Si è fermata più del previsto al MADRE di Napoli la mostra Still Untitled di Sisley Xhafa, il giovane artista kosovaro-albanese salito alla ribalta internazionale in occasione della 47esima biennale di Venezia, allorché s’infiltrò per proporsi come Padiglione albanese clandestino, vestito da calciatore della nazionale albanese, girovagando con una radiocronaca registrata di una partita di calcio e con una bandierina, palleggiando ed invitando la gente a giocare a pallone. Ma non è delle doti calcistiche di Xhafa che intendiamo parlare, né ricognire la smobilitante mostra napoletana. Il nostro viaggio si ferma alla prima stazione, ossia all’opera che al terzo piano del museo lo spettatore incontra nell’intraprendere la propria visita alla mostra del provocatorio artista.
L’opera è intitolata Barka. Se fossimo stati di fronte ad un lavoro dei secoli precedenti, avremmo intrapreso scolasticamente la nostra prolusione scrivendo: “essa rappresenta...”. Il fatto è che nell’arte contemporanea siamo più spesso di fronte ad essenze che a rappresentazioni, con lo spazio dell’arte che ha invaso lo spazio della vita: proprio come un artista, con clandestinità subito assorbita, invaderebbe il padiglione di una Biennale. Barka, dunque, non rappresenta, ma è: per la precisione, una barca costruita interamente con scarpe incollate, che sagomano la forma ed il volume del natante. Ma questo è il problema: è un natante? Se Magritte fosse presente, inviterebbe provocatoriamente ad usarla per navigare, così come per chiarire il senso della famosa “pipa” con la scritta sottostante Ceci n’est pas une pipe (Questo non è una pipa) del 1928-29, avrebbe invitato a fumarla. Tecnicamente impossibile: perché quello, appunto, non è una pipa, ma l’immagine della pipa.
La barca di Xhafa non è più un’immagine, ma un oggetto. Eppure, non meno di un’immagine bidimensionale si costituisce secondo un sistema di segni a cui si associa un significato che supera il profilo semiotico in senso stretto ed acquista un’identità altra, di simbolizzato che divora il simbolizzante. Inutile la pipa di Magritte, inutile la barca di Xhafa: icone entrambe, una bidimensionale, l’altra tridimensionale. Ma il passaggio dal trompe l’oeil del surrealista belga all’invadenza fisica dell’opera dell’artista albanese è funzionale a materializzare la scomoda corporeità di una realtà sociale il cui impatto è misurabile costantemente nello spazio della vita. Il dramma degli immigrati e dei loro viaggi della speranza che diventano odissee da incubo, si rinviene quasi ogni giorno nell’informazione massmediatica, ma altro è essere spettatori di un’opera in cui le scarpe consunte ed appiccicate evocano con diversa capacità di prurito fisico il senso del viaggio: che è sconcertante quando è un non-senso, un essere-gettati in un barcone come se si stipassero scarponi in una scarpiera. Stride, e fa male, vedere nel dettaglio che molte scarpe sono di marca: è già un corto-circuito schiantante, una distonia visiva e metaforica tra la realtà dell’immigrato-viaggiatore, che possiede solo “il viaggio”, e quella del paese di destinazione, dove alla povertà fa da contraltare un consumismo usa-e-getta.
Pensavo a due barche piuttosto famose della storia dell’arte, della medesima temperie. La prima è La barca di Dante, un olio su tela del 1822 (Louvre) di Eugène Delacroix . La seconda è di un altro pittore romantico, anch’egli francese: Théodore Gèricault, ed alludo a La zattera della Medusa, di tre anni prima ed anch’essa conservata nel museo parigino. A parte il fatto che, a mio avviso, dal punto di vista formale l’opera più tarda – quella di Delacroix – riprende una struttura affine a quella precedente di Géricault – specie nell’assunzione di uno schema tendenzialmente piramidale –, l’aspetto interessante è che nel caso di Delacroix il tema esprime un interesse tutto romantico per la letteratura medievale, e segnatamente il cupo soggetto della Divina Commedia; in Géricault, invece – ed all’epoca non fu cosa da poco indirizzarsi verso una simile opzione – è un fatto di cronaca a sostanziare la rappresentazione, precisamente il naufragio della fregata francese Méduse, avvenuto il 5 luglio 1816 sulle coste dell'attuale Mauritania, probabilmente per negligenza ed imperizia dei suoi comandanti. Delle 147 persone imbarcate, solo 13 riuscirono a salvarsi, raccolti dai soccorsi sulla zattera di fortuna improvvisata come natante – questa, si.
Quando si dice che le radici dell’arte del XX secolo ed oltre sono nel secolo precedente, non si millanta una futile sensibilità critica, di chi riconosca – un po’ retoricamente, più che con reale comprensione – il continuum della Storia. Se si pensa che il tema di Delacroix era tutto letterario, mentre quello di Gericault segnava un’irruzione della tragedia contemporanea nell’opera d’arte, s’intenderà come l’impatto dell’opera di quest’ultimo potesse produrre uno shock visivo nei confronti di un’opinione pubblica che dal quel fatto di cronaca era stata profondamente commossa. Eppure, è così vero che siamo davvero ai primissimi vagiti di un’arte “contemporanea” – secondo la relativa contemporaneità dell’epoca – rispetto a quella a-storica, idealizzata con culmine in Raffaello - o Michelangelo: chiedere a Vasari - e sconcertante discrasia temporale in tutti i revival dell’eclettismo Ottocentesco, che lo stesso Géricault ha ben presente, in prima istanza, il problema dei mezzi del “rappresentare”: al punto da omaggiare variamente Caravaggio e David.
Ma superato l’anno del Signore 2000, “rappresentare” – con tanto di rielaborazione individuale degli stili dei Maestri del passato – non è più il problema che pressa maggiormente l’artista. Ha dichiarato Sisley Xhafa: “La realtà è più forte dell’arte. Come artista non voglio riflettere la realtà ma interrogarla. Il mio background sociale non abbraccia una linea d’azione razionale. Affronto il mondo e la vita guidato da un istinto primordiale”. Non più riflessione – dello specchio artistico; ma riflessione – intensa come il (ri)pensare – sulla realtà. Le barche di Delacroix e Géricault sono naufragate con Magritte: nel mare magnum di un’arte che prende coscienza dei propri limiti linguistici e viene piegata a farsi essa stessa realtà, se sulla realtà ha intenzione di intervenire. Prendere o viaggiare: tutta la tradizione occidentale aveva “preso”, ossia posseduto razionalmente con i mezzi della visione artistica l’oggetto della rappresentazione, dallo specchio di Brunelleschi in avanti; l’arte contemporanea è un viaggio nella realtà, dove l’arte e la vita hanno necessità di mescolarsi. Come un paio di Converse, ed il sangue di un immigrato – che non è visibile, ma è reale.
Antonio Maiorino