Le attrici Francesca Veronica Sanzari e Martina Sperotto hanno pensato il progetto fotografico Raped by the fairy tale. Esso “impegna” l’osservatore a respingere la violenza sulle donne. Martina Sperotto ricorda che la caratteristica principale delle principesse è l’aspettare. Nessuna di loro nasce e cresce nella felicità, che al massimo si potrebbe conquistare nel tempo. L’attesa più romanticamente fiabesca è certo quella del principe azzurro. Martina Sperotto critica l’idea che una donna abbisogni così fortemente di qualcuno, per diventare felice. Forse la principessa “svende” la bellezza del corpo o l’eleganza nel vestire, limitandosi ad “accertarle” solo in favore di chi la sposerà. Alla fine, la donna perderebbe l’autonomia decisionale e la libertà d’azione. Il progetto fotografico Raped by the fairy tale permetterà di “razionalizzare” l’atmosfera solo ingenuamente fiabesca della principessa che attende lo sposo “perfetto”. Oltre la visione semplicemente “in superficie” della metafora romantica, però, c’è il significato più profondo dell’accusa alla violenza sulle donne. Qui le due attrici (Francesca Veronica Sanzari/Martina Sperotto) hanno ispirato altrettanti fotografi (Michele Fatarella/Marta Bevacqua). Apriremo i nostri occhi sul fatto che spesso l’aura in apparenza “fiabesca” della “principessa”, sacrificatasi completamente per il proprio uomo, gli “protegge” (!) l’irrazionalismo dei maltrattamenti, o peggio degli stupri. Agli inizi del Novecento, in Italia le donne che assai coraggiosamente denunciavano d’aver subito una violenza erano quattro o cinque l’anno. Esistono le politiche per l’emancipazione femminile, ma spesso queste non fanno presa sulle famiglie. Nel 2000, una statistica molto preoccupante ci rivela che solo dal 20% delle donne maltrattate o stuprate poi parte una denuncia. In questa mostra fotografica, conta la traduzione del titolo dall’inglese all’italiano. Il verbo raped potrebbe giocare un ruolo “ambivalente”. Naturalmente c’è la traduzione letterale, per cui la fiaba “violenta” la donna. La mostra deve sensibilizzare: dunque piacerà in modo “razionalistico”, rientrando in significati cari alla cultura della nostra società. Negli anni ’60, gli psichiatri Snell e Shultz avanzarono la tesi che si violentassero le proprie mogli o fidanzate perché quelle avevano un carattere “poco femminile” (mancando di “dolcezza”, assunto nella coppia il comando decisionale), tale da ammettere la “reazione punitiva” del loro uomo! Purtroppo, segnaliamo gravemente che la donna perdura a “valere” tramite il pregiudizio della società patriarcale. Se essa fosse soltanto “l’accompagnatrice” dell’uomo, avendo le imprescindibili doti della dolcezza e della comprensione, si penserà che la sua aura “fiabesca” (sentimentalistica) finisca simbolicamente per… “violentarla”. Ivi la dimensione affettiva resta confinata nel più banale individualismo dell’uomo (perso ogni inquadramento nella società), portando con sé tutto l’irrazionalismo del maltrattamento o dello stupro. La serie fotografica di Marta Bevacqua è ambientata in esterna. Fondamentalmente vediamo un terno di toni: il bianco delle vesti, il “rosa… ingiallito” della pelle e della terra secca, il verde delle foglie. Il primo pare l’unico a caricarsi “positivamente”, nella metafora della purezza. Tuttavia le fotografie dove si vede il vestito sono poche. Il bianco rientra soprattutto nel “gioco ameno” fra le due ragazze, quando loro non avrebbero ancora conosciuto il dramma della violenza. Il vestito consente di sdraiarsi a terra. E’ la dimensione più materiale dell’esistenza, in cui le due ragazze si sentono ancora bene (senza il bisogno di fuggirne, trasfigurandosi nell’animo “contaminato” dalla violenza).
Marta Bevacqua ha inquadrato un vero e proprio eden, che però nascostamente manifesta dei segni “d’inquietudine” sentimentale. Una corona di fiori è di colore bianco, stretta attorno alla testa che giace a terra. Così il simbolismo della purezza ha già una vena “decadente”, rinunciando a trasfigurare spiritualmente l’intero corpo… Nelle intenzioni di Francesca Veronica Sanzari e Martina Sperotto, le fotografie di Marta Bevacqua ci racconterebbero la fine d’un “amore plagiato”. Illusa almeno all’inizio d’aver conseguito la felicità, sposando il suo principe azzurro, la donna s’accorgerebbe col tempo che lui in realtà è un violento, e la sua emancipazione passa inevitabilmente per la smitizzazione d’ogni romanticheria “fiabesca”. Nella corona di fiori che già “cala” a terra, risalteranno solo i lunghi “lacci” del “plagio” amoroso. Le fotografie di Marta Bevacqua un po’ alla volta si vedono sempre più “di rosa ingiallito”. La pelle nuda delle modelle si percepisce parimenti alla secchezza della terra, quasi senza erba. L’unica occasione di “crescita esistenziale” si dà negli abbracci, che “ramificano” i corpi. Le due modelle cercano una solidarietà tutta al femminile, mentre la figura del maschio violentatore è visivamente assente, perché “incomberà” nell’astrazione del loro pensiero. Se spogliate, Marta Bevacqua di rado ne inquadra gli occhi, e mai la pienezza del volto. Spesso, la donna subisce una violenza e tende a tacerla pubblicamente, vergognandosi di denunciare il fidanzato od il marito che lei ha sempre amato. La serie fotografica di Marta Bevacqua si conclude idealmente col simbolismo d’una nuova trasfigurazione. Il corpo nudo della modella risale dalle chiome vegetali, coi capelli che finalmente non “colano” più sulla schiena (come se perdessero sangue). Nell’immaginario collettivo, sarebbe stata Eva a provocare la “ribellione” di Adamo contro Dio… Parecchi psichiatri in passato “giustificavano” il violentatore perché la donna faceva le “civetterie” con lui! Ora Marta Bevacqua ricorda che gli stupri ed i maltrattamenti non sono “scusabili”. Anche la “provocatrice” Eva avrebbe il diritto di risorgere, come ogni vittima. E’ interessante aggiungere che, nelle intenzioni di Francesca Veronica Sanzari, il suo uso degli abiti bianchi (purificanti) avverrebbe a violenza già consumata. Così percepiremmo proprio un diritto a risorgere. Dalla semplice… “bianchezza” del romanticismo illusorio, si passa dunque alla più profonda “trasparenza” della… “verità” nell’emancipazione. Nella mostra di Francesca Veronica Sanzari e Martina Sperotto, il verbo raped è stato tradotto in via figurata, perché secondo loro la fiaba “plagerebbe” la donna. L’accusa alla violenza non diminuisce di forza. Modernamente tendiamo a respingere chi plagia qualcuno, soprattutto nel caso degli artisti. Bisogna che questi siano sempre originali, pena il rischio di “squalificarsi” nell’accademico (lo scontato). L’uomo che stupra una donna forse “plagia” al massimo grado. La dimensione dell’alterità è completamente annullata in se stessa. Nell’individualismo del violentatore, sembra che agisca un unico corpo: il suo, anche in quello che invece non gli apparterebbe. Certo la storia insegna che spesso la donna si fa… “plagiare” dalla società patriarcale. In Italia, l’autorità del marito sulla moglie è stata abolita soltanto nel 1975! Nel 1996, il nostro parlamento ha varato una legge che per la prima volta segnala lo stupro un reato contro la persona, e non più perché immorale. Blumer nel 1971 scriveva che tutti i problemi sociali, anziché derivare da un preciso malfunzionamento delle istituzioni, paiono la presa di coscienza collettiva che qualcosa “sta andando negativamente”. Gli abusi sulle donne purtroppo esistono da sempre. Soltanto, muta il nostro modo di “combatterli” in via pubblica. Dobbiamo riconoscere che spesso, davanti alla donna stuprata, qualcuno stupidamente le rinfaccia d’essersela cercata: portando un vestito molto provocante, camminando in strade malfamate, o frequentando uomini al di fuori del suo matrimonio! Varrà il pregiudizio psicologistico per cui il maschio “si eccita” con poco, mentre la femmina ama “la civetteria”. C’è il pericolo che così la cultura sociale finisca per limare la condanna personale del violentatore. Ove le donne accettino passivamente il predominio dell’uomo, nella vita pubblica, veramente accadrà che solo il 20% di quelle poi denunci il maltrattamento o lo stupro. E’ la fenomenologia del “plagio”, che si vede nelle fotografie di Francesca Veronica Sanzari e Martina Sperotto. Nella maggior parte dei casi, la donna già conosceva il suo stupratore, fidandosi di lui. Spesso il mantenimento dell’ordine patriarcale le toglie il coraggio di denunciare il fidanzato, il marito od il parente. La donna teme che gli altri familiari possano ripudiarla, per la vergogna causata a tutti. Nella mostra fotografica, alle due modelle preme il caso più “ingenuamente romantico” degli abusi che plagiano. La donna rinuncerà a denunciare il marito od il fidanzato, perché nonostante tutto lei si sente ancora innamorata di lui. E’ il caso dove riusciamo con più difficoltà a “spezzare”… il “plagio fiabesco” della violenza. Oggigiorno, intorno alle motivazioni che spingono a maltrattare o stuprare una donna, s’abbandona la “pista” psicologistica (che rischia di alleggerire la gravità dell’accaduto), in favore di quella antropologica. La società massmediatica tende a pubblicizzare il modello della persona vincente, in campo sia professionale sia sentimentale. Agli occhi del violentatore, la donna sarebbe una sua antagonista. Può succedere che il primo fraintenda stupidamente una “semplice simpatia” della seconda, o che non accetti la “delusione” del suo rifiuto a concedere il rapporto sessuale. A volte da un gioco erotico l’uomo passa negativamente alla violenza, come se lui volesse vincere a tutti i costi… Negli stupri di gruppo, la donna subisce la reazione di più persone “che non pensano come lei”. La causa è proprio il pregiudizio delirante dell’antagonismo fra i sessi. Gli studi antropologici puntano l’indice contro i “falsi” (cattivi) modelli del consumismo contemporaneo, che concorrerebbero a “plagiare” la morale e la razionalità di alcuni uomini. Scattando sul tema della violenza alla donna, Michele Fatarella ha scelto l’estetica del bianco/nero. Gli interessa il modo indelebile in cui i maltrattamenti e gli stupri segnano la vita della vittima. La mano del violentatore può tappare la bocca della donna, sino ad “accelerarne” simbolicamente l’invecchiamento, con la tensione delle rughe. La pettinatura “si sconvolgerebbe”, raccogliendo in se stessa tutta la rabbia della vittima. Forse solo il braccio che risale alla mente può rappresentare l’immagine del sostegno. Quello non “piace” mai al violentatore, il quale si preoccupa immediatamente d’immobilizzarlo. A posare per Michele Fatarella è la sola Francesca Veronica Sanzari. Proprio lei ha avuto l’idea di farsi riprendere fra la vegetazione. Nelle fotografie di Michele Fatarella scompare ogni simbolismo “paradisiaco”, di contro a quelle di Marta Bevacqua. Ora la preferenza del bianco/nero serve per rappresentare semplicemente il dramma della violenza psicofisica. L’osservatore percepisce il ritrovamento del corpo nudo, inerme, fra le radici o le ramificazioni vegetali. A stupro già consumato, la posizione fetale ci sembrerà esteticamente di resa dialettica, mentre suggerisce la metafora della rinascita. Quantomeno il bosco, con la crescita delle radici e delle ramificazioni, potrebbe alla lunga “coprire” i segni indelebili della violenza sul corpo. Ma il fotografo sa perfettamente che la donna avrà bisogno di “rivivere” soprattutto nell’anima.