Dodici tavole d’argilla d’epoca babilonese, datate intorno al XII secolo a.C., riportano il primo poema della storia umana pervenutoci. Fu rinvenuto, nel XIX secolo, da archeologi di varie nazioni (il primo a scavare fu Paul-Emile Botta nel 1842), nella biblioteca reale del palazzo assiro di Assurbanipal a Ninive e attribuito allo scriba cassita Sîn-lēqi-unninni (“il dio luna è colui che accetta le mie preghiere”, il significato). Il poema ebbe nome “Epopea di Gilgamesh”. Nello incipit, lo scriba afferma di essere “colui che ha visto l’abisso”.
L’epopea di Gilgamesh, una rielaborazione
L’epopea di Gilgamesh è una rielaborazione di precedenti narrazioni, le prime risalenti a metà del III millennio a.C. in terra sumerica. Il nome Gilgamesh è registrato nella Lista Reale Sumerica di Uruk (nell’attuale Irak, il cui nome deriverebbe proprio da Uruk), poi è indicato fra le divinità mesopotamiche per divenire, infine, l’eroe d’imprese immortalate, in lingua accadica, nelle dodici tavole di Ninive. Il mondo è quello dei Sumeri, degli Assiri e dei Babilonesi; l’area mediorientale, punto d‘incontro di numerose civiltà, alcune consolidate, altre meno. L’economia dell’area è garantita dall’agricoltura (i primi canali d’irrigazione nascono qui) e dalla pastorizia. Quest’ultima favorì scambi commerciali e culturali. Tutto questo porta a comprendere la diffusione di miti e leggende e la relativa interpretazione e riproposizione nelle varie mentalità e contingenze. L’epopea in questione è una sorta di testo definitivo, una versione conclusiva di racconti orali primitivi. La conclusione non è ordinata come noi oggi intendiamo, bensì accetta fantasie poste su più piani, dando per vere dichiarazioni irrazionali, per oracoli spiegazioni favolose. Deve essere accettato il fondo che nell’opera si agita alla ricerca di una spiegazione del tutto. L’epopea è affascinante per il suo andamento irregolare, nel quale riversa una passione infinita per la ricerca del senso delle cose. Possiamo trovarci di fronte a delle assurdità, a delle esuberanze, ma possiamo anche volgere l’una e l’altra cosa in ricerca approfondita della chiave per giungere alla conoscenza assoluta.
Storia e morale
L’epopea presenta Gilgamesh re di Uruk che incita i giovani del suo regno a cacciare indiscriminatamente. Gli dei gli inviano allora il guerriero primitivo Enkidu (probabilmente per evitare che la fauna scompaia da Uruk). Gilgamesh procura a Enkidu la prostituta sacra Samhat. Quest’ultima combina un incontro fra i due, che si battono. Vince il guerriero, ma non prevale, anzi riconosce il potere divino del re e vi si sottomette. Insieme vanno nella Foresta dei Cedri per uccidere il guardiano Umbaba, vi riescono, nonostante costui avesse chiesto clemenza. Rientrati a Uruk, trovano Ištar, la dea dell’amore fisico, che si propone come sua sposa a Gilgamesh. C’è il rifiuto regale (i precedenti mariti della dea hanno subito un triste destino) e allora Ištar va a lamentarsi del trattamento dal dio An che subito spedisce contro i due il Toro Celeste. Però Gilgamesh ed Enkidu riescono a eliminarlo. L’ira degli dei si materializza con la decisione di uccidere entrambi. Il primo è Enkidu, per malattia. Gilgamesh, spaventato dall’idea della morte, va alla ricerca dell’unico sopravvissuto al Diluvio Universale (la tavola IX lo spiega), Utanapištim, il quale conosce una pianta della giovinezza. La pianta viene trovata, ma mentre Gilgamesh fa abluzioni sacre, un serpente la divora. Alla fine l’eroe si rassegna e precipita negli inferi. Questo in estrema sintesi e sorvolando parecchio sul contenuto della tavola XII, l’ultima, dove ritorna il personaggio di Enkidu, sostanzialmente solo per ribadire l’inevitabilità della morte. Questa versione babilonese dell’epopea di Gilgamesh è sicuramente intrigante per la presenza della personalità umana che cerca disperatamente di sottrarsi alle leggi della natura.
Gilgamesh, più uomo che dio
La storia va zigzagando fra problemi reali e problemi immaginati. I secondi, recepiti come insolubili, vengono affidati a rappresentazioni sovrannaturali, come se una forza superiore impedisse all’uomo di esprimersi liberamente e totalmente: una mano, identificata nel dio An o nel Toro Celeste, preme sul cuore dell’uomo sino a volerlo sbriciolare. Le decisioni degli dei sono imperscrutabili e vanificano l’azione dell’uomo. L’epopea si chiude malinconicamente, ma prima Gilgamesh ed Enkidu si fanno valere più del previsto. Le loro imprese sfuggono al potere di An e del Toro Celeste, abbattono il guardiano degli dei Umbaba e arrivano alle soglie della gloria immortale. In questo poema esiste in nuce tutto ciò che in futuro verrà scritto sulle vicende umane, sia quelle esteriori, sia quelle interiori. La forza dei due eroi è molto più spirituale che materiale. Non possiamo parlare di capacità intellettuali straordinarie – la ragione è appena in cammino – ma di sensibilità raffinata sì, per quanto espressa grossolanamente. La grossolanità è un lascito delle narrazioni primitive, aureolate di mille credenze dovute ad altrettante paure per l’ignoto. Gilgamesh intende superarle di slancio, grazie alla spinta di un’ambizione libertaria che sente come dovuta a se stesso. La sua divinità è questo volersi togliere dalla genia degli dei immaginati per mancanza di coraggio e per modesta convinzione di non possesso delle risorse adeguate a vivere sino in fondo la propria vita.
Semi religiosi e laici per il futuro
Il personaggio di Gilgamesh incarna il futuro sia del religioso sia del laico, nelle varie ramificazioni. L’epopea comincia con una visione animistica della realtà. Ogni cosa possiede uno spirito. A differenza dell’animismo classico, questo fornisce interpretazioni in carne e ossa. La dea Ištar che vuole amoreggiare con il nostro eroe ne è un esempio lampante. Più sfumato è il dio An perché in qualche modo idealizzato come saggio tutore della realtà. An sta a controllare ciò che fanno gli uomini e quando essi sbagliano, per inesperienza, per intemperanza, interviene a mettere a posto le cose. La sua autorità equilibratrice riguarda, tuttavia, anche il corso delle vicende umane. Nella correzione, An comprende il destino dell’uomo, ritenuto non in grado di fare da solo (perirebbe prima senza tutela). L’uomo, secondo An, non è diverso da un animale e neppure da una pianta. Egli non sa gestire se stesso e se osa farlo verrà schiacciato impietosamente. L’impietosità è un elemento nuovo nella narrazione delle cose umane. Essa aleggia nell’opera come una minaccia, costringendo l’uomo a prove eccezionali pur di sfuggirne. È tutta un’immaginazione eccessiva, accesa da un desiderio di autonomia e di dominio sopra tutto. Gilgamesh abbatte Humbaba proprio per questo: vuole togliere di mezzo il guardiano, ovvero la figura a metà fra dio e gli uomini, nel senso di servo degli dei. Enkidu è l’innocenza che si unisce al re agendo istintivamente, con intelligenza da buon selvaggio: la sua innocenza verrà tradita, egli sarà punito (la malattia mortale) senza aver avuto alcuna colpa. Dunque, sia l’uomo consapevole che l’uomo inconsapevole sono destinati a perire. In ultima analisi, Gilgamesh ed Enkidu si battono contro la natura che li ha creati, forse perché la natura vuole addirittura così.
La sospensione religiosa in Gilgamesh
L’opera non è frutto di fantasia tremebonda. In buona sostanza, Gilgamesh si spoglia del potere divino che si era attribuito, e che Enkidu gli aveva riconosciuto, e assume quello umano per eccellenza. L’antica promozione a divinità, fatta dai Sumeri, viene manipolata dai Babilonesi per onorare il funzionamento del sistema pratico. Se il sistema funziona privato, l’uomo può far funzionare il mondo intero a proprio piacimento. Cosa glielo impedisce? Gilgamesh parte alla ricerca degli impedimenti e ne trova di tradizionali che, approfonditi, diventano ostacoli quasi insormontabili. Occorrono espedienti. Se ne trovano e sembrano validi, ma infine non reggono a prove maggiori. Le prove maggiori si riferiscono a fenomeni inspiegabili e forse non raggiungibili dall’uomo. L’uomo deve sottostare a leggi supreme, deve piegarsi alla trascendenza. An ordina ed Enkidu muore. Gilgamesh lo vede morire. Fugge, sapendo che non sfuggirà. Si arrende? L’impressione è questa. Spiegherebbe il lungo futuro religioso che ha tolto parole sublimi alla voce umana. L’animismo e l’idolatria scoprono una ragion d’essere nella resa della ragione. Per Gilgamesh, in realtà, si tratta di una sospensione piena di amarezza inconfessabile. C’è una verità superiore e c’è una volontà razionale di comprenderla, di comprendere qualcosa del meccanismo del mondo, anche se, magari, poca cosa. Si pongono di traverso presunzioni e pretese, di carattere istintivo, che contribuiscono a creare fantasmi d’oro: gli dei e la loro misteriosa possibilità di condizionare ogni vita. An è il capostipite del demiurgo greco, ma anche del dio ebreo, di quello cristiano, di quello islamico. È un modesto traghettatore verso il vero, che, per la verità, non intende traghettare nulla, né può farlo. An è un riparo, è un simbolo, è un riferimento. Non è vero che gli uomini abbiano bisogno di tutto questo e che si accontentino di una certa confidenza con la divinità di comodo. Gilgamesh dice che bisogna andare oltre. Infatti, si toglie l’alone divino e si batte per la venuta di un uomo consapevole e responsabile. La morte non lo ferma, lo fa riflettere con più energia: l’energia maggiore è nascosta, ma c’è.
Dario Lodi