Il tocco di Bruno Schulz
A chi ama la scrittura semplice ma incisiva, parola dopo parola, non può sfuggire un autore come Bruno Schulz (1892-1942): due i suoi libri davvero significativi. “Le botteghe color cannella” e “Il sanatorio all’insegna della clessidra”. Già i titoli fanno pensare a qualcosa di misterioso, di alchemico: fanno pensare a racconti gotici. Specie ne “Le botteghe color cannella” si resta invece spiazzati. Schulz va alla ricerca di una realtà che in fondo non vuole scoprire, ma immaginare come modificabile dal sentimento. A un certo punto, per una dimenticanza, già a teatro, il padre spedisce il giovane Bruno a farvi fronte. Sarà una specie di viaggio solitario nel mondo, in una notte buia, con la strada che non finisce mai, il fiato sospeso. Bruno sarà colpito da mille stupori per il panorama che cambia ad ogni passo, per le luci che improvvisamente si accendono e si spengono, e godrà di un piacere interiore, inenarrabile, per la consapevolezza di avere per sé tutto quanto. E’ la voglia di essere immesso nel flusso della vita, e di quella più piena, a guidarlo e a fargli credere, lui consenziente, di essere nelle cose, nei colori, nei pensieri dei pensieri, nella dolcezza di una immaginazione viva, presente, e nella gioia dei propri palpiti per le rivelazioni di sé e del tutto, il tutto come accoglienza nella propria eterogeneità di proposte.
Bruno Schulz, polacco, ma cittadino austriaco (l’Austria amministrava la sua regione, nell’ambito dell’Impero Austro-Ungarico: oggi Drohobyc, la città natale di Schulz, è in Ucraina) deve la sua fama agli aiuti degli scrittori, glorie polacche, Witkiewicz e Gombrowicz che lo aiutarono a pubblicare. La decisione di scrivere gli venne da un’altra scrittrice, Zofja Nalkowska, innamorata del suo stile, del suo tocco.
La letteratura di Schulz è tipica della mentalità mitteleuropea. Nel suo caso, si può notare l’accentuazione personale consentita da una lunga pace sociale che neppure la Prima guerra mondiale riuscì a scalfire. Drohobyc era una città periferica e dunque questa pace sociale era ancora molto sentita e praticata. Il nostro scrittore, appartenente a una media borghesia, poté, in questa sorte di eden civile, sviluppare tematiche intimiste, così come aveva fatto Kafka (del quale tradusse “Il processo” in polacco corredandolo di note acute e preveggenti la grandezza sia dell’opera che dell’autore). L’espressione di Bruno Schulz è personalissima e originale. Egli si perde lucidamente nelle sue elucubrazioni apparentemente semplicistiche, in realtà dotate di una specie di meccanismo interiore che le complica frase dopo frase. Ma la complicazione non è diretta a fornire super concetti, quanto a stabilire qui e ora la realtà della frase pensata e pronunciata. Schulz opera il tentativo, forse assurdo, di concretare ciò che vede e ciò che sente, come se il visto e il sentito potessero essere oggetti da contemplare. Il nostro scrittore in fondo ci crede e vive questa sua fantasia senza curarsi d’altro.
L’altro gli arrivò fra capo e collo nel 1941 con l’Operazione Barbarossa (invasione tedesca della Russia). I tedeschi occuparono Drohobyc e Schulz fu rimosso dall’insegnamento di educazione artistica in quanto ebreo. Finì nel ghetto. Conoscendo bene il tedesco, divenne assistente di un ufficiale delle SS, l’austriaco Felix Landau, reo d’aver ucciso l’assistente ebreo di un suo amico, tale Karl Gunther, del quale, per vendetta, Bruno Schulz fu vittima (così in Ficowski, Jerzy; Robertson, Theodosia S. (2004). Regions of the Great Heresy: Bruno Schulz, a Biographical Portrai. W. W. Norton & Company. p. 252; lo si precisa perché la notizia è controversa).
Moriva ammazzato per strada, il 19 novembre 1942, un intellettuale particolare, ingenuo e sognatore, aperto al mondo, sensibile e razionale allo stesso tempo. Si chiudeva brutalmente un’epoca di notevole civiltà e se ne apriva un’altra piena d’incognite, della quale siamo vittime tuttora. Un bel ricordo di Bruno Schulz è in “Saggi in forma di battute” del grande slavista Angelo Maria Ripellino. Bello e commovente. Bruno lo meritava. Assolutamente. (Dario Lodi)