È in corso al MADRE di Napoli la mostra intitolata “Dei” di Gianluigi Colin, l’apprezzato art director e responsabile delle immagini del Corriere della Sera che ha saputo fare della propria vocazione iconica un’autentica ispirazione artistica. Il ciclo che si può apprezzare nella suggestiva cornice napoletana è quello delle “Mitografie”, realizzate tra il 2009 ed il 2011. Come un bricoleur di rivelazioni figurali, Colin seleziona dai quotidiani immagini capaci di veicolare una intuizione, per poi stropicciarle, fotografare l’icona sottoposta a questa sorta di centrifuga informale, stampare il file su carta di giornale ed incollare il tutto su di un letto-palinsesto predisposto con altri lacerti di carte di giornali. Sulla superficie così ottenuta, re-interviene, infine, con nuovo impeto distorsivo.
Queste opere, nei cui titoli si allude a Mercurio, Marte, Saturno e Venere, rifondano con l’esprit del postmoderno il mito, assorbendo con vischiosità frammenti del contemporaneo, a volte semplici sopravvivenze disperse in una muta bulimia visiva che diventano, rivitalizzati nella riformulazione combinatoria, persistenze mito-estetiche in grado di parlare con voce viva e memoria oracolare.
C’è un aspetto della poetica di Colin con cui vale la pena dialogare, lasciando che ci suggerisca l’implicito vademecum della recente mostra napoletana, seguendo l’eco di un ciclo del 2003 dal titolo “Piero e il suo doppio”. Sia pure nel rispetto della capacità di rinnovamento dell’artista, mi sembra che da quella serie di opere sia dato attingere un afflato che in forme diverse si esprime anche nelle installazioni del MADRE.
Piero della Francesca (San Sepolcro, 1416\17-1492), è noto, fu tra gli interpreti di punta della fase embrionale del Rinascimento italiano, quella più vivace della dialettica tra le corti del Belpaese, in cui il pittore originario dell'Alta Valle del Tevere levò fieramente il proprio stendardo nella corte di Urbino all’insegna di uno studio precoce e sensibile della prospettiva e della geometria, con cui diede luogo ad immagini solidificate, astraenti, di regolarità impassibile e quasi metafisica, senza le ricadute fiabesche d'un Paolo Uccello. È singolare che un’arte così protesa all’epurazione, meglio, alla sintesi – Roberto Longhi scrisse di “sintesi prospettica forma-colore” – venga messa da Colin in dialogo con l’apparente quintessenza del contingente in arte, ossia col ritratto fotografico, e più precisamente quello di August Sander (Herdorf, 1876 – Colonia, 1964), il fotografo tedesco che dopo un cursus formativo da dilettante nell’ultimo decennio dell’Ottocento propose lungo il primo quarto del secolo successivo, ed oltre, l’opera maturata nel laboratorio di Colonia, con alcuni cicli memorabili come “Uomini del XX secolo” (1911) e “Volti del nostro tempo” (1929).
Vien da osservare, innanzitutto, che l’operazione di Colin è criticamente avveduta nella propria suggestività. L’individuo raffigurato in foto con tanto di rughe ed insegna sociale da Sander risulta solo ad un livello superficiale d’indagine l’espressione antipodica dell’umanità tipizzata, quasi archetipica di Piero della Francesca: come ne scrisse sin da subito Thomas Mann, il volume pubblicato da Sander fu “la rivelazione di un tesoro per gli amanti della fisiognomia ed un'eccezionale opportunità per lo studio dei tipi umani caratterizzati dalla professione e dalla classe sociale”. Se si decanta l’impressione di Mann dal residuato positivistico di fine Ottocento, si potrà convenire col tedesco che le fotografie di Sander – che aveva aderito al Gruppo degli Artisti Progressisti ed alla loro Nuova Oggettività – sono percorse da una tensione interna tra particolare ed universale, tra l’hic et nunc dell’esistenza e la tendenza archetipica della foto-documento, con gli stessi protagonisti del ritratto che paiono assumere pose ed atteggiamenti del tipico piuttosto che del personale. “Farmer from the Westerwald” (1910), ad esempio, è l’involontaria tipologizzazione di se stesso, non meno di un pitocco o di una dama del Ceruti (Milano, 1698 – Milano, 1767) o di qualche altro serioso “pittore della realtà” lombardo del Seicento, se non addirittura d'un settecentesco dall’umore illuminista. Il contadino dallo sguardo brutale, senza riverenze ma con molte diffidenze, che fissa l’obiettivo, stringendosi grifagno al bastone in un gesto consuetudinario che si fa “carattere” – la posa arcigna, il diaframma introverso frapposto al piano visivo, la fierezza consumata del lavoratore: tutto, nella foto di Sander, tende a trapassare al tipo “umano”, nonostante – o forse “a causa di” – l’oggettiva e ficcante interpretazione fotografica dell’individuo ritratto.
La Madonna di Piero del Polittico della Misericordia (1445-1462, Museo Civico di San Sepolcro) che nel poiein di Colin vede sovraimprimersi al fondo oro una foto di Sander con un gruppo di fanciulli attorno ad una suora, conosce, come nelle mitografie, quella mistione di neutralità atemporale e vissuto storico particolare che nel ciclo “Piero e il suo doppio” vive nell’implicita impossibilità del doppio: l’irreplicabile della foto trascina la stessa metafisica pierfrancescana nell’alveo della contingenza, con il bianco e nero che piccona il fondo oro, poiché la non-scrittura della foglia aurea e del suo simbolismo trascendente viene messa in dialogo con la “scrittura-della-luce”, alla lettera dal greco: “foto-grafia”. L’immagine torna a parlare, nell’alchimia che del linguaggio fa la voce: così come il lacerto oracolare dei giornali nelle mitografie. Questione di essere un buon bricoleur – o piuttosto: buoni oracoli.
Antonio Maiorino