Django Unchained, di Tarantino, è un film che divide. Ad avallare questa affermazione riporto i giudizi dati da due critici competenti e accreditati, firme dello stesso quotidiano, il più importante del Paese. Uno scrive “Tarantino finisce schiavo della sua voglia di stupire” e attribuisce due stelle e mezzo. L’altro risponde: “… un film di tre ore che scoppietta di gioia e voglia di cinema. Da vedere.” E attribuisce quattro stelle. Se il film divide due grandi firme come quelle è legittimo che divida due firme di generazioni diverse: Pino e Rossella Farinotti. Dunque: opinioni a confronto.
P.F. Intendo subito sfatare quello che viene ritenuto un mio pregiudizio su Tarantino. Uno può non condividere anche senza pregiudizi. Faccio rilevare che per la copertina di un mio libro “Storie di cinema” scelsi un primo piano del regista. Sono perfettamente conscio del suo talento e dell’incidenza sul cinema contemporaneo. Dico semplicemente che il talento andava speso meglio. Su “Django” non posso non condividere la qualità del racconto, la capacità di seduzione, insomma il “cinema”. Però mi concedo di rilevare l’eccesso di violenza. Talvolta davvero “dolosa”. Come se Tarantino avesse deciso di battere tutti i record in quel senso. Cito le sequenze della lotta in salotto fra i due mandingo, e poi i cani che sbranano lo schiavo, e ancora la sparatoria finale, record del mondo di ammazzati e di sangue che tutto imbratta. Mi sembra che l’ultimo Tarantino percorra la strada dell’ultimo Pasolini, che si era concesso troppo, attribuendo ai suoi personaggi le proprie patologie. E’ vero che la violenza non dà più fastidio a nessuno, anche a critici ultrasettantenni cresciuti con modelli diversi. Certo, il mercato ha le sue esigenze. E purtroppo Tarantino si attribuisce una franchigia che ritiene di essersi guadagnato: quella violenza l’ho inventata io, e ne faccio ciò che mi pare. E che nessuno osi criticare.”
R.F. Un giornalista del Corriere della Sera mi chiese se io e mio padre ci siamo mai scontrati sul giudizio dei film, per via della differenza di generazione, gusti, background, insomma per le personalità diverse che abbiamo,e si divertì molto quando gli dissi che nell’ultimo Farinotti (il 2013) abbiamo quasi litigato proprio su Tarantino, e su un titolo in particolare, Bastardi senza gloria. Io gli avrei attribuito 5 stelle, per la storia sicuramente, per quel modo paradossale di vedere i nazisti, e soprattutto per ciò che Tarantino rappresenta. Ma ho perso. Gli abbiamo dato 4 stelle, che non sono poche. Django unchained non è un film da 5 stelle, forse da 3, ma è comunque un’opera alla Tarantino, dove l’autore mette ancora una volta se stesso, la sua cultura, mai banale, profondamente minuziosa in ogni singolo dettaglio. Nessun nome, nessuna musica, o espressione, o luogo, o battuta è mai casuale. Anche se a volte sembra voler vendere allo spettatore certi codici surreali rintracciabili solo nei Cohen, ma strutturati in chiave dadaista. Il non sense tarantiniano. Django è un film violento. Ma è la violenza esagerata, grottesca e ultrafinta di Tarantino. Il sangue a schizzi: vernice pura, che quasi fa ridere. E fa ridere non perché vogliamo beffarci della violenza, ma perché lui ci ricorda sempre che siamo in un film, anzi, che siamo in un suo film, ed è tutto finto. In Django c’è un personaggio positivo (nonostante la sua professione di cacciatore di taglie, insomma i cattivi sono quelli cui dà la caccia): il dottor King Schultz, interpretato da Christoph Waltz che in questi ruoli ormai ci sguazza, con talento e ironia. E rilevo anch’io, per riallacciarmi a quello che mio padre ha scritto sopra, che una latente ammirazione per Tarantino c’è anche da parte sua, mi rifaccio a quella copertina, che raffigurava Quentin secondo la creatività di un artista spagnolo, Albert Pinya, che aveva firmato il dipinto originale.
P.F. Sempre il virtù del mio pregiudizio che non c’è, non posso non apprezzare la scrittura. Io sono conquistato dalla scrittura, specie da quella di un regista perché è una cosa molto rara. Il dialogo è di alto livello: umorismo, cultura, persino momenti di eleganza letteraria. Che peccato… spendere così quella qualità. E poi il gigionismo, quell’attitudine a mostrare sempre i muscoli gonfiati al massimo. Non c’è una sequenza che non sia costruita per stupire. Ogni scena è una scena madre, come se i momenti di raccordo, lenti, neutrali, fossero veleno, mentre a volte sono necessari. Sopra ho scritto “gigionismo”. E’ un atteggiamento che porta il regista a non sapersi vedere e criticare. La verbosità generale Tarantino l’ha legittimata da sempre, proprio in virtù della sua scrittura. Ma poi c’è l’eccesso che non riesce a vedere. Alludo alla sequenza del Ku Klux Klan. Un quarto d’ora perso su un inutile dibattito su come la moglie di un certo membro abbia cucito male i cappucci, disponendo male i buchi per gli occhi. Il concetto è ancora “Io sono Tarantino, e non è possibile che possa annoiare, e se sbaglio il tempo del racconto, non è sbagliato ma siete voi che no capite.” Invece sbaglia.
R.F. Django unchained mi è piaciuto a metà. E ho incominciato a cogliere questa sensazione proprio dalla scena del Ku Klux Klan: lunga, eccessiva, non più solo grottesca, ma noiosa. E Tarantino non deve annoiare. La prima parte di Django era più ironica, più tarantiniana …poi verso la fine forse il regista, che è anche comparso con il suo solito cammeo senza il quale ci sarebbe mancato, in cui si mostra grasso e maldestro, si è lasciato un po’ andare …dilungandosi, non con la solita studiata intelligenza. E dunque la scena (che ricorda molto Fratello dove sei dei Cohen) è superflua. Su questo concordo con Pino Farinotti. Come condivido il tema culturale che, come ho scritto sopra, è sempre alla base nei film di Quentin Tarantino: dalla cultura pop come può essere una canzone di Madonna (Le iene), a quella più sottile di una certa corrente underground e soprattutto al cinema italiano del passato, ripreso sotto diversi aspetti, dalla presenza del bel Franco Nero, fino alla colonna sonora, con la riproposta della canzone originale di Ennio Morricone ricantata da Elisa. Il tutto per raccontare una storia d’amore. Perché è qui che Tarantino stupisce: Django unchained è una forte e passionale storia d’amore.
P.F. Chiudo con una considerazione generale, su cosa rimarrà, nel tempo, di Tarantino. Presento un dato interessante: il magazine inglese Sight and Sound che ogni dieci anni stila una classifica dei più grandi film del mondo, nei primi cento non pone neppure un “Tarantino”, eppure appaiono molti autori contemporanei. Non che quella classifica sia la verità assoluta, ma certo è un segnale che ha un suo peso. E’ giusto così. Perché nei film di Tarantino vale il linguaggio, l’estetica forte, i contenuti detti sopra che certo fanno audience. Vale anche l’originalità del racconto. Spesso la dinamica prende direzioni improvvise e impreviste, contro gli equilibri codificati del racconto. Oppure si inventa paradossi e licenze abnormi, come quell’Hitler morto in un cinema. Il tutto è suggestivo ma la grande qualità è un’altra cosa. Ciò che manca è il grande contenuto, l’indicazione umana, artistica, sociale. Tarantino ci gira sempre intorno. Gli interessano contorno, citazioni e confezione. Citazioni e confezioni stupende, irresistibili. E certo ne è consapevole, ma intanto l’opera che cambia il mondo non la firmerà mai. E come fare la Primavera del Botticelli senza la primavera, Via col vento senza Rossella, Il Gattopardo senza il principe di Salina. Rappresentando tutto il resto senza i grandi protagonisti.
Il tutto… 3 stelle.
R.F. Ma guarda, come me.