Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, Liz Taylor, James Dean, Elvis Presley. Sono alcuni dei semidei che devono molto a Andy Warhol. I personaggi citati, quando l’artista si interessò a loro, erano già stelle, erano eroi, ma il fatto di far parte della sua arte fu un valore aggiuntivo, e quanto importante, alla loro leggenda. Warhol (1930/1987), dagli anni ’60 agli ’80 ha rivoluzionato ogni ambito che riusciva a toccare: dall’illustrazione (Andy nasce come illustratore di moda e allestitore di vetrine di negozi), alla pittura, scultura, pubblicità, fotografia, cinema, musica, moda, design, giornalismo … La Factory di Warhol, il luogo dove si incontravano artisti e personaggi border, ma anche persone che l’arte la stavano davvero creando, in quegli anni di sperimentazione e vivacità a New York, è stata una fucina di idee, eventi, esperimenti, pazzie. Ma qualcosa di buono ne usciva sempre, magari di grande.
Ma la ricorrenza sta proprio in questo mese, esattamente 60 anni fa: 1962, anno di nascita della Pop Art americana, portata successivamente sulle sponde europee. I nomi prevalenti, oltre a quello di Warhol, sono quelli di Richard Hamilton, da Robert Rauschenberg e Jim Dine, Roy Lichtenstein, Tom Wesselman, Claes Oldenburg, George Segal e James Rosenquist. Nel Novembre 1962 Warhol espone per la prima volta in una mostra sua personale. Opere che hanno fatto la storia: del ’62 sono le bottiglie della Coca Cola, la zuppa Campbell, sia in scultura (Warhol aveva riproposto l’oggetto “reale” dal supermercato alla galleria, come forte simbolo sulla mercificazione dell’arte) sia in pittura e fotografia con l’immagini famigliari come quella di Joan Crawford, star hollywoodiana per eccellenza, in questo caso simbolo femminile americano. E’ anche l’anno in cui l’artista di Pittsburgh (Warhol era di origini ebraico/polacche, ma nato nella “capitale dell’acciaio”) realizza le opere con i grandi volti detti sopra. Nelle rappresentazioni di Marylin e di Elvis sembra che intuisse, per loro, un tragico destino. Tutto con la nuova tecnica da lui utilizzata per la prima volta del silk screening. La personale di Andy viene presentata non a New York ma a Los Angeles, alla galleria di Eleanor Ward, la Stable Gallery (33 East 74th Street). Los Angeles allora era la mecca del cinema, più che dell’arte figurativa. Si forma così uno scambio sinergico con New York. Si tratta di un certo tipo di cinema underground di cui Warhol sarà protagonista assoluto. Ancora 1962: Jonas Mekas, regista e scrittore undergound dell’epoca, fondò il New American Cinema Group aggregando 20 cineasti indipendenti. Ne fece parte anche Warhol, come autore indipendente… appunto. L’indicazione del gruppo era l’insofferenza verso un certo tipo di stile cinematografico, fatto di lustrini e molti soldi, un sistema old style e commerciale.
Warhol inizia a girare film nel 1963, proprio dopo aver frequentato Mekas. Acquista una cinepresa Bolex da 16 mm. Comincia a filmare tutto ciò che lo interessa, soprattutto persone che frequentano la Factory. Lo stile è, per allora, sperimentale: inquadratura fissa senza un focus particolare, ma lasciato tutto “al naturale”. I temi erano il luogo comune, il banale, il minimale, e poi i tempi dilatati. Del periodo ’63/’64 sono gli storici Sleep, Kiss, Eat, Empire, che vedono rispettivamente un uomo dormire, diverse coppie baciarsi, una donna mangiare e poi l’Empire State Building ripreso a camera fissa per diverse ore. Del resto Warhol sosteneva: “ trovo il montaggio troppo stancante […] lascio che la camera funzioni fino a che la pellicola finisce, così posso guardare le persone per come sono veramente.” Sono successivi, e si nota per crescita di stile e narrazione, gli storici Vinyl (durata 70 minuti, 1965), ripreso vagamente da Arancia Meccanica racconto di Anthony Burgess, quando ancora Kubrick non aveva realizzato il suo capolavoro, con i volti che poi Warhol utilizzò spesso di Gerard Malanga e l’affascinante Edie Sedwick; poi Chelsea Girls (210 minuti, 1966), film realizzato con Paul Morissey. Lo schermo è diviso in due, dunque le azioni sono divise in due, e sono brevi racconti – alla Warhol dunque poco narrativi, ma di cui lo spettatore osserva discorsi e immagini all’interno di camere di un famoso albergo a Chelsea -, e ancora The nude restaurant (100 minuti, 1967).
Quelli citati sono solo i titoli fondamentali ed esemplari. La sua ricerca cinematografica è vastissima. E ha lasciato un segno profondo, di attenzione e ispirazione, nella seconda parte del novecento.