. Umanesimo e Rinascimento
La prima forma di laicismo in Italia si presenta con L’Umanesimo, specialmente quando quest’ultimo raggiunge il suo culmine, e cioè a metà del Quattrocento. Seguirà il Rinascimento e il fenomeno umanistico avrà una battuta d’arresto. Se si considera la sua purezza da Dante e Petrarca, da Giotto e Masaccio e la si paragona al trionfalismo rinascimentale, si converrà che qualcosa, nel Rinascimento, è come andato perduto, o messo fra parentesi: l’Umanesimo che perseguiva un fine spirituale cercando direttamente e indirettamente di riportare la chiesa verso la sua vera missione etica, s’è arenato al cospetto di una forte reazione ecclesiastica a tutti i tentativi, religiosi e laici, di interferire nelle cose di competenza della chiesa centrale, quella romana. A suffragio di questa reazione, va detto che essa è figlia di un atteggiamento filosofico ritenuto sacro dai proponenti per cui la chiesa romana è la sola autorizzata a divulgare il verbo divino – il sapere superiore - in quanto custode delle testimonianze apostoliche, ovvero delle esatte parole di Gesù. Per tutto il Medioevo, il sapere superiore non era considerato sicuramente quello pagano, quello della filosofia greca, bensì quello della chiesa, dello spirito. Lo stesso Umanesimo, fatto di neoplatonismo e di ermetismo, si basava su questo riferimento, cercando di dare a esso ancora maggiore fondamento, razionalizzandolo. Il Rinascimento risente delle istanze ecclesiastiche, votate a esaltare l’opera della chiesa romana: Leonardo, Raffaello e Michelangelo (specie gli ultimi due) tenteranno di sostenere una spiritualità ispirata e intelligente, ma in buona parte dovranno soccombere alle pretese totemiche della committenza papale. In pratica, l’Umanesimo verrà travolto, verrà emarginato, dalla fastosa campagna ecclesiastica a favore della chiesa centrale, minacciata dalle solite eresie, quella in atto – la luterana – di consistenza insolita grazie all’appoggio dei principi tedeschi.
. Fine di Roma
Lutero denuncia le malefatte romane nel 1517; l’imperatore Carlo V fa mettere a sacco la città dieci anni dopo per spezzare il potere temporale di Roma. Si mette in moto, dal 1527 al 1555, un tentativo imperiale di purificazione della chiesa e quindi una ricostruzione del Sacro Romano Impero: operazione alla quale si oppongono i principi tedeschi, poi vari altri alleati. Quando gli oppositori a Carlo V minacciano di ricorrere a un’alleanza con i turchi, crolla il mito dell’Impero Cristiano: crolla male, evidentemente. La Pace di Augusta del 1555 decreta la vera fine del Medioevo. Alla firma della stessa da parte imperiale, Carlo V non c’è (deluso, finirà in convento e vi morirà nel 1558); al suo posto firma il fratello maggiore Ferdinando. La Pace decreta che sarà chi governa il dato territorio a decidere quale religione debba seguire il popolo. Roma non crede a tutto questo, pensa si tratti di un’eresia speciale che comunque verrà debellata. Intanto prosegue l’opera di purificazione interna che sarà caratterizzata dalle decisioni prese durante il Concilio di Trento (1545-1563), al quale i Protestanti non saranno presenti. Seguiranno lotte furibonde in Europa per la spartizione delle spoglie del Sacro Romano Impero: guerre di religione, verranno chiamate, ma furono soprattutto guerre di potere, sino alla guerra civile europea (Guerra dei Trent’anni, 1618-1648) più terribile, a detta degli storici, della prima guerra mondiale.
. La periferia Italia
La certezza della chiesa romana che tutto sarebbe tornato come prima, nonostante le provocazioni determinate e pratiche dei protestanti, si scontrò presto con la realtà. Filippo II, successore al trono spagnolo del padre Carlo V (la nomina imperiale andò invece al fratello di Carlo, Ferdinando), difese a fatica il cattolicesimo (la sua spedizione in Inghilterra per ripristinare il potere ecclesiastico romano fallì per colpa del tempo, pessimo sulla Manica, e per le capacità marinare di Francis Drake al servizio della regina Elisabetta I), e peggio fu successivamente con il dissolvimento palese del vecchio mondo europeo a vantaggio di quello materialista. La relativa ma decisa involuzione cattolica in Europa portò a una specie di rifugio della chiesa romana entro le mura italiane. Riapparve l’Umanesimo sotto spoglie scientifiche e diede la personalità di Galileo, primo scienziato moderno, subito umiliato dalla chiesa. Quest’ultima, in Italia, perse ufficialmente potere temporale, ma ufficiosamente lo tenne ben stretto a sé, usandolo come clava presso i ceti inferiori, esclusi dal sistema principale, ovvero inseriti in esso come semplici servitori: le loro scarse ribellioni furono dovute al controllo ecclesiastico, così come la loro mancata evoluzione. La vecchia spiritualità della chiesa fu sostituita dal mestiere di dispensare spiritualità, facendo balenare nella mente dei meno provveduti culturalmente il pericolo di punizione celeste (e terrestre) in caso di anarchia. La chiesa, insomma, gettava la maschera, soffocando o sminuendo le pretese morali canoniche appartenenti al vecchio credo religioso. Il sistema, vista l’assenza di un potere centrale – l’Italia fu terra di conquista delle maggiori potenze europee -, si organizzò dando vita al latifondismo, ovvero a un feudalesimo moderno, dove la modernità stava nella esitazione dei beni a discrezione del padrone. Nei secoli immediatamente precedenti, nel Quattrocento e Cinquecento, all’ombra delle varie dispute fra papi, imperatori, principi e re, s’era formato un forte tessuto commerciale in Europa – una cosa a parte e sufficientemente autonoma rispetto ai poteri tradizionali – che consentiva lo scambio dei prodotti anche a lunga distanza. Nel Medioevo esisteva una produzione locale e un consumo conseguente, con scambi generalmente rari, per cui il lavoratore era un operatore qualificato, mentre con l’allargamento del mercato al consumo, il lavoratore arrivava a dipendere maggiormente dalla organizzazione padronale, divenendo uno strumento e perdendo la sua identità: con queste caratteristiche di stagnazione civile, non era possibile pensare alla promozione della laicità, ovvero dell’auto-determinazione. La chiesa faceva la sua parte assecondando il sistema, nella certezza, con pigra buonafede o proprio per disinteresse nei confronti del concetto di essere umano, di fare del bene a tutti. Il carattere verticale del sistema di potere latifondistico dava adito, infatti, a una sorta di paternalismo (spesso inoltre fasullo) che ben sposava il paternalismo ecclesiastico di vecchia data. L’Italia orgogliosa di Pico della Mirandola, maestra d’Europa, cadeva in un letargo al quale solo pochi e isolati riusciranno a sottrarsi. Sarà più efficace una omologazione conservatrice, culturalmente attaccata alle virgole di un accademismo pedante e soffocante e alle volute, alle spirali dell’arte Barocca nel nome di un prestigio – quello religioso – non più primario, prossimo allo spegnimento. Le reazioni popolari si risolvono in chiassate di piazza, rapidamente fagocitate dal sistema e punite drammaticamente: basti pensare alla vicenda del napoletano Masaniello (Tommaso Aniello) contro l’oppressione spagnola (una voce di libertà, quindi laica, eccezionale nel ‘600 italiano). Di là di ogni agiografia, fu un fiasco, lui tradito e trucidato.
. L’illuminismo in Italia
A proposito di Napoli, la città brillò, insieme a Milano, per un certo impegno nella speculazione illuministica, sebbene, in genere, gli animatori attuassero forme di pensiero non coinvolgenti il sistema nel quale operarono. Ad esempio, il padre napoletano dell’Illuminismo, e cioè Giambattista Vico, formulò una filosofia nella quale l’azione umana non poteva avere successo senza l’intervento divino. I suoi “corsi e ricorsi storici” descrivono tentativi di emancipazione umana puntualmente frustrati dai limiti della personalità dell’uomo. Senza la moralità (la guida) religiosa, l’uomo è un animale: lo salva un po’ di raziocinio che gli consente di riconoscere l’importanza di dio e di affidarsi a lui (alla provvidenza, che sarà, poi, quella manzoniana). Più entusiasta delle istanze illuministiche è Antonio Genovesi, un sacerdote, per sbarcare il lunario, presto determinato a valorizzare il mondo nuovo rappresentato dalla filosofia degli Illuministi. Genovesi fu attratto, in particolare, dalle idee di John Locke. A Milano la novità inglese e francese dei “Lumi” fu vissuta in modo snobistico, ma anche con una determinata convinzione di progresso civile (arma da brandire contro l’occupazione austriaca) specialmente dai fratelli Verri, Pietro, Alessandro e Giovanni, i primi due molto attivi nella redazione de “Il caffè”, inviso agli occupanti. Personaggio di notevole rilievo nell’ambiente illuminato lombardo fu Cesare Beccaria (“Dei delitti e delle pene” il suo testo, di grande e fiera umanità: vi si propugna, per la prima volta in modo esplicito e caloroso, l’annullamento della tortura e della pena di morte). Altri simpatizzanti illuministi e in qualche modo rinnovatori del pensiero e delle forme artistiche italiane furono Vittorio Alfieri (la sua autobiografia è un lucido cammino verso la auto-determinazione), Carlo Goldoni (un rivoluzionario nelle opere teatrali, molto detestato dall’accademico Carlo Gozzi, e non sempre a torto: non poche commedie goldoniane sono dei canovacci di basso profilo), Ugo Foscolo (uno dei pochi romantici italiani, amante del titanismo), Giuseppe Parini (un orgoglioso fustigatore dei costumi della nobiltà e dei privilegi delle classi abbienti, preti compresi – lui stesso lo era).
Inutile cercare, in tutto questo, della originalità. Lo stesso Goldoni s’ispirava, per le sue opere, alla “Commedia dell’Arte”, un fenomeno tutto italiano – non particolarmente brillante perché destinato a un pubblico semplice - molto apprezzato in Francia. La fortuna della “Commedia dell’Arte” fu la proposta di attori capaci di improvvisare (o di fingere assai abilmente di farlo). Antonio de Curtis (in arte Totò) è stato il loro erede più illustre. L’Italia era diventata, insomma, una provincia dell’Europa, un’appendice persino trascurabile e delle maggiori iniziative culturali europee era in grado per lo più di farne parodia.
. La riscossa risorgimentale
Tre sono i personaggi che nell’Ottocento caratterizzano particolarmente la marcia italiana verso la laicità: Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Entro una logica strategica da parte delle grandi potenze europee, Francia, Inghilterra e Prussia, volta a creare uno stato unitario in contrapposizione, a sud, dell’Impero Austro-Ungarico, e cioè l’Italia, questi tre personaggi si distinguono per serietà e purezza di cuore. Il Risorgimento italiano, fanfare a parte, è una questione che non riguarda gli italiani comuni, bensì riguarda la borghesia che vide nelle guerre risorgimentali un’occasione per entrare in grande stile nel ricco mercato europeo. L’Impero Austro-Ungarico rappresentava il passato conservatore e parassitario, ma era ancora molto potente. Per questo nacque una sorta di colazione fra i tre Paesi citati per favorire la costituzione dello Stato italiano. Insomma, una insieme di circostanze favorevoli consentirono ai Savoia d’impugnare lo scettro del Regno d’Italia: un regno da operetta, battezzato dalla macchia dei massacri di “ribelli, briganti borbonici” da parte dei soldati piemontesi (più morti italiani che in tutte le tre guerre d’indipendenza messe insieme). In mezzo a tali circostanze, Cavour, Mazzini e Garibaldi operarono per la creazione di una realtà utopistica ma possibile, seguendo con dignità le indicazioni civili partorite dalla mentalità laica, frutto dell’incontro fra una borghesia e una aristocrazia illuminate. Dei tre il maggior sognatore fu Mazzini, al quale dobbiamo l’idea repubblicana moderna, svincolata da ogni forma di potere dall’alto. Idea utopistica perché antistorica (nel senso che la storia è andata ostinatamente in una certa direzione: fargliela cambiare richiede un impegno quasi sovrumano), ma di sicuro affascinante e gratificante per l’esaltazione del valore in sé dell’uomo, di ogni uomo. Il più focoso dei tre fu Garibaldi, vessillifero della libertà individuale che lui ravvisava nell’abbattimento del regime borbonico, un regime paternalistico al ribasso. Garibaldi si professava socialista, di certo fu progressista, nemico di ogni potere auto-costituito, su tutti quello della chiesa, visti come sfruttamento del più debole (cosa in buona parte vera, come ben si sa). Cavour appare il più equilibrato fra questi personaggi e risulta un autentico vanto per la nuova cultura italiana. Cavour è un personaggio di portata internazionale. La frase: “Libera chiesa in libero stato” (non sua, ma da lui usata con grande convinzione) è un vero e proprio manifesto a favore della spiritualità personale e della dignità individuale, due cose che appartengono al laico responsabile. Cavour si esprime in modo nettamente superiore a ciò che recitano le litanie del tempo anche in senso liberale: egli entra nell’alveo idealistico, ciò è indubbio, ma lo fa con cognizione di causa, promuovendo l’ideale a reale.
. Il laicismo italiano del ‘900
Con la presa di Roma da parte dei piemontesi (Breccia di Porta Pia, 1870), nell’occasione italiani, crolla definitivamente il potere religioso ecclesiastico, quello temporale, s’intende. Dovrebbe essere confermato uno stato laico, con il Vaticano ridotto a uno spazio irrisorio. Certo è così da un punto di vista formale, mentre da quello sostanziale, la religione non è affatto sconfitta. Occorre tenere conto, infatti, del substrato popolare, ovvero di una massa enorme di persone che dipende ancora psicologicamente dal dogma religioso. La società di base sta insieme perché crede più alla chiesa che al governo. Se ne accorge anche Giolitti, forse il maggior capo di stato italiano, che tuttavia si comporta con molta diplomazia, evitando approcci intensi con la chiesa e puntando con decisione sulle vicende sociali pratiche. Giolitti, pragmatico, farà la guerra alla Libia, ovvero cercherà di acquisire qualche spoglia dell’impero turco, in crisi irreversibile, ma sarà contrario alla prima guerra mondiale. Verranno altri a dichiararla (cambiando alleato quasi all’ultimo momento), l’Italia vincerà e diventerà una credibile media potenza europea. Mussolini, attratto dalla possibilità di maggior conquiste, s’imbarcherà in un’impresa più grande di lui, la seconda guerra mondiale, dalla quale sarà fisicamente eliminato (per iniziativa partigiana). Prima di tutto ciò, il duce, nato mangiapreti, trovò modo di mostrare la propria disinvoltura e il proprio opportunismo facendo sposare il regime fascista con la chiesa (Patti Lateranensi, 1929). Di fatto, questo matrimonio sancì la fine dell’Italia risorgimentale, sconfisse gli ideali cavourriani e mazziniani. Questa sconfitta non fu tuttavia definitiva. Anche in piena era fascista, sorsero degli epigoni di quegli ideali e anche degli sviluppatori di essi. Fra questi ultimi, occorre sicuramente evidenziare: Giacomo Matteotti, Leone Ginzburg, Benedetto Croce, Enrico Fermi, Adriano Olivetti, Altiero Spinelli, Eugenio Montale.
Giacomo Matteotti pagò con la vita l’opposizione a Mussolini, ovvero l’opposizione a un regime dittatoriale non molto dissimile dai vecchi poteri convenzionali – monarchia e papato – capaci di umiliare la dignità dell’uomo. In piena aula pronunciò un discorso coraggioso con il quale denunciò il degrado civile che il fascismo stava attuando. Mussolini volle che fosse punito. I punitori, degli squadristi, esagerarono, ma pagarono una miseria la loro ferocia. Morto Matteotti, finì praticamente l’opposizione e nacque il famoso e triste ventennio fascista: nacque un regime conservatore difeso con il bastone. Un ritorno al Medioevo.
Leone Ginzburg non mollò, a differenza di Norberto Bobbio (poi sinceramente pentito), e di molti altri intellettuali. Bobbio in particolare fu costretto dalla famiglia a scrivere a Mussolini chiedendo perdono per certe iniziative giovanili non favorevoli al regime, e implorando un’occupazione accademica (cosa che ebbe). Ginzburg, amico di Bobbio, non piegò mai il capo. Elaborò invece dei testi molto articolati, argomentati con rara raffinatezza, chiari, espliciti, sul tema della necessità per l’uomo di pensare e agire liberamente all’interno della società. Egli concepiva una società matura, intelligente, preparata e dignitosa.
Dagli scritti di Ginzburg balza all’occhio una passione pura per la missione laica che il giovane intende portare avanti a tutti i costi (morirà, per questa ostinazione, nel 1944 in seguito alle bastonature naziste: una perdita gravissima per l’Italia e per l’umanità intera), Nulla di svenevole e nulla di utopistico: una trattazione limpida e costruttiva (più che creativa) nei confronti della società del futuro, una società libera dai gravami tradizionali e dotata di strumenti assai efficaci per crescere ancora.
Benedetto Croce, dopo qualche simpatia fascista, anche marcata (ad esempio non ritenne Mussolini il mandante del delitto Matteotti, pensò al fascismo come a un ponte di passaggio verso la ricostituzione di un’Italia liberale alla Giolitti, politico che apprezzava particolarmente), divenne dal 1925, il riferimento degli antifascisti italiani e intellettuali, vivendo appartato di opposizione al regime fatta di educati, ma fermi pamphlet, nei quali ipotizzava la nascita di una società molto simile a quella teorizzata da Ginzburg.
Notevole, tuttavia, la differenza fra i due: Croce era principalmente un moralista di vecchio stampo aristocratico, Ginzburg un convinto liberale entro un ambito comunitario e solidaristico come conquista razionale. Croce si muove in una logica strettamente morale. Bisogna essere così, severi con e stessi, per onorare la personalità umana. Egli è più kantiano che hegeliano, a bene vedere. Al ciò che è reale è razionale, nel caso di Croce sarebbe bene aggiungere: e ciò che è razionale risponde a una regola morale. Il titano di Hegel, nelle mani del Nostro, diventa un uomo virtuoso, non certo un oppressore. Croce non giunge alle conclusioni di Hegel: non vede alcuna Prussia in cattedra, bensì la dignità morale come guida.
In Ginzburg la morale è insita nella trattazione intellettuale: per lui viene prima il pensiero, il ragionamento su come riflettere e su come agire nei confronti di se stessi, del prossimo e del mondo tutto: il suo è un uomo nuovo, tirato a lucido in tutti i sensi. Ma certo la morale rigida e severa di Croce è un appoggio non indifferente e concreto per il cammino dell’uomo, per un cammino, cioè, privo di riferimenti astratti, sognati, inventati, subiti.
Enrico Fermi, sulle orme delle scoperte scientifiche del ‘900, è uno dei pionieri più acuti nella corsa alla scoperta della intimità della natura. Il suo nome è legato all’energia atomica per scopi bellici, ma si tratta, in fondo, di una distorsione della realtà. Fermi, con i “ragazzi” di Via Panisperna a Roma, studiava per la scoperta di un’energia pulita e costo zero.
Adriano Olivetti è stato il maggiore imprenditore mondiale del ‘900. Con la Olivetti realizzò un’azienda modello e soprattutto a misura d’uomo. Personaggio dotato di grande intelligenza, si circondò diIntellettuali facendo della Olivetti un’oasi di sapienza e di umanità. Molto interessanti anche i suoi scritti, redatti sulla linea di Ginzburg, con l’aggiunta di considerazioni precise e amare sulle condizioni politiche italiane, con apprezzamenti giustamente negativi intorno alla macchina politica. Purtroppo Adriano Olivetti morì anzitempo e la sua creatura cominciò subito a declinare.
Fra i primi a parlare di Europa moderna, abbiamo Altiero Spinelli, il quale immaginava un Continente svuotato di Napoleoni e di sante alleanze, di regimi imperiali e di poteri religiosi: una magnifica realtà sociale composta da comportamenti improntati di reciproco rispetto e di solidarietà umana concreta: una catarsi a favore della laicità che purtroppo richiede tempo per realizzarsi. Ma Spinelli – che è considerato il papà dell’idea - e altri ci hanno indicato la via.
Anche l’arte nel ‘900 si è adeguata alle suggestioni di un mondo nuovo, vuoi per le scoperte scientifiche, vuoi per le teorie filosofiche, vuoi per la maturazione del pensiero, libero da gravami metafisici subiti passivamente. La poesia di Eugenio Montale pesca molto nella metafisica, ma lo fa con una bussola in mano, con una certa cognizione di causa consistente nel dubbio e nella ricerca responsabile, consapevole di scoperte e di delusioni. Il primo Montale (il migliore in assoluto) osserva se stesso che osserva le cose, compiendo il miracolo dell’indagine diretta, ovvero non mediata da scorciatoie soprannaturali. Egli non vede, ma guarda, compiendo così una rivoluzione nel rapporto fra uomo e realtà.
Dario Lodi