Oggi inaugura la prima personale di Silvia Mei da Enzo Cannaviello a Milano (20 febbraio/29 marzo). | Una natura scura che tenta il sopravvento attraverso fronde mutate da verdi a nere, per poi ricambiare di nuovo in colore, attraverso fiori vivaci, foglie rosse e ancora verdi, come elemento salvifico per quell’essere umano che nelle opere di Silvia Mei prevale su tutto. L’umano e il suo doppio che domina rispetto al gruppo familiare a cui l’artista sarda spesso faceva riferimento in passato. Quell’ “individuo molteplice”, di cui parla Frida Khalo, l’artista messicana a cui aderiscono molti elementi della poetica della Mei. Una poetica inconfondibilmente femminile unita a uno stile brutale, che ha dei codici chiari, che riprendo da un mio testo dedicato alla pittrice sarda di poco tempo fa: “impatto grezzo, quasi primitivo, un richiamo forte a quell’Art brut di un Dubuffet, che già ricordava gli antichi segni delle caverne, o ai disegni infantili del nordico Gruppo Cobra, ma sopra cui la Mei elabora infiniti dettagli minuziosi e femminili, magari leziosi, da osservare pian piano sopra i grandi fogli bianchi su cui dipinge”.
L’evoluzione: ora le sue donne sono solitarie, ma spesso in coppia, unite da un elemento fondante della sua poetica: i capelli. Capelli come unione, capelli come applicazione sui grandi fogli di carta elaborati dall’artista, capelli come proseguimento di sé. E poi gli abiti colorati, non definiti nella forma e nella fantasia, ma più evanescenti ed elaborati. Quegli stessi abiti che coprono un corpo che la Mei ha devastato con i suoi difetti arcigni, estremi, che tengono l’opera in bilico tra quel piacevole sguardo di rimando dall’impatto del colore e della materia, ma dove sopravviene l’altra sensazione: quella dell’angoscia, della paura di queste figure umane allungate e spigolose, dai volti rettangolari e primitivi, e dal naso più spesso e materico, di un colore diverso come a sottolineare che non appartiene a quel contesto. Un’evoluzione dunque più forte: il volto diventa maschera – un rimando alla cultura dell’isola d’origine di Silvia Mei, la Sardegna – ed è attorniato da elementi floreali, spille, orecchini, corolle, macchie di colore. Il corpo è invaso da peli e elementi che, come radici, scorrono su gambe, braccia e petto, come a cercare un rifugio tra i seni nudi, e forse il grembo materno, luogo di pace. E poi quegli elementi che incombono: i corvi neri, gli scarafaggi, le minuscole faccine che, come tanti pensieri che si moltiplicano, rimangono sempre li, a scrutare. Un vocabolario complesso e faticoso che rende l’impatto non semplice, ma unico.
Rossella Farinotti