Il mio personale ricordo di Ronnie Cutrone. In loving memory.

Sono rimasto allibito quando, con un messaggio, alle 6.19 di mattina di martedi 23 luglio, il gallerista Matteo Lorenzelli mi ha comunicato la morte di Ronnie Cutrone. Pare che sia stato trovato, privo di vita, dal suo assistente nella casa di Lake Peekskill, vicino a New York, dove abitava da lungo tempo. Aveva appena (si fa per dire) 65 anni. Naturalmente ho cercato di saperne di più, ma non ho trovato che qualche laconico coccodrillo sui principali siti di arte contemporanea, da Artribune a Exibart ad Arslife. Non una riga sui quotidiani nazionali. Poco o nulla su internet. “Che cazzo!”, mi sono detto, “è mai possibile che non ci sia niente?”. Ronnie è morto il 21 luglio, pochi giorni dopo il suo compleanno. E’ nato a New York il 10 luglio 1948 ed è stato, come molti sapranno (o dovrebbero sapere) uno degli animatori della Factory di Andy Warhol, di cui è stato assistente tra il 1972 e il 1982. Con l’Italia ha sempre avuto un rapporto preferenziale, non solo per via delle sue origini italoamericane, ma anche perché aveva lavorato a Napoli con Lucio Amelio e poi a Milano con Salvatore Ala. Dagli anni Novanta, dopo una breve collaborazione con lo Studio D’Arte Raffaelli di Trento, aveva iniziato a lavorare stabilmente con la galleria Lorenzelli Arte di Milano, dove io l’ho conosciuto. Quello tra Matteo Lorenzelli e Ronnie Cutrone era molto di più di un semplice rapporto professionale. Erano amici. Ronnie Cutrone è stato l’artista con cui Matteo Lorenzelli ha inaugurato un nuovo corso della galleria, fino ad allora incentrata prevalentemente sull’arte astratta. Ronnie è stato per Matteo il simbolo di una scelta personale, che non ha mai rinnegato e che, per fortuna, ha permesso a me di conoscerlo e di amarne il lavoro. Cosa di cui sarò sempre grato a Matteo.

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Ritratto di Ronnie Cutrone

Ho conosciuto Ronnie Cutrone dieci anni fa, nel 2003, in occasione della prima delle tre mostre che ho curato dell’artista. Ricordo benissimo il giorno in cui fu chiesto a me – un giovane e inesperto curatore – di scrivere un testo sul suo lavoro. “Vieni subito”, mi dice Matteo. Nient’altro. Sfreccio lungo Viale Fulvio Testi con una Fiat Uno nera, come fossi un rapinatore in fuga dalle pantere della Polizia. Arrivo in galleria in Corso Buenos Aires all’ora di punta (lo chiamano drive time), quando gli uffici si svuotano e il mondo intero torna a casa dal lavoro.  Entro in quella che a me sembra uno dei templi dell’arte contemporanea milanese ed eccoli lì, stesi per terra, i lavori di uno dei più straordinari interpreti della Pop Art americana. C’è tutto: le bandiere a stelle e strisce, i supereroi nelle loro sgargianti uniformi, i personaggi dei cartoon, i gelati e le torte che si squagliano, i simboli e i marchi delle grandi corporate, i ritagli di giornale, le piccole mappe e cartine geografiche e poi le croci… rosse, nere, porpora. Non stavo nella pelle. Ero eccitato e, al tempo stesso, impaurito. Non avevo mai scritto per un artista straniero e volevo essere all’altezza della situazione.  Invece, sorprendentemente, all’inaugurazione della mostra, Ronnie Cutrone si rivela una persona affabile, alla mano. Mi fa i complimenti per il testo. Anzi, mi ringrazia di cuore in una bellissima dedica sul catalogo, accompagnata da uno dei suoi personaggi feticcio, Woody Woodpeacker. Ricordo che era accompagnato dalla sua terza (o quarta?) moglie, una giovane ragazza israeliana, con un passato di carrista nell’esercito. “Wow”, ho pensato, “questo si che è un artista, nell’arte come nella vita”.

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Io e Ronnie. 2 Ottobre 2003, Milano

Dopo l’opening in galleria andiamo a cena e Ronnie è una miniera di divertentissimi aneddoti sui personaggi che gravitavano nella Factory, da cui si era staccato nel 1982 per seguire un percorso personale ed unico, che lo avrebbe visto militare, a fianco di personaggi come Basquiat e Keith Haring nella Graffiti Art. In verità, Ronnie aveva poco a che fare con i graffiti. La sua arte era la prima, compiuta formulazione, di ciò che in seguito sarebbe stato il New Pop. Un’arte onesta e diretta, che parlava al cuore e alla mente della gente, usando una grammatica semplice, che anche un bambino poteva comprendere. Quella sera, a cena, Einat Katav-Cutrone (sua moglie) ci ha fatto una foto in cui si vede chiaramente quanto fossi felice. E lo ero davvero.

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La dedica di Ronnie sul catalogo della mostra “Tataboo”, Lorenzelli Arte, 2 ottobre – 22 novembre 2003, Milano.

Una cosa che mi colpì fu il fatto che Ronnie fosse completamente astemio. Credo fosse a causa degli stravizi che per un decennio avevano segnato la sua intensissima esperienza alla Factory con gente come Lou Reed e i Velvet Underground. Però era, comunque, un personaggio, per così dire, molto “rock & roll”, come testimoniano le belle foto di Timothy Greenfield-Sanders pubblicate sul catalogo.

Ho rivisto Cutrone tre anni dopo, nel 2006. Dovevo curare una sua mostra a Torino, intitolata Pop Shots, Explosions, Crosses and Cell Girls. L’esposizione raccoglieva un buon numero di lavori nuovi, che raffigurano volti di donne velate appartenenti a cellule terroristiche con le bandiere degli stati nemici del fondamentalismo islamico. Le Cell girls inauguravano un capitolo maturo della sua produzione pop, sempre più sensibile ai temi sociali e di attualità. Ricordo uno spassosissimo viaggio in macchina con Ronnie e Matteo alla volta della galleria torinese. Come al solito, Ronnie era prodigo di aneddoti e storielle sui personaggi più bizzarri che avesse conosciuto e aveva un modo di raccontare unico. Come un attore consumato, interpretava, con voci diverse, le parti dei protagonisti delle sue storie, che molto spesso si riferivano a quel dorato decennio passato con Andy Warhol. Un decennio importante per l’artista, che però lo aveva condannato a restare nel cono d’ombra di Warhol, fino alla sua definitiva separazione. Ronnie era un archivio d’informazioni. Avrebbe dovuto scrivere un libro su quegli anni, ma ha preferito dedicarsi alla sua arte, che poco o nulla aveva a che vedere con quella più algida del suo maestro.

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La dedica di Ronnie sul catalogo di “Pop Shots, Explosions, Crosses and Cell Girls”, Mar & Partners Art Gallery, 28 settembre – 1 dicembre 2006, Torino.

Anche in occasione della mostra torinese, Ronnie fu molto affettuoso (e paziente) con me. Si complimentò per il testo e ancora volle farmi una lusinghiera dedica sul catalogo. Mi scrisse: “For Ivan. My favourite writer, with a crystal clarity”.  Ronnie amava i testi semplici, così come amava quel tipo di arte diretta ed efficace, capace di arrivare al cuore di ogni persona.

L’ultima volta che ho incontrato Ronnie fu nel settembre 2010 per la sua terza e ultima mostra personale da Lorenzelli Arte, intitolata Pop, Off the Rack, By the Slice, Mix & Match, che presentava un nutrito corpus di lavori dedicati alla reinterpretazione delle copertine dei suoi dischi preferiti. L’argomento mi interessava parecchio. Matteo sapeva della mia passione per la musica e, così, mi chiamò, ancora una volta, a interpretare il lavoro di Cutrone. Appena vidi Ronnie, capii che qualcosa era cambiato. Sembrava invecchiato di colpo ed era certamente meno lucido del solito. La sua proverbiale astinenza dagli alcolici si era incrinata, ma la qualità del suo lavoro era cresciuta. Ronnie non era riuscito a finire le opere per la mostra e, così, lo trovai in galleria, impegnato a concludere quelli rimasti in sospeso. Li terminò solo il giorno prima dell’inaugurazione, in un clima di nervosismo generale.

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Io con Ronnie che finisce di dipingere i lavori di “Pop, Off the Rack, By the Slice, Mix & Match”, Lorenzelli Arte, 17 settembre – 20 novembre 2010, Milano.

Mentre tutti si adoperavano a finire per tempo, mi venne l’idea di proporre un’intervista di Ronnie al mensile Arte, pubblicato da Cairo Editore. Quando ne parlai a Mario Pagani, caporedattore della rivista, forzai un po’ la mano, dicendogli che era l’ultima occasione per intervistare un bravo artista, oltre che un testimone d’eccezione della Factory. Non sapevo che quella forzatura sarebbe stata profetica. Pagani è un tipo tosto. Accettò, a patto che restassi nella griglia di una rubrica intitolata “Cognome e nome”, che concedeva poco spazio al racconto e che si presentava come una sequenza fulminea di domande e risposte, con un corredo iconografico ricco di aneddoti e curiosità. Per me, che dovevo intervistare Ronnie e reperire ogni sorta di materiale fotografico, quell’articolo fu un vero e proprio parto, ma mi insegnò qualcosa di nuovo sul modo di realizzare un’intervista. Ad ogni modo, io e Judith van Vilet, allora assistente della galleria, accompagnammo Ronnie nello studio di Giorgio Majno, il fotografo incaricato di realizzare il servizio fotografico per la rivista. Fu un ennesimo pomeriggio di spasso. Ronnie posò come un istrione, facendo ogni genere di smorfia. Mentre mangia una simbolica banana, icona simbolo del celebre album dei Velvet, brandendola a mo’ di pistola, come un vecchio e scalcagnato cowboy dei nostri giorni o semplicemente bevendo una coca cola, mentre immagina di parlare con i personaggi delle sue opere, da Felix the Cat a Paperino, da Mickey Mouse all’Uomo Ragno. L’articolo fu pubblicato quattro mesi dopo, nel gennaio 2011, quando Ronnie era già tornato in America. L’intervista si chiudeva con una nota amara e insieme  ironica. Gli chiesi se, visto che Basquiat ed Haring, protagonisti della stagione che lui stesso aveva vissuto negli anni Ottanta, era morti, non pensasse che morire giovani fosse un modo per assicurarsi una fama imperitura. Mi disse così:

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Foto segnaletica di Ronnie Cutrone, realizzata da Giorgio Majno per la rivista “Arte” (Gennaio 2011, Cairo Editore).

Dopo Keith Haring e Basquiat, molti pensavano che io sarei stato il prossimo. La settimana dopo la morte di Keith, molti collezionisti mi chiamarono per acquistare le mie opere. Avrei potuto vendere almeno cinquanta dipinti, ma dissi loro che se erano davvero interessati dovevano richiamarmi dopo sei mesi. Solo due di loro si fecero vivi. La morte prematura può renderti celebre, ma io penso che sia meglio vivere”.

Bhe, è stato meglio così, pensai. Dopotutto,  non sono molti gli artisti che, come lui, possono vantare mostre al Whitney , al MoMA, al Brooklyn Museum di New York o al MOCA di Los Angeles.

Alla fine, gli chiesi se, per caso, non si sentisse un sopravvissuto dell’arte. La sua risposta fu questa:

A volte pranzo con Lou Reed, lo guardo negli occhi e gli chiedo ‘Sei ancora vivo?’. Lui mi risponde: ‘Gesù, tu sei ancora vivo?’ Siamo come scarafaggi, duri a morire”.

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All’inaugurazione dell’ultima personale milanese di Ronnie Cutrone.

Lo vidi ancora all’inaugurazione della mostra. Prima di ripartire lasciò a Matteo Lorenzelli un regalo per me, un grande acquarello con una buffa, enigmatica datazione: 1966-2010. Non ho mai capito se fosse uno scherzo o un semplice errore. L’acquarello mostra il gatto Felix mentre balla con Lady Gaga al Max’s Kansas City, un celebre night club di New York.

E’ l’ultima, preziosa, testimonianza della sua amicizia e della sua generosità nei miei confronti. Qualcosa che non potrò mai ripagare. “Accidenti a te, Ronnie!!! Avrei voluto almeno ringraziarti. E abbracciarti un’ultima volta”.

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Ronnie Cutrone, He danced with Lady Ga-Ga at Max’s Kansas City, tecnica mista su carta, 1966-2010.

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