvive più col blasone che non per effettivi meriti. Un po' come quelle squadre, che ne so, il Bologna o il Torino, di cui si dice sempre «Wow! È un onore giocare in una società che ha vinto così tanti scudetti!»
Solo che poi vai a vedere e sono scudetti vinti quando la vita era ancora in bianco e nero.
Ieri mi sono ritrovato in zona e, dopo molto tempo, sono entrato a ***. Era già capitato forse tre o quattro anni fa, quindi non è che mi aspettassi chissà quale revival della memoria. Eppure proprio per questo mi ha preso all'improvviso una nostalgia così forte da toglierle il fiato, quantomeno per un minuto o due.
Dov'era finita la magia di quel gelido '88? Dove l'entusiasmo, dove un mondo fatto di rassicuranti certezze, in cui la massima preoccupazione era studiare per l'interrogazione e poi vivere in un mondo fatto di avventure, cavalieri, draghi e astronavi?
Gli anni più belli sono sfilati via, corsi come un treno con un biglietto di sola andata. E così capita poi che ti trovi in un negozio di fumetti, a quasi 36 anni, e ti senti per un attimo un immaturo coglione che è rimasto fermo a quel mondo per non affrontare le brutture che bussano sempre più alla porta di casa.
Certo, ora ho una carta di credito e i soldi sufficienti per comprarmi un carrello pieno di fumetti. Ma perché rimpiango quel gioco in busta, con le pedine di cartoncino e il regolamento ciclostilato su fogli semileggibili?
Poi passa un ragazzino. Madò, ora sembra quasi una roba romanzata, ma sembro io ventidue anni fa. Oddio, questo ha un iPod nelle orecchie, non è accompagnato da papà e indossa dei vestiti che nell'88 si vedevano soltanto nei film distopici tipo Robocop.
È lo sguardo ad accumunarci. Il suo di adesso col mio di allora. Lo stesso entusiasmo, la stessa brama, la stessa gioia di contare le monete per comprare quell'unico fumetto desiderato per settimane.
E allora sì, il mondo va avanti e magari non è così brutto come a volte ci piace immaginarlo. Fin quando ci sarà quell'entusiasmo negli occhi di qualche ragazzo, qualcosa di noi rimarrà anche in loro.
O almeno così mi piace fantasticare.