A COSA SERVE UN MUSEO?

 

Un’arte esclusivamente figlia del suo tempo che non trova alcuna tensione dialettica tra l’opera e l’assoluto è un’arte evirata e di breve durata, che muore moralmente nell’istante in cui si modifica l’atmosfera che l’aveva prodotta.   

V. Kandinskij

Partendo da questa citazione di uno dei più grandi artisti del Novecento, vorrei proporre una riflessione maturata in questi giorni, riguardo alle condizioni dei musei italiani d’oggi.

Kandinskij dice che un’arte esclusivamente figlia del suo tempo è un’arte evirata. Dando un veloce sguardo ai musei contemporanei si può facilmente notare che straripano di opere appena prodotte, di eventi artistici cui l’artista diviene protagonista, e pare che in pochi si chiedano quale sia la reale portata di queste opere d’arte, che valore avranno per la posterità, quale peso rivestano nella società contemporanea. Dinnanzi ai fenomeni d’arte contemporanea verrebbe da pensare a ciò che Gauchet chiama “l’individuo totale”, ossia colui che ritiene di non aver alcun dovere verso la società, ma tutti i diritti di un artista totale, o totalitario.

“se un tempo le opere esigevano una sanzione divina, oggi siamo entrati nell’epoca delle basse opere, l’espletamento delle funzioni naturali. Sono divertissements non più dei creatori romantici ma creativi contemporanei, comunicatori, fotografi, parassiti, di quelli che, diceva Mathurin Règnier pisciano nelle acquasantiere perché si parli di loro”.[1]

Ma anche gli oggetti che vengono conservati e sottoposti a tutela nel museo, oggi vivono una confusione che non ha avuto similitudini in precedenza. Collocare un oggetto esotico in un museo, defunzionalizzarlo, farlo divenire oggetto di studio, è un gesto di appropriazione e snaturamento che abbiamo nei confronti degli artefatti del passato e testimoni della nostra storia. Ogni arte nasce in un diverso contesto e con diverse funzioni, trascurare le sue origini, renderlo passivo d’essere scambiabile e commericalizzabile testimonia una noncuranza rispetto ad essi, uno svilimento anziché una valorizzazione. Già nel 1971, in una conferenza dell’ICOM (il consiglio internazionale dei musei), si iniziava a percepire questa confusione nei confronti delle culture non occidentali che varcavano, attraverso strani oggetti a noi incomprensibili, le soglie del museo:

“Visto che “sviluppo” si identifica con la civiltà del divertimento, i negri, con il loro folklore, già partecipano a questa civiltà. Se con i nostri progetti [la costruzione di nuovi musei], li aiutiamo a danzare e cantare meglio, se conserviamo in ambienti opportunamente climatizzati le statuette che fanno la gioia dei nostri bambinie dei nostri etnologi possiamo stare certi che, una volta effettuata qualche piccola ristrutturazione interna e installato qualche frigorifero nelle capanne di paglia, dopo due o tre decenni di sviluppo festeggeremo con loro [gli occidentali] la parusia dell’universale”[2]

Il museo moderno è il tempio di una cultura che il più delle volte non ci appartiene, esso celebra artisti resi tali dal mercato dell’arte, si fa portatore di “eventi culturali” che il più delle volte tradiscono la noia dell’individuo moderno in continua ricerca di stimoli. Ma cosa cerca lo spettatore moderno? Con quali aspettative entra a visitare un museo, e in che modo esce arricchito dalla visita? Molto spesso chi va a far visita a un museo guarda con curiosità gli oggetti esotici o appartenenti a un passato fin troppo lontano per essere compreso nei simboli che gli oggetti incarnano e rimane perplesso davanti ad opere contemporanee spesso criptiche e incomprensibili. La profezia citata da Benjamin di una nuova condivisione democratica della conoscenza e dell’uso del patrimonio artistico, grazie alla separazione dell’immagine riprodotta, alla sua diffusione e pervasività del tutto indipendenti dalla localizzazione fisica delle opere d’arte, dal suo hit et nunc di oggetto storico, sembra oggi clamorosamente smentita dalle folle che frequentano oggi le mostre e che esigono di poter vedere gli originali, riuniti per breve tempo in un luogo diverso dai contesti da cui provengono, per lo più i musei che li conservano.

Leggendo il parere degli esperti si evince che in realtà la densità di opere veramente desiderate dal pubblico è bassissima. Gli autori rinascimentali vanno per la maggiore, seguiti dai manieristi, qualche esponente del Settecento, i nomi più famosi delle avanguardie. Ciò non significa che il museo deve adattare le proprie collezioni e le proprie mostre temporanee al gusto vigente, ma sicuramente esso deve pensare dei nuovi modelli, studiare i recenti fallimenti, studiare i campi in cui è possibile intervenire senza danni per un maggiore sviluppo. Una delle domande poste dalla museologia è se il museo debba inseguire l’affluenza, come fanno i grandi canali televisivi. Studi recenti hanno evidenziato che istituzioni come la National Gallery di Londra, la pinacoteca di Brera di Milano o il Louvre di Parigi puntano sull’affluenza di un pubblico colto. Ma chi accorre a vedere una mostra temporanea organizzata da un museo -specie se questo ha fatto della buona pubblicità- ovviamente non fa necessariamente parte dell’elite della cultura. E tale tipo di pubblico è impreparato a guardare. Calcolando il tempo di sosta davanti a un dipinto, si constata che in una sala che accoglie capolavori, i visitatori li trascurano quasi tutti e solo dinnanzi a qualcuno si fermano per 5 o 6 secondi. Sarà qunidi necessario educare il pubblico, e probabilmente questo obiettivo potrà essere realizzato solo invitando il visitatore ad una visita frequente. Inoltre, sarebbe auspicabile che il museo instaurasse un rapporto di fiducia con la cittadinanza. Soprattutto nelle città turistiche, i musei vengono assaltati dai visitatori che arrivano da ogni dove, ma non hanno nessun rapporto con il singolo cittadino, che vede nella visita museale la stessa estenuante follia di un centro commerciale il sabato pomeriggio. Sarebbe quindi auspicabile da parte dei musei che promuovessero una mostra o la propria collezione come occasione e momento di approfondimento conoscitivo, una riflessione individuale e collettiva su aspetti e momenti di una determinata civiltà. Invece assistiamo sempre più al proliferare di mostre di scarso o nessun rilievo culturale, e molto spesso ciò avviene poichè raramente è il museo a decidere e realizzare una mostra, appannaggio dei politici.

È prbabilmente frutto di un retaggio di una cultura che non appartiene all’Europa, bensì all’America, che ha determinato dei cambiamenti di rotta nella direzione dei poli museali. La cultura americana non avendo sulle spalle il peso millenario della storia europea, è molto più libera rispetto al nostro continente. La libertà che gli appartiene si nota già all’inizio del secolo quando nel 1913 essi accolsero a gran voce il successo di Marcel Duchamp all’Armony Show. Un’arte slegata da ogni riferimento al passato era per gli europei inaccettabile ed incomprensibile, per gli americani invece fu in un certo senso, una liberazione. Un’arte senza passione, senza sentimento, senza riferimento ad una storia di cui l’America non sapeva cosa farsene, poichè non gli apparteneva, era un’arte perfettamente in linea con le aspirazioni americane. La visione totalmente laica dell’arte è un altro tratto distintivo della cultura americana. Gli Stati Uniti riuscirono a canalizzare l’attenzione sull’arte e ad essere mecenati e conservatori solo quando l’arte si staccò dai circuiti tradizionali di rappresentazione. Il museo nasce come depositario di collezioni private utilizzate per la pubblica fruizione. Ma queste collezioni, a differenza di quelle europee, divennero immediatamente suscettibili di alienazione, prestito, venidta, scambio. Per la cultura americana la collezione pubblica non soltanto il patrimonio spirituale che testimonia la storia di un paese, ma un insieme di merci dall’alto valore estetico. Il Museo, oltre ad essere depositario di opere d’arte, è altresì promotore e diffusore di cultura, sin dalle sue origini. L’adattamento che si è tentato di operare in Europa adattandosi agli standard americani è stato applicato parzialmente: dimenticando l’equilibrio diffusione- promozione tipico dei musei americani, per gli sponsor e per i governi europei il successo di un museo è misurato in base alla pubblicità che solo l’inaugurazione di nuove sale o l’organizzazione di mostre temporanee possono generare.

Siamo lontani dai tempi in cui i musei italiani rifiutano in maniera assoluta di prestare i propri capolavori per arricchire una mostra oltremanica. Oltreoceano era assolutamente impensabile. Oggi si fanno sempre più eccezioni all’elenco dei tesori nazionali o dei capolavori assoluti che per nessun motivo possono essere prestati, al limite di durata dei viaggi delle opere, al divieto di lasciar partire dipinti su tavola. C’è una considerevole riluttanza ad ammetterlo, o a suggerire il modo di porre fine a questa tendenza. La pressione per i prestiti, che nela prima metà del Novecento era di carattere politico, scaturisce attualmente dalle richieste di pubblicità e risorse che provengono dall’interno dei musei stessi.

L’ideale direttore moderno deve essere una persona dotata di buone relazioni politiche, fiuto per la pubblicità, energia e strategia negli affari. L’impegno profondo per il benessere delle opere d’arte di cui è responsabile spesso non è più una condizione peliminare per l’assegnazione di questo incarico, così come non lo è la conoscenza storico-artistica delle opere. I direttori vengono giudicati per i loro acquisti o per le donazioni che sono stati capaci di attrarre. Sono in pochi a chiedersi quanto le opere siano state effettivamente danneggiate da tutti questi spostamenti nazionali ed internazionali. Sembra quindi che il museo sia divenuto un grande organo pubblicitario, utilizzato dagli stati per incrementare il turismo e favorire il mercato dell’arte. Il museo non è più il depositario dei simboli della storia di una nazione, bensì contenitore di merci di grande valore che, se opportunamente maneggiate, possono fruttare una ricchezza economica non indifferente.

 

 



[1] Ivi, p. 62

[2] Vagues. Une anthologie de la nouvelle muséologie, p. 132

 

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