LabRouge apre il 2013 con un tributo a 2 grandi artisti in occasione di un film che li unisce. Allo Spazio Oberdan di Milano è stato presentato “Renoir”, diretto da Gilles Bourdos. Il film faceva parte della sezione “Un certain regard” nell’ambito dell’ultimo festival di Cannes. E’ un film di grande qualità, è incomprensibile come non abbia trovato una distribuzione italiana. O meglio è comprensibile essendo nota la … disattenzione, chiamiamola così, dei nostri cineasti. Si raccontano gli ultimi anni di Auguste (Michel Bouquet), gran maestro dell’Impressionismo, ancora attivo nella sua proprietà in Costa Azzurra, a partire dal 1915. Il vecchio pittore è devastato dalla sclerosi, che gli ha deformato le mani, ma non rinuncia al lavoro. Lo sostengono una schiera di aiutanti, tutte donne, lo trasportano sulla sedia a rotelle, gli fasciano le mani, gli infilano il pennello fra le dita, gli preparano la tavolozza: Renoir non ha la forza per trattare i colori, ma possiede ancora la grazia per disporli sulla tela. Le opere di quel periodo sono capolavori magari ancora più intensi di quelli precedenti. Il disegno è fragile e sfumato, quasi invisibile, ma i colori dichiarano una magia maggiore. Gli infiniti nudi, Le bagnanti, La colazione sull’erba, Le ragazze al piano: prendono forma lenta, ma la magia si compone. Ed è il regista Bourdos a comporla seguendo la mano deformata del vecchio. Sfocando là dove sfoca il colore. Perché Renoir, in quella sua ultima stagione, aveva talmente rarefatto il disegno fino a quasi sfiorare l’astrazione. E questa evoluzione la si deve al film, che dunque non solo rappresenta la vicenda umana, la vita finale dell’artista, ma anche il passaggio davvero immane fra il figurativo e la successiva ricerca che confluirà nella mutazione della pittura.
Ed è lì che arriva Jean, il figlio. Sopraggiunge al cancello lentissimo, perché procede sulle stampelle. E’ stato ferito in guerra. La casa, l’atelier, tutto gira intorno al grande vecchio. Domestici e modelle, e ora il figlio, tutto è in silenzio, per non disturbare l’ispirazione, e … il carattere non facile del malato. Ma qualcuno arriva, a catalizzare, a farsi vedere e rispettare. E’ Andrée Heukling (Christa Théret), una modella che sembra uscita da un dipinto del Tiziano. Una carne, una testa, un corpo fatti per essere dipinti. Da Renoir. La ragazza si aggira nuda nei prati, fra i cespugli e i ruscelli. Auguste la dipinge, Jean la guarda. Entrambi, in modi diversi, ma neppure tanto diversi, sono innamorati di lei. Nel frattempo Jean sta nutrendo la sua vocazione: sarà per il cinema ciò che suo padre è stato per la pittura. Proietta i primi filmati con un rudimentale proiettore. E’ come se sapesse che fra poco il “figurativo” sorpassato dalla pittura, diventerà prerogativa del cinema. Il cinema come rappresentazione del reale, con qualcosa in più, naturalmente, il movimento. Jean intende, una volta guarito, tornare al fronte, Andrée, disperata, lascia la proprietà, scompare. Manca a tutti. Jean la cerca, la trova in un bordello, se la riporta a casa.
Tutto il gruppo si ricompone. Il film finisce lì. Ma è doveroso proseguire il racconto, che è uno sviluppo inevitabile come un destino segnato. Perché al passaggio artistico quadro-film segue quello umano. Andrée nel 1920 ha sposato Jean. Il regista ne ha fatto la protagonista, col nome di Catherine Hessling, di alcuni dei suoi primi film (La file de l’eau, La petite marchand d’allumettes, Nana). Nel tempo i due si separarono. Per morire nello stesso anno, il 1979. Come detto sopra Jean Renoir è uno dei massimi artisti di cinema di sempre. Fa parte della spina dorsale di quella disciplina. Almeno due suoi titoli sono perennemente presenti nella parte più alta (diciamo nei primi dieci) della classifiche riconosciute, La grande illusione e La regola del gioco.