La pubblicità del male

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DAVIDE VALENTI

di Francesco Sala

 

C’è un brano musicale che
accompagna bene questo testo qui:
“Venite anime profondamente ferite”
da La Passione secondo Giovanni
J.S.Bach

Quando hanno ammazzato Falcone avevo nove anni. Stavo guardando la televisione – i cartoni animati – seduto sul tappeto come dicevano di non fare: sul divano, dovevo stare, che sennò ero troppo vicino allo schermo e ancora un po’ mi dovevamo mettere gli occhiali. In sovraimpressione quella striscia bianca che annuncia la messa in onda imminente di un’edizione speciale del tiggì.
La portafinestra già aperta. Una promessa dell’estate. Il tappeto, sotto le gambe nude, punge troppo caldo. Dal balcone di fianco i cocci acuti dei piatti di Ida: sbatte le stoviglie sulla tavola, e dal fornello sparge per via Togliatti profumo di bistecca.
Come parte il telegiornale vado in cucina e lo dico a mamma. C’è anche papà: deve essere sabato, oppure domenica se non lavora. Mio fratello, grasso come non lo sarà mai più, armeggia dietro un giochino: il suo trono è il seggiolone, ride sempre. Se ne ha l’occasione.
Non ci avevo pensato mai troppo a Falcone, a quando l’hanno ammazzato, prima di vedere le opere di Davide Valenti. Prima di vedere il lavoro che ha portato a Piacenza e Favara – con lo stucchevole codino di chiacchiere polemiche trite e già stufe.
Davide mi ha riportato a quel giorno lì; a quel pomeriggio praticamente già sera; a mio fratello tondo nel seggiolone e mia mamma che non ci crede hanno esploso Falcone – io che nemmeno so chi è – mentre lei fa una faccia che le ho visto solo quando hanno detto a nonno che aveva un brutto male.
Davide ha preso una mannaia e l’ha fatta cadere sopra il velo della retorica, sopra la banalità: il filo – sottile affilatissimo – ha sciolto come burro le pietà di maniera; ha riconsegnato Saviano alla sua ammirevole dimensione di cronista. Il Re è nudo. Non che ciò cambi proprio niente nel nostro modo di leggere le cose. Però è nudo, le carni bianche e flaccide ondeggiano oscene al fuoco di danze perverse.
Una campagna pubblicitaria che parifica la Mafia a qualsiasi altro corpo dello Stato. Pubblicità progresso. Spot per radio e affissioni pianificate: accecanti 6X3 bucano i lati delle strade. Via etere il colpo di una pistola scompare sotto il botto di una lupara. Le dimensioni contano: la Mafia è sicurezza. Roma piglia alle aziende il 40% del loro fatturato, tradotto in tasse. La Mafia appena il 20, tradotto in pizzo. La Mafia conviene: è matematica delle più semplici.
È provocazione, quella di Davide? No.
È il pane buono, buono davvero, dato al pane; il vino, fatto col cuore, dato al vino. Le parate di papaveri incorniciate negli squilli di tromba: eccolo il 2011, anno dell’anniversario dell’Unità d’Italia. Centocinquant’anni di tenuta, per lo scotch con cui ci ostiniamo a tenere appiccicati i brandelli di una terra chiamata Paese. Centocinquanta menzogne moltiplicate per trecentosessantacinque: migliaia di giorni incasellati nel mantra di uno Stato che marcia di pari passo con il Marcio; che collude collide collima con l’arte di arrangiarsi; contempla, tollera infine sostiene – implicito? – la maggiore industria d’Italia.
 

 

La Mafia. Per fatturato l’azienda più sana. Leader dell’import-export. Lo dice anche quel ritaglio di apertura pagina scippato a La Repubblica, che Davide ha voluto replicare ingrandito sotto il anso delle auto in fila per entrare al cento commerciale.
E ancora, la solita domanda: è provocazione? No. È realtà. L’hanno capito i questurini, che chiamano a rapporto gallerista e curatore; l’hanno capito, a tempo debito, i giornalisti: non ce l’hanno fatta a lanciare la polemica a tutti i costi.
Prova a cancellare la Mafia, domani, con una bacchetta magica. Prova a prenderti cura delle migliaia di persone che sfama, ma attenzione: non i capi incensati nelle prigioni dorate di splendide bagasce ed auto di lusso a sfondarsi il semiasse sui marciapiedi. Prova a dare da mangiare alle generazioni cresciute a pane e Mafia, allenate al piccolo raggiro, alla commissione senza rendere conto di cosa c’è nel pacchetto che portano dal punto A al punto B della città. Glielo dai tu un lavoro, ora, Stato? Cosa ci fai delle centinaia di ragazzini che appena sanno scrivere; e per cui Cina è giusto il nome di una gastronomia; e che competitivo lo leggono giusto sulla Gazzetta nelle sessioni di calciomercato?
La Mafia non produce ricchezza diffusa, forse. Non contempla benessere o redistribuzione degli utili. Conosce però un ordine, che noi ci ostiniamo a non accettare. Benché esista. Negare la malattia non guarisce dal cancro: che pure è una forma alternativa di organizzazione dell’organismo. Alla fine letale, ma a suo modo ordinata. Funzionale.
Non c’è Stato ed anti-Stato. Non c’è Bene o Male. C’è un territorio. Unica identità riconosciuta e riconoscibile. E ci sono due classi sociali, due classi economiche, due politiche, due etiche che si fronteggiano per il predominio.
Ancora una volta: Davide Valenti ci provoca? Ci insulta? Ci ferisce?
Ancora una volta: no.
Registra il reale. Registra il plurale del reale: l’effettiva compresenza di due anime che si raccontano fuori da un’implicazione morale; oltre la morale. Davide Valenti, che non è nato artista – ma filosofo – arriva ad una lucidità di analisi sull’Italia pari a quella, presa per visionaria, che ottant’anni fa Spengler ha avuto dello scontro tra Oriente e Occidente.
Davide mi ha riportato alla mia piccola finta estate del ’92. Alle notizie insensate e incomprensibili. Al rumore delle donne che preparano la cena. Al mio balcone, grasso di gerani.  Davide si è caricato sulle spalle il punto di vista più onesto che la sua – mia – generazione possa avere: noi, veri figli di mezzo della Storia, esclusi dalle frattaglie di una rivolta buona solo per chi non ha piedi per terra. Noi che abbiamo solo fotogrammi di ricordi di cos’era l’Italia prima della pioggia di monetine davanti al Raphael; noi che il primo telegiornale aveva Silvia Kramar in diretta da Baghdad. Noi lontano da tutto eppure così vicini a tutto. Noi abbiamo un dovere nei confronti della Storia. Quello dell’onesta. Un dovere, un debito, che Davide oggi paga per tutti.

file audio:

http://www.davidevalenti.it/mafia_5.html

 

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