Parigi chiama Amburgo, Alberto Giacometti in 9 capitoli maledetti

Alberto Giacometti

L’assonanza Modì\maudit colpisce ancora. Modigliani Soutine e gli artisti maledetti è infatti il nome della mostra recentemente inaugurata a Palazzo Reale di Milano, a cura di Marc Restellini, in cui la collezione Netter dischiude al pubblico, dopo il successo della tappa parigina, un nucleo di 120 opere dei vari Soutine, Utrillo, Suzanne Valadon, Kisling e soprattutto quel Modigliani, nome di punta del gruppo, ma che certo diventa un corifeo tanto più affascinante se avvolto nell’unico manto critico della stessa maledizione. Una veste interpretativa larga, di sartoria francese, per cui – ed è storicamente attendibile, per carità – “Parigi è ‘l’unico luogo al mondo in cui la rivolta ha il diritto di cittadinanza’, prima a Montmartre e poi a Montparnasse, che quegli artisti – tutti ebrei – si sono ritrovati per tentare la sorte”, riferisce il Curatore. Una veste, però, che vien da chiedersi se non possa in qualche modo riuscire troppo angusta, a furia del taglia e cuci di marketing con cui la capitale dell’arte – dato storico – viene riadattata periodicamente come epicentro dell’anatema.

Bohémiens, artisti, vagabondi e stramboidi di varia risma ne giravano, non è un romanzo – basti pensare, qualche anno prima, al borghesissimo Cèzanne impiastricciato di colori che si aggirava tra i cafè, inquietando leggermente gli avventori, secondo la testimonianza di Pissarro. Né, però, quest’aura romantica della maledizione, una negatività obbligatoriamente anti-positivista, deve sedurre l’analisi critica, come un gioco di prestigio da riesumare, in un rituale dello stupore, ad ogni occasione di vendita. Chè, mi pare, una volta le mostre fossero occasioni “filologiche”.

Ma se questo è il gioco, noi giochiamo. Tipo quel duello tra Merlino e la Maga Magò ne La spada nella roccia. Chi di spada ferisce, d’altronde, di spada perisce. Ed ecco, allora, che la mostra alla Kunsthalle di Amburgo su Alberto Giacometti (1901-1906)  - che, casi della vita, si chiama The Playing Fields – mi avrebbe fatto saltare in mente la possibilità di un racconto a suon di maledizioni dell’opera del carismatico e capitale scultore di origine svizzera. 120 lavori anche per la mostra di Giacometti; lunghi soggiorni a Parigi, a partire dal ’22; varie leggende più o meno confermate da biografie (quella di J. LORD, 1998, in particolare) e testimonianze (suggeriamo il fondamentale saggio di J. GENET, 1995); perfino uno studio provocatorio che intreccia la maledizione della biografia con la magia dell’arte (L. WILSON, Alberto Giacometti: myth, magic, and the man, 2003). Troppo forte la tentazione di avventurarsi, con così tanti segni del Destino – un finto diminutivo, così come “maledizione” è un finto accrescitivo: d’altronde, quello della fascinazione lessicale è il field su cui to play, su cui accettare la sfida. 

Nove maledizioni per raccontare Alberto Giacometti – o meglio, solo un frammento: dacché la totalità della sua opera ci resta preclusa, nello stesso modo in cui il pittore e sculture avvertiva come l’oggetto della rappresentazione gli restasse irrestituibile. Nove capitoli “maledetti” (in tre articoli) per scoprire, forse, che più che di maledizioni si parla di malesseri, e che da the magician, togliendo la sovrastruttura lessicale, si ricava la parola man. E con essa, l’immagine di un artista – ma il discorso è estendibile anche a Modigliani e compagni – tutto sommato preconizzata da molte delle rappresentazioni che della figura umana diede lo stesso Giacometti: una figura fragile, piuttosto che eletta da qualche marchio; scavata tormentosamente dalla presa di coscienza del proprio limite, piuttosto che rosa dalla sifilide o da qualche sortilegio morale. Nove capitoli, sfalsati temporalmente, di una storia disordinata, volutamente sbagliata: ma tant’è, basta e avanza, se ci si vuol nutrire di sughi, anziché di carni.

LA MALEDIZIONE DELLA DONNA – E forse è giusto così, se la vita sovrabbonda rispetto all’arte: con la saporosità degli episodi che sfugge all’analisi stretta. Tanto è vero, che lo stesso Giacometti racconta di un aneddoto della giovinezza in cui, poco dopo essere rimasto scottato dalla visione delle opere di Giotto, percepì di essere persino più soverchiato dalla realtà femminile, come per una malia post-puberile. Era il maggio del 1920: “La sera stessa tutte queste sensazioni contraddittorie vennero vanificate dalla vista di due o tre fanciulle che camminavano davanti a me. Mi parvero immense, al di là di ogni nozione di misura, e tutto il loro essere e i loro movimenti erano carichi di una violenza spaventosa. Le guardavo come in preda a un’allucinazione, invaso da una sensazione di terrore. Era come uno squarcio nella realtà”. Nel 1950 Giacometti realizza il bronzo Quattro figure su un piedistallo (VEDI GALLERY), di cui parla a Pierre Matisse definendole “un po’ i diavoli che escono dalla scatola, un po’ delle donne che ho veduto nella realtà (…)”. Le figure, puntute, allungate non tanto nell’eleganza dell’obelisco quanto nell’affilamento della daga, sono quelle di quattro puttane dello Sphinx, casa di tolleranza di Parigi, schierate in attesa della scelta. Si consideri che Les Demoiselles d’Avignon di Picasso era stato ispirato da un bordello di Barcellona e definito dall’autore “il mio primo dipinto di esorcismo”. Senza la funzione apotropaica delle maschere africane, attivata dallo spagnolo nelle due figure di destra, la scultura di Giacometti resta un esorcismo incompiuto, quello di una distanza deformante dalle donne, enfatizzata tanto dalla base, quanto dalla lunghezza delle gambe: un desiderio inaccessibile e, ad un tempo, “ripugnante”, come per pulsione erotica verso un mucchio di carne che (e di) strega. Si tratta, in riformulazioni diverse, di una distanza, di un rovello sull’inafferrabilità della figura, che ha percorso tutta l’opera di Giacometti.

LA MALEDIZIONE DEL CRANIO – Dal 1922 al 1925 l’artista studiò presso l’Accademia della Grande-Chaumière di Parigi. Di quel periodo, il grosso del lavoro è andato distrutto per insoddisfazione dello stesso Giacometti. Come nel caso della visione di Giotto spazzata dal turbamento del corpo femminile, l’incontro con la realtà finì per allontanarlo dagli studi accademici, in cui “il modello posava solo per un tempo limitato, finiva con l’andarsene prima che avessi potuto cogliere qualcosa”. Ma non se ne andò dalla testa, per qualche mese, l’ossessione per un cranio che gli era stato prestato. Il desiderio di dipingerlo fu tale che Giacometti lasciò momentaneamente l’Accademia: “Ho passato tutto l’inverno in una camera, a dipingere quel cranio, volendo precisarlo, coglierlo il più possibile. Passavo le giornate a tentare di trovare l’attaccature, dove si origina un dente, che può salire fino in prossimità del naso, di seguirla il più esattamente possibile in tutto il suo movimento (…) sarebbe andato ben oltre le mie possibilità di affrontare l’intero cranio, e così mi ridussi a fare più o meno solo la parte inferiore”. Si trattò, davvero, del pallino dello svizzero: l’impossibilità di restituire la visione delle cose. Alla fine degli anni ’20, Giacometti provò a rispondere alla maledizione con un’azione da “mentalista” dell’arte: come i Cubisti, puntò sulla memoria e sulla ricostruzione cerebrale; come Picasso, esorcizzò attraverso il ricorso al primitivo. Testa che guarda (VEDI GALLERY) del 1928 ne è un esempio: suggestionato dalle semplificazioni formali dell’arte delle Cicladi, l’artista appone un solco verticale ed uno orizzontale ad un volume squadrato. Testa e cranio non sono esattamente sinonimici, ma se si considera che il risultato è per certi versi una lapide, che della visione conserva una memoria svenata, lo si può ritenere, come in tante nature morte del ‘600, un memento mori, ma meta-testuale: non si riferisce, cioè, al ricordo della morte tout court, quanto alla mors perpetua della visione stessa, allo sfuggire – dagli occhi, dalle mani, dalla testa – della figura osservata.

LA MALEDIZIONE EROTICA – A 17 anni Giacometti aveva contratto una parotite degenerata fino a causargli un’irrimediabile sterilità. Impossibilitato a diventare padre e marito nel senso più pieno, l’artista ebbe un rapporto spesso conflittuale ed ambivalente con le donne, in bilico tra attrazione ed inibizione, idealizzazione e repulsa. La frequentazione delle prostitute fu una consuetudine che mantenne per tutta la vita. Alcune sculture a cavallo degli anni ’30 incarnano questi ectoplasmi erotici, sulla suggestione dei contatti con la cerchia surrealista di Breton, e segnatamente dell’eretico – ed erotico – Georges Bataille. Donna distesa che sogna, del 1929,è un bronzo enigmatico da sciogliere nel senso ultimo, ma percorribile, come sdrucciolando su di una sinusoide emotiva, nelle traiettorie tensive: la donna potrebbe essere il sottile nastro della parte superiore, col disco concavo ad alludere alla testa e la parte inferiore a costituire un giaciglio; ma potrebbe anche identificarsi con la figura inferiore – con la base ingurgitata nell’opera: plausibile visto il rilievo spesso assegnato da Giacometti a questo elemento espressivo – e con quella superiore a fungere da proiezione onirica; o, ancora, il tutto potrebbe alludere ad un “sogno” erotico, per cui le due figure starebbero esperendo un amplesso. Permane, ad ogni modo, un’articolazione plastica ambivalente, con le due bande ondulate che si avvicinano e si allontanano, si amplificano e si annullano, si riflettono e si contrappongono; e soprattutto, appaiono confisse, seccamente dilacerate dall’inguglirsi degli elementi lineari verticali, orizzontali ed obliqui. È, in nuce, l’asfissia di una gabbia, ma ancora aperta: un dispositivo in cui la liberazione del piacere si crocifigge sul cristallo aguzzo di un’irriducibile differenza. Più serrante diventerà la gabbia-meccanismo, con i noti Sfera sospesa e Gabbia (VEDI GALLERY) dell’anno dopo: abissi osmotici, in cui le pulsioni fluttuano in divoranti concrezioni plastiche, tra allusioni falliche e levigate, femminee rotondità. La visione – di un uomo, di una donna – è svaporata, ne resta un cinetismo bloccato, un eros immobilizzato da un thanatos non altro, ma intrinseco: un erotismo, in altre parole, maledettamente aggressivo.

(...continua...)

in foto: Jacques-André Boiffard, Alberto Giacometti, 1931, © Jacques-André Boiffard / Sammlung der Fotostiftung Schweiz, Winterthur, © Alberto Giacometti Estate (Fondation Alberto et Annette Giacometti, Paris) 2012

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